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YOHAKU

Margine fertile di utopie possibili

 

L’elaborazione del margine è un esercizio atto a mettere in forma la vita intera. Il termine giapponese Yohaku significa letteralmente margine, spazio vuoto (yo: resto; haku: bianco), qualcosa che ha raggiunto la riduzione all’essenziale.

Così spiegano le curatrici di Innesto Spazi di ricerca che hanno collaborato con il collettivo damp e Spazio Volta (Piazza Mercato delle Scarpe, Bergamo) alla realizzazione della mostra YOHAKU, visitabile sino al 29 gennaio 2023.

Gli statement di tutti gli attori del progetto dialogano bene. Il primo «aspira ad una progettazione artistica contaminata da differenti discipline, in dialogo con la storicità del territorio in cui opera». Del secondo «l’interesse per la natura temporanea delle cose fa sì che la ricerca del collettivo si intersechi spesso con i mondi della fisica, della biologia e dell’informatica»; una transdisciplinarietà che negli anni si è manifestata «insieme a uno spiccato interesse per il dialogo con la specificità dei luoghi» e che dialoga a sua volta con la triplice identità di Spazio Volta: sede espositiva, iniziativa editoriale e destinazione di residenze rivolte ad artisti italiani ed internazionali.

Il limite è quindi un terreno sottile quanto fertile, nel quale il progetto YOHAKU ha fondato le proprie radici. Così descrive l’intervento site-specific il collettivo dellə artistə:

All’interno dello spazio sono disposti i pochi elementi che compongono fisicamente l’installazione: la teca in plexiglass attaccata al vetro, il nebulizzatore, il serbatoio, la luce che, di un colore verdastro, avvolge lə fruitorə.

Dalla strada si vede un ritaglio da cui filtra una luce che –abbiamo avuto modo di constatare- incuriosisce chi si trova a passare. Avvicinandosi, ci si rende conto che la visione è disturbata, limitata: si percepisce un movimento morbido di una nube umida; poi le goccioline che si depositano sul fondo del box in plexiglas; poi, negli attimi di pausa tra una nebulizzazione e l’altra, si intravedono gli elementi che compongono lo spazio o un movimento che tradisce la presenza di visitatorə all’interno.

Volendo descrivere l’intervento attraverso un’analisi logica, è come se ci fossero solo soggetto e predicato: “io guardo”. Ci fermiamo lì, sprovvistə di complemento oggetto. E ci fermiamo sul bordo dello spazio, cercando di non sbilanciarci né da un lato, né dall’altro. (O forse oscilliamo tra entrambe le parti?)

La soglia è un limes, con tutta la porosità del termine latino, che contiene i significati di “limite” e di “confine”. Il filosofo Georges Didi-Huberman (Saint-Étienne, 1953) ragiona sulla soglia tramite il termine “pas”, che in francese indica «il passaggio e, per estensione, l’utopia del possibile, ma anche la sua negazione: l’impasse, l’oppressione, la vita mutilata». Lə artistə del collettivo si posizionano così a riguardo:

È da un po’ di tempo che lavoriamo su questo concetto di limite proprio perché è incredibilmente ambiguo, inclusivo, irresoluto. In un momento storico in cui ci si è molto concentratə sulla definizione (dalla tecnologia che punta a ottenere una visione quanto più nitida possibile, al nazionalismo che porta addirittura all’innalzamento di barriere fisiche, fino ai movimenti che tentano di definire “l’io” da un punto di vista di genere, di orientamento sessuale), ci piace pensare che esista un concetto (o, perché no, un luogo) che si sottragga alle logiche binarie, che eviti di dare priorità a una visione piuttosto che a un’altra. 

Ci viene in mente un pensiero che scrivemmo per un nostro lavoro che viveva la contraddizione di essere un manifesto che spariva: “Questo è uno spazio di frammenti che non vogliamo coagulare, comporre, concludere. Noi dubitiamo dell’esistenza di significati da esprimere ed evitiamo le risposte perché, appena finite di formularle, ci invade il dubbio”.

 

Dell’aura potente e impalpabile, identificata da Walter Benjamin come caratteristica peculiare dell’opera d’arte, continua a persistere una certa ambiguità, dalle radici antiche, che sollecita ancora l’immaginazione. Alcunə artistə ne hanno fatto il soggetto dei propri lavori. Vengono subito in mente gli “impacchettamenti” monumentali di Christo e Jeanne Claude e prima ancora L’enigma di Isidore Ducasse (1920), realizzato da Man Ray. Sottrarsi per palesarsi è il meccanismo che innescano tuttora questi lavori, così come la vetrina di Spazio Volta, in occasione di YOHAKU.

Man Ray (American, 1890-1976)
L’Énigme d’Isidore Ducasse (The Riddle of Isidore Ducasse)
1920 (1971)
Iron, textile, rope, cardboard
45.4 x 60 x 24cm
Collection Museum Boijmans Van Beuningen
© Man Ray Trust / ADAGP, c/o Pictoright Amsterdam 2013.

«Running Fence, Sonoma and Marin Counties, California» (1972-76) di Christo and Jeanne-Claude. Foto Jeanne-Claude © 1976 Christo and Jeanne-Claude Foundation

Ci viene in mente un intervento di Ceal Floyer presso il Museion di Bolzano, Blick, dove, attraverso un gesto minimo, si è spostata sul margine, però proponendo uno sguardo unidirezionale. Il nostro interesse, invece, è proprio in quel “tra”, così sfuggente, così minimo. Infatti, Yohaku nasce proprio da ragionamenti che abbiamo fatto all’interno di un progetto, Bordi, che si propone di analizzare per l’appunto il concetto di bordo, «quel luogo che perimetrando apre, perché non avendo nozione certa del dove e del quando, lì le cose affiorano e scompaiono nella loro indeterminatezza» (Ermanno Cristini).

Didi-Huberman cita nel saggio Devant l’image: Question posée aux fins d’une histoire de l’art un passo da Ulysses di James Joyce: «Shut your eyes, and see», che genera due considerazioni da parte del collettivo damp.

La prima è che, raccogliendo i commenti dei visitatorə, ci ha particolarmente colpito la definizione del nostro intervento come «la pupilla di una capra». La seconda è che, in effetti, in assenza di luce, non è che non vediamo, piuttosto, il nostro cervello elabora quel particolare tipo di visione che noi chiamiamo “buio”.

La nostra idea era quella di far divenire il margine – quella soglia proliferante dove la condensa si deposita – «l’utopia del possibile». L’interno e l’esterno, sebbene siano stati organizzati secondo dei criteri estetici, li abbiamo più immaginati come dei luoghi da cui guardare l’opposto e da cui muoversi per raggiungere quest’opposto. Infatti, immaginavamo un approccio circolare all’intervento, come se i due estremi non facessero altro che rimandarsi a vicenda, come se non si riuscisse a trovare il completo appagamento da un unico punto di vista. Come se, essendoci un’insicurezza dell’oltre, si cercasse la conferma di ciò che si vede dall’altra parte.