Creare cancellando, comporre decostruendo
intervista/studio visit a Pietro Puccio
Entriamo nello studio milanese di Pietro Puccio per conoscere la sua ricerca: sperimentazione sul mezzo, sul linguaggio e sul messaggio che si concretizza mediante una continua antitesi. Creazione e distruzione, così come segno e cancellazione convivono in equilibrio precario e al contempo stabile.
A Milano nei pressi della Darsena, scendendo appena qualche scalino di una palazzina anni ’20, si apre la porta dello studio di Pietro Puccio che mi accoglie, un pomeriggio di febbraio, per uno studio visit.
C’è una luce calda e accogliente e lo spazio ne è invaso. I contorni delle cose e delle opere dell’artista e degli altri che occupano le postazioni dello studio si fanno morbidi e i riflessi opalescenti, l’odore dei materiali da pittura si mischia a quello umido del vicino naviglio.
Pietro Puccio mi mostra una selezione di lavori di diversa natura: dipinti, disegni, carte e libri d’artista ma anche sculture: piccoli modelli di fragile cellulosa dipinta.
Il suo lavoro pittorico, tendenzialmente figurativo, si compone di tinte acide e colori accesi, in certi casi fluorescenti, ritratti dal segno incisivo ma controllato. Porzioni piatte di tinte e sportelli di cartone occludono porzioni di immagine che, con un gesto, possono essere svelate offrendo alla vista ulteriore superficie di figurazione. Una stratificazione che concede altro spazio fisico e narrativo alla dimensione circoscritta della tela. Quello che apparentemente sembra essere una censura o un’applicazione posticcia diventa un’appendice aperta da dover necessariamente toccare: una toppa che nasconde e che contemporaneamente svela altro, offrendo al fruitore la possibilità di entrare in contatto fisico con l’opera.
Nel tuo lavoro convivono costruzione e decostruzione, segno e cancellazione, censura e svelamento. Che valore hanno per te queste parole in contrasto?
Per me ha valore il contrasto stesso, perché ognuno lo porta con sé costantemente, sia come singolo che come parte della società. Dal punto di vista concreto questo contrasto si traduce in forme che cerco di rendere non troppo precise e lineari, spezzando il ritmo con sovrapposizioni e interruzioni.
È come una conversazione per strada, quando ai propri discorsi si sovrappongono casualmente quelli di un altro passante, il rumore di un’ambulanza o l’abbaiare di un cane. La purezza non fa parte del nostro modo di vivere. Come dici giustamente, in quello che realizzo ci sono il segno e la cancellazione e questo continuo dialogo tra gli opposti genera tensione, un’instabilità che trovo vitale.
Mi colpisce una serie di lavori – anche video e dallo slancio performativo – in cui un segno nero compone forme di mani e subito un flusso d’acqua ne cancella i contorni, quasi a ripulire la superficie. Quel getto d’acqua, che si mescola al nero della pittura sciogliendola, diventa esso stesso segno, stratificandosi e contribuendo alla creazione di altre forme e segni. Creazione e cancellazione in questo caso, così come censura e svelamento nell’altro, sono parte integrante del lavoro e non ne costituiscono solo il risultato finale.
Se da un lato il lavoro di Puccio risulta controllato e ponderato, dall’altro la necessità di non farne un esercizio di stile – come estetizzazione assoluta – è contrastata da un approccio istintivo.
Anche la scelta dei materiali e dei supporti si adatta a questo modus operandi: “spesso lavoro con quello che ho a disposizione in quel momento”. Questo permette a Puccio di tenere un focus sul linguaggio e sul processo più che, appunto, sulla tecnica; senza naturalmente svilirla.
Spesso ti poni nei confronti dell’atto creativo in maniera estremamente antitetica sia nei confronti della tecnica che dei materiali che usi. Istinto o necessità?
Sicuramente entrambe le cose. Amo lasciarmi sorprendere dalle possibilità. Muovermi su vari fronti linguistici permette che questo accada, e il fatto che un processo creativo possa essere controllato relativamente diventa un’opportunità per seguire percorsi inattesi.
Peraltro la tecnica non è qualcosa che definisco a priori: viene fuori man mano che la ricerca formale diventa più precisa; non voglio correre il rischio che un’esecuzione troppo abile tolga parte della forza espressiva al lavoro. In questo mi trovo affine all’estetica giapponese del Wabi-sabi, che accetta l’imperfezione e l’impermanenza come elementi fondativi.
