ArtInterviews

 

Un vortice di immagini e parole

Zàbara e Zabàra

 

Dal 15 settembre al 10 ottobre sarà possibile visitare, su appuntamento, la mostra Zàbara e Zabàra di Giulia Sofi da ALL, neonata fucina di idee sorta in via Chiavettieri 29, nel bel mezzo della Vucciria. Il titolo della mostra è un’espressione verbale siciliana che si fa immagine e assume le fattezze di due parlanti che idealmente la pronunciano, una figura maschile e una femminile, che differiscono solo per un accento, entrambe impersonate da Sofi. La sua pratica e ricerca artistica si coniuga qui in forma di fotografie (Zàbara e Zabàra), sculture (La torre di Baab e I popoli della testa) e una traccia audio o miscellanea di audio (Il cavallo di canaglia) con la voce di Maziar Firouzi. Tra le pareti di ALL si compone così un universo linguistico che ospita umani, animali e un manieristico vortice di espressioni che si concretizzano in forme, colori e materiali molteplici. Attraverso l’uso di diversi media Sofi riesce a dare voce e spazio all’infinita congerie di genti e popoli che sono nelle nostre teste, che continuamente cambiano linguaggio, fino talvolta a non capirsi. Giulia Sofi è risultata vincitrice, con menzione speciale da parte della giuria, della 15° edizione del Premio Combact Prize, nella sezione fotografia con Glossaria, realizzata nel 2024.

 

 

Mostra Zàbara and Zabàra da ALL

 

Intervista doppia a Adriano La Licata e Giulia Sofi 

 

Quando e come nasce ALL?

Adriano: ALL è un project space nato nel 2024 a Palermo, nel cuore del mercato della Vucciria. Un vecchio magazzino trasformato in spazio per l’arte contemporanea, luogo di resistenza culturale, dove la creazione di comunità e la sperimentazione artistica convivono in un ambiente aperto, complesso e, a tratti, imprevedibile. Nessuno schema rigido, anzi, ALL è al contrario, una realtà duttile ed elastica. Vuole essere una piattaforma indipendente dedicata alla ricerca, produzione e condivisione di pratiche artistiche contemporanee. ALL è un ibrido tra artist-run space e laboratorio di idee e ricerca. Aperto alla sperimentazione, propone mostre, eventi e progetti site-specific che alimentano il dialogo tra il contesto sociale e artistico di Palermo e la scena internazionale.

 

 

Cosa significa l’espressione siciliana Zàbara e Zabàra?

Giulia: Rispondo alla domanda con la sua definizione: << Per dire che una cosa, una convinzione, un’argomentazione vale l’altra apparentemente contraria. >> A fornirla è la memoria di Leonardo Sciascia, che ne esplica il significato nel suo Occhio di capra. Lo scrittore di Racalmuto fornisce pro futuro una serie di vocaboli ed espressioni di parlanti – sa già che spariranno – così da ricordarne le fantasiose composizioni verbali, colorite battute e un insieme linguistico condiviso anche se con pochi. Nel mondo ormai spostato verso la dimensione del globale, Sciascia tiene a testimoniare quanto invece sia presente e importante la dimensione locale. Nella maniera più semplice un piccolo dizionario diventa letteratura. Come ogni intendimento, questa o quell’altra cosa significa qualcosa di universale ma anche di personale. Alla fine l’apprendimento avviene attraverso un processo di interpretazione. Nel mio caso Zàbara e Zabàra non è più un’espressione ma un uomo o una donna, rispettivamente Zàbara il femminile, Zabàra il maschile. Attraverso la fotografia entrambi si mostrano intenti a parlare, a esprimersi, a cercare di capirsi con una lingua che lascia da parte le norme grammaticali.

 

I popoli della testa, 2024

 

La tua ricerca indaga il linguaggio su più livelli, come sei arrivata a concepire questa mostra?

Giulia: Se di concepimento si parla, allora posso dire che non ci sono opere figlie di una stessa idea madre a cui riesco a dare un nome. Anzi sempre incipiente è il manifestarsi di qualcosa di remoto, qualcosa che sta a monte mentre tu guardi a valle. Per questo non credo serva camminare, andare a trovare, percorrere la strada del perché, quanto piuttosto accettare ciò che il linguaggio ci rivela: abbiamo inventato tutto, le lettere, i segni, la fonetica, le parole, le storie, le sacre scritture. In questo senso, la mia azione non è altro che quella di una traduttrice. Ho tradotto l’invenzione in un’altra invenzione. Per questo mi sento di dire che le opere alla fine sono simili alle parole, la prima volta irriconoscibili, che impariamo o meno a leggere, per nulla simili. L’espressione Zàbara e Zabàra non sapevo cosa fosse, non sapevo cosa volesse dire, tanto meno come leggerla. Ho capito però che non avevo la schiavitù dell’intendimento a tutti i costi. Banalmente, per esempio, la casa è una costruzione dove si vive, dove si dorme, si mangia, ci si accoppia, ecc. Zàbara e Zabàra cosa è? Non lo so. Allora da lì la parola inventata dal mondo popolare siciliano mi ha dato la libertà di farne un ritratto tutto mio dove mettere uomini-animali che parlano, insetti che si chiamano e si s-chiamano, abitanti, genti, popoli che trovano un posto dove inserire nuove parole e idee. Che Sciascia non me ne voglia…

 

 

 

Ci potresti raccontare il nesso che lega la Torre di Baab, I popoli della testa, il cavallo di canaglia e Zàbara e Zabàra?

Giulia: Sono cresciuta in una famiglia in cui ogni espressione veniva riportata alla sua origine. “Questo viene da, questo significa x, questo lo diceva tizio”. Questo, quello, dove, quando, chi? Direi da una mezza parola. Ma davvero nel senso più letterale. Le parole sono unità di senso, anche di un senso che non vogliamo alle volte. Se le rifiuti, accetti che tutti veniamo al mondo con un nome che ci hanno dato e se qualcuno o qualcosa non si chiama è per certo che non esisterà. Prendiamo allora la Torre di Baab. Una torre in polistirolo, gesso e acrilico in cui ogni anello è cavo. Diversamente dalla Torre di Babeledi cui storpio il titolo, dico il nome come se fossi balbuziente – non è fatta dagli uomini ma dai nomi che gli uomini hanno dato a insetti e animali, potenzialmente a tutto, cose, persone, ere, ecc… Con la confusione delle lingue che si dice Dio abbia astutamente generato, il cantiere della grandiosa torre che voleva raggiungere il cielo si è fermato, noi uomini non siamo diventati celesti, ma in compenso nel nostro essere terreni abbiamo inventato tutto, pretendendo di togliere a Dio la possibilità di inventare meglio di noi. Ma anche questa storia è inventata, come quella di Dio. Insomma ne inventiamo sempre una. A riprova di questo I popoli della testa sono potenziali uomini, animali, insetti che sono esistiti o che esisteranno e che in mostra trovano lo spazio di farsi vedere appoggiandosi sulle pareti e costruendo primissime architetture dove vivere sopra le nostre teste. Il cavallo di canaglia è in realtà un falso titolo, un titolo mangiato da un altro: I miei popoli dove io sono Dio, ho inventato dei popoli a cui dò la voce di un cavallo o di un bruco, popoli che ci parlano, ci tendono indovinelli per indovinare le loro fattezze, i costumi, i modi di fare.Tengo a dire che quest’opera di matrice sonora, elaborazione di alcuni miei scritti è stata interpretata dall’attore Maziar Firouzi.

Zàbara e Zabàra ve l’ho già detto. A noi e a voi il senso di tutto.