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Tra materia e metafora:

L’Arte di Ileana Mendola in Mostra al Castello Ursino di Catania

 

Grazie all’interesse della Delegazione del FAI di Catania, manifestato sia dalla precedente Capo Delegazione, Maria Licata, che dalla nuova, Marilisa Spironello, nonché delle due figlie dell’artista, Sabina e Renata Zappalà, nella suggestiva architettura sveva di castello Ursino (oggi, museo civico) si è da poco conclusa la retrospettiva dedicata a Ileana Mendola, curata da Antonio D’Amico e incentrata sul tema degli elementi primordiali.

 

La mostra, nella quale sono state esposte opere che appartengono ad anni tra il 1976 e gli anni 2000, si è rivelata un’occasione significativa per porre in risalto e riscoprire una figura che, incarnando il ruolo di artista – cucitrice, ha contribuito a lasciare, nel panorama artistico catanese e isolano, una testimonianza visiva ricca di suggestioni, in cui il materiale povero, riciclato e reinventato, diventa opera d’arte, medium estetico e motore di significati profondi.

 

Dalla Pittura alla Materia

Dopo gli esordi figurativi di taglio ottocentesco, Ileana Mendola negli anni della maturità abbandona il pennello per accostarsi al linguaggio informale e a tecniche sperimentali. Negli anni ‘70, infatti, l’artista inizia a esprimersi con l’ago e il filo ricorrendo a materiali riciclati. Grazie alla scoperta dell’arte sartoriale, le opere di Ileana Mendola assumono una dimensione personale e diventano luoghi dell’anima.

Gli oggetti disusi, privi di qualsiasi valore artistico, vengono reinventati e diventano materiali vitali ed energici. Si rivelano agli occhi dell’artista un’occasione non solo per esplorare i meandri nascosti dell’io, intimo e artistico allo stesso tempo, ma anche per rinnovare qualcosa di informe, come la juta e gli pneumatici, le reti metalliche e le garze imbevute nel colore, in forme nuove e rivoluzionarie. L’informe diventa forma artistica e il materiale povero, nella ricerca di Ileana Mendola, diventa ricchezza espressiva, e l’azione dell’artista, resa evidente nella manipolazione della materia, è semplice come il materiale adoperato. Una semplicità, quella della sostanza usata e del gesto creativo, che rende l’artista catanese, come emerge dalle opere che sono state esposte al castello Ursino, rivoluzionaria e, per certi aspetti, singolare.

 

Intessere la Juta come metafora del sé e atto di guarigione

La Juta, che per l’artista è un materiale vero, utile e ha vita propria, viene manipolata ricorrendo all’ago e filo, e nella ricerca di Mendola, nella Catania degli anni ’70, si presta a diventare materiale altro, ad assumere una dimensione nuova: diventa luogo del sé, uno spazio lirico in cui l’artista si immerge e con il quale ha la possibilità di liberarsi dalla pratica pittorica, dalle tecniche tradizionali, per raccontarsi. Racconta la sua storia, il suo essere moglie e madre, attraverso l’arte, con la quale fa fuoriuscire i sentimenti che popolano la sua mente, costruendo opere in cui i piani, che si incontrano e sovrappongono, danno vita a superfici vibranti.

 

Punto rosso (1976). Crediti fotografici Luca Guarnieri.

 

In Punto rosso (1976) la Juta, materiale piatto e privo di consistenza, attraverso la rielaborazione dell’artista, assume profondità e un significato nuovo tutto da scoprire, artistico e personale allo stesso tempo, nel quale ad emergere è la pastosità del colore che si fa forma: un punto materico che emerge dalla fitta trama creata con filo e spago. Materia e colore, come nel percorso artistico di Burri, si fondono insieme e creano livelli emotivi profondi. Sono piani dell’anima, opere in cui brani astratti realizzati con la juta entrano prepotentemente, si impongono sulla superfice e diventano metafora del sé. La juta, che qualche anno prima era stata utilizzata da Alberto Burri, diventa specchio di emozioni, nella quale il confine tra interiorità ed esteriorità si annulla.