Oltre alla pittura e al disegno ultimamente ti stai dedicando alla realizzazione di piccole sculture in carta e cartone. Piccoli modelli di case o di cose destinati alla distruzione. Ce ne puoi parlare?
La distruzione è l’esito, ma quello che mi interessa davvero è il processo di trasformazione, scoprire come la materia cambia, reagisce e assume altre forme in risposta a un agente esterno. In questa direzione, sto lavorando a un video per il quale ho ricostruito in tre dimensioni la struttura di una casa, un luogo architettonicamente imperfetto ma dentro cui è possibile proiettarsi. Le stanze della casa saranno distrutte da un incendio, ma allo stesso tempo il fuoco rende visibile un fiume di spazio, il momento irripetibile in cui gli elementi vibrano, le fibre si espandono e il soggetto muta. Si produce un’immagine che, come scrive il filosofo Didi-Huberman, “è un cristallo di tempo, una collisione tra il presente e quello che è stato”.
La carta risponde molto bene a questa necessità di reazione perché è un materiale versatile, semplice, che mi permette di realizzare velocemente quello che penso.
Il lavoro che Puccio porta avanti con il libro d’artista, invece, risente della pratica musicale che l’artista frequenta parallelamente a quella visiva. Le pagine sono organizzate seguendo ritmi e tempi, il gesto dello sfogliare ne rappresenta l’esecuzione. I materiali, sempre differenti, accompagnano il fruitore in uno stratificarsi di linee disegnate, dipinte o cucite.
Lavori anche con l’oggetto libro (d’artista) soprattutto come pezzo unico non serializzabile. Quali soluzioni ti offre questo tipo di mezzo?
Il libro è per me una tecnologia essenziale, uno spazio d’azione più che una superficie. È un oggetto che nei secoli è riuscito a trasformarsi, diventando contenitore e medium, riproducibile anche manualmente con i materiali più diversi. È uno scrigno che raccoglie in sé, come il famoso monolite di Kubrick, una massa densa che si sprigiona nel momento dell’apertura e dello scorrimento. Per me costruire un libro d’artista è un modo per convogliare la tensione creativa in un oggetto autonomo e definito, così espressivamente carico che spesso rimane un pezzo unico. È un oggetto trasportabile, piegabile, maltrattabile, segnabile. Ha tante voci, oltre alla mia: la voce di chi ne fruisce e la propria voce, materica (può essere toccato, guardato, anche ascoltato quando la carta ha una certa consistenza). Quando produco un libro penso sempre alla partecipazione attiva di chi lo sfoglierà, creando possibilità di interazione attraverso finestre nascoste, sovrapposizioni, trasparenze o altre soluzioni.
Sei anche un insegnante presso l’Accademia NABA di Milano; la didattica quanto incide nella tua ricerca artistica?
Insegnare è sempre uno specchio. Significa essere chiari con sé stessi, per provare a chiarire qualche cosa agli altri. Forse il mio processo creativo, per nulla rigido e soggetto a continue trasformazioni, segue gli stessi passaggi analitici che applico in classe per aiutare gli studenti a sviluppare le proprie immagini e personalità.
Un altro aspetto importantissimo è la vitalità che viene dai ragazzi, la loro visione delle cose, il fatto che siano ricchi di possibili futuri. Tutto questo, consciamente o inconsciamente, entra in quello che faccio. E quello che faccio entra in quello che insegno.
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Prossimi progetti?
Sto realizzando delle piccole scenografie che saranno parte essenziale dell’artwork di un disco. Sono luoghi sospesi, metafisici, aperti a possibilità interpretative. Questo lavoro è stato il pretesto per iniziare a ragionare su un progetto di figure nello spazio, che testimoniano una presenza.
Sto anche preparando un’installazione a cui tengo molto. È il primo progetto nel quale ho sperimentato la trasfigurazione della forma. Si chiama ‘Effimere’ ed è incentrato sulla rappresentazione delle mani che, come nelle pitture rupestri, marcano il passaggio degli uomini ma sono anche effimere perché si dissolvono con l’azione dell’acqua. Un lavoro nato come video ma che poi ha dato origine anche a una serie di dipinti e a un grande libro.
Tra qualche settimana, infine, realizzerò a un live drawing a Torino per ‘Plantasia’ di Mort Garson, presentata dagli ‘Esecutori di metallo su carta’. Saranno proiezioni in cui unirò time lapse a disegni live digitali per accompagnare i diversi brani.
In mezzo, accadrà altro che non so.