Ma l’arte di Ileana, per la sua portata fresca, è un’arte che supera, in un gioco fecondo e ricercato, espressione della femminilità dell’artista, la parabola burriana degli anni ‘40, della quale l’artista non era a conoscenza. Nella ricerca informale di Mendola ad affiorare è la trama come simbolo di guarigione, che declina le opere dell’artista in una chiave femminile, in cui il filo unisce e risana gli strappi, a differenza delle opere di Burri che propongono lacerti, strappi e bruciature che sono simbolo del dramma esistenziale, umano più che individuale. Anche in Burri però i brani di tessuto vengono cuciti. Ma è la sutura del medico, l’atto che risana le ferite umane, quelle provocate dalla drammatica distruzione dalla Seconda Guerra Mondiale.

 

La mostra retrospettiva: gli elementi primordiali

Entrando nella sala a capriate del secondo piano del castello Ursino, ad accogliere il visitatore sono delle opere di grandi dimensioni che dialogano tra di loro e s’impongono nello spazio con una grande forza espressiva, dove il passato svevo e la contemporaneità della ricerca dell’artista si unisono in una coerenza del tutto rinnovata, creando un equilibrio senza tempo. Alcune delle opere che possono considerarsi delle istallazioni, scendendo come cascate dalle staffe delle capriate, s’impongono con una forza quasi sacrale; altre invece, agganciate sulle pareti, propongono una lettura classica.

 

 

Curata da Antonio D’Amico, direttore del Museo Bagatti Valsecchi di Milano e autore del volume monografico che presenta la produzione artistica di Ileana Mendola, la mostra è stata organizzata secondo un percorso tematico strutturato in sezioni: a dominare sono gli elementi dell’origine dell’umanità che l’artista traspone nelle sue opere, con i quali è entrata in contatto durante i viaggi col marito, Mario Zappalà, in Africa e in Etiopia. Sono le componenti primordiali (acqua, terra, aria e fuoco) che, riconducendo il visitatore in una dimensione ancestrale, sono alla base della poetica artistica dell’arte povera, nella quale per certi aspetti Ileana Mendola si può inserire.

 

 

Ad attirare l’attenzione, dopo aver varcato l’ingresso principale, sono le opere che propongono il tema dell’acqua. L’elemento acqua è una costante nella ricerca degli artisti dell’arte povera, attraverso il quale questi sottolineano un costante rapporto con l’entità primordiale, che per certi aspetti l’accomuna alla ricerca dell’artista catanese.  Già Pino Pascali in 32 metri quadrati di mare circa (1967), opera costituita da 30 vasche di alluminio zincato e acqua colorata alll’anilina in diverse gradazioni di azzurro, sottolinea l’importanza del mare non solo per esaltare le sue origini, ma è anche concepito come elemento primordiale dell’essenza umana, in cui la vita privata dell’artista e quella universale dell’uomo si incontrato. Ma nelle opere di Ilena Mendola, l’acqua del mare, come nel caso di Spiaggia (1973 (?)), non ha un carattere reale e tattile, è informale. Il mare, nelle opere di Ileana Mendola, rappresenta la vita che emerge dalle increspature della juta. È principio cosmico, simbolo femminile e genitrice di vita, anima del mondo. Le onde del mare sono evocate dal tessuto celeste che, con i suoi drappi, dà ritmo alla composizione: non si tratta di un dinamismo incalzante ma pacato, un movimento soave e sereno. Si viene a creare una composizione unitaria in cui le onde del mare, grazie ai ritagli di juta blu che danno consistenza, emergono dalla sottostante superfice monocroma creando dei giochi ritmici di luce e ombra, di pieni e di vuoti.

Muovendosi dentro lo spazio della sala, a conquistare l’attenzione dell’osservatore sono altre opere, nelle quali la juta è scomparsa ed è stata sostituita dal filo di lamina e dalla gomma.  In Acqua di mare (1994(?)), infatti, ad emergere non è più la Juta ma la rete metallica che sembra evocare la rete dei pescatori. La trama del tessuto si è trasformata in reticolo, in materia e in una composizione in cui l’elemento mare, evocato dal colore ad olio steso in una campitura orizzontale, emerge dal reticolo nel quale si inseriscono una serie di fili elettrici che sembrerebbero rappresentare le scie lasciate dalle barche. La pesantezza del metallo nell’opera di Mendola si fa leggerezza in un gioco di ombre, di riflessioni e interrogativi, di rapporti formali ed emblematici.

 

Acqua (1996). Crediti fotografici Luca Guarnieri.

 

Oltre alla Juta, alla rete metallica e al filo elettrico, nelle opere incentrate sul tema dell’acqua un altro materiale usato è la gomma. La gomma, che già negli anni ’50 era stata utilizzata dall’artista americano Rauschenberg all’interno di Monogram (1955 – 59), nell’opera Acqua (1996) è tagliata e manipolata fino ad assumere un carattere decisamente nuovo, in cui le onde del mare sono evocate dal filo celeste. Con tale materiale l’artista catanese – come si può leggere dal catalogo generale dell’artista – è entrata in contatto: un giorno, dopo aver accompagnato i figli a scuola, tornando verso casa, si ferma davanti ad un gommista, ed è qui che entra in gioco la visionarietà di Ileana. In quel prodotto industriale vede una nuova possibilità di fare arte in maniera innovativa e per nulla scontata. Le gomme, infatti, da materiale povero diventano opera d’arte, uno strumento attraverso il quale vengono veicolati messaggi nuovi, primo tra tutti quello della maternità.

 

Successivamente, il visitatore si ritrova, nella sezione centrale, quella dell’elemento aria, di fronte all’attesa. È la sospensione dell’aria, che si fa energia, respiro vitale. Essa è impalpabile, come si può vedere nelle opere di Mendola che propongono tale tema. In questa sezione, infatti, ad emergere sono elementi fluttuanti che sembrano galleggiare nella superfice trasparente su cui sono cuciti e restituire un carattere indubbiamente dinamico. In morbida scultura (1980) e in Morbida scultura 4 (1981) la juta, cucita su garza, diventa un sospiro di vento, una folata che contribuisce a rendere la forma sospensione. Sembrano sculture in cui l’aria si addensa in una forma grezza espressiva ed energica, in cui la fragilità si fa consistenza.

Ed è proprio la sospensione a imporsi in un’altra opera dal titolo Girasole (1978), che sembra un vortice d’aria. Il girasole, cucito su una superfice nera, è realizzato nella parte interna da juta sfilata, mentre quella esterna presenta spago e corde, e qui il “dipingere cucendo” raggiunge l’acme ed esiti eccezionali. Esso, che è simbolo di vita serena, di fertilità, felicità, stagliandosi al centro di una superfice tripartita, resa organica dalla cucitura, sembra ondeggiare. La Juta sulla quale è disposto il girasole è imbevuta nella tempera nera, un colore fragile che non attecchisce in tutta la superfice ma solo in alcune parti, che rinvia a un prato, di fronte al quale chi l’osserva si trova spaesato, proprio perché non è immediatamente percepibile. È un’opera semplice, sia dal punto di vista formale che del significato, perché – come afferma Milly Bracciante – l’artista è capace di osservare la realtà «in maniera differente e riuscire a cogliere ciò che può apparire marginale, essenziale».

 

 

Il fuoco, con il quale si conclude la lettura della retrospettiva, è trasformazione, purificazione, passione e ricerca di verità. Nella visione ancestrale dell’umanità, con le sue fiamme, dissolve le tenebre dall’ignoranza e sconfigge la paura dell’ignoto. Tale elemento naturale, che troviamo anche nelle combustioni di Burri, in cui la fiamma ossidrica diventa mezzo per bruciare la plastica e ricavare grandi buchi, nelle opere di Mendola diventa forma, assume consistenza e palpabilità, sembra quasi trovarsi dinanzi a delle fiamme reali.  È la materia povera che, attraverso la juta ingessata e dipinta a tempera rossa, che dà movimento alla composizione, rievoca il calore umano e si fa opera d’arte. Tutto questo emerge in due opere: Fuoco (1994) e Sedia che Brucia (1994), nelle quali il colore si fa simbolo e la materia si appresta a raccontare significati diversi. In sedia che Brucia, ad esempio, il fuoco, che avvolge la struttura, sembra imporsi con una calma violenza, con raffinatezza formale, proprio perché l’elemento fuoco richiama una visione non apocalittica ma di quiete. È un calore che emerge anche nell’opera Sole (1990), in cui i raggi, rappresentati dalla juta ritagliata, sembrano sospesi nel cielo, non azzurro ma marrone, ma in realtà sono fissati attraverso il filo del cucito. Il filo unisce, è la speranza della luce che contribuisce a rendere la sospensione fermezza.

 

Sole (1990). Crediti Luca Guarnieri.