Poesie post-duchampiane
di Marco Raineri
Sabato 22 ottobre presso Palazzo Scammacca ha inaugurato la mostra personale Poesie d’amore al primo che passa di Marco Raineri in arte markrain. L’artista poeta che, dopo il solo show di Carlo Arancio, occupa le stanze settecentesche del palazzo catanese con le sue 52 poesie e 7 lavori installativi.
Marco ha 26 anni ed è uno studente di medicina che a seguito dell’esperienza della psicoterapia si avvicina all’arte con tutta la sua naivete da profano. É così che scopre che l’arte, in particolare attraverso il medium del linguaggio poetico, condensa la bellezza del mondo e costituisce la via di fuga catartica per i condizionamenti interiori, esteriori e altrui.
La mostra si sviluppa nelle 4 stanze del palazzo, tutte legate da un vero e proprio filo rosso che congiunge tutti gli scritti e le installazioni di Marco, definite poesie post-duchampiane. Le installazioni infatti esprimono e rappresentano, in senso strettamente semiotico, l’ammirazione che Marco prova verso la ricerca del ready-made iniziata da Marcel Duchamp e continuata provocatoriamente da Maurizio Cattelan. Le installazioni sono tenute insieme dal filo rosso che lega le poesie. Il filo rosso si slega lungo il percorso e passa attraverso le porte, alle quali, in un fare un po’ dantesco, è appesa la frase-citazione che funge da incipit per la raccolta tematica di ogni stanza.
Le poesie sono tutte trascritte su fogli bianchi e raramente neri con il layout tipico della guerrilla poetry: una strategia di diffusione della poesia che viene catapultata nella street art nel suo output. Titolo in alto in grassetto, corpo del testo allineato a destra o al centro e utilizzo dello spazio del foglio per ricreare visivamente un’immagine. A detta di Marco il suo foglio “è uno spazio non canonicamente usato” snaturato della stessa funzione di supporto per sopperire anche a istanze concettuali.
Abbiamo avuto modo di conversare con lui e chiedergli qualcosa in più sulla mostra.
Lettering da writer, flow di un rapper e layout da parole in libertà. Non bisogna però sottovalutare le tue competenze nella gestione dello spazio, ti sei occupato personalmente dell’allestimento, quanto ti sei divertito? Ci parli in particolare dei lavori installativi e il loro rapporto con le poesie intorno?
Si, ho allestito tutto io personalmente, sono stato 7 mesi a pensare e immaginare l’allestimento, quindi vederlo completo è stato emozionante. Mi sono divertito perché ho potuto ascoltare molta musica mentre allestivo, non sempre ho il tempo di ascoltarne così tanta perché di solito passo le mie giornate a studiare. Mi sono preso, invece, due settimane di pausa per allestire e ascoltare musica concomitantemente, quindi da un lato mi sono rilassato mentalmente, dall’altro è stato parecchio faticoso fisicamente. Sono 180 metri di filo rosso, non lo vendono singolarmente di questa lunghezza, quindi ho dovuto cucirlo ogni 10 metri con l’estremità dopo. Quantomeno ho utilizzato il tirocinio che ho fatto a chirurgia dando punti, non pensavo di doverli dare ad una corda. Ho immaginato questo tipo di installazione per cambiare il rapporto degli spettatori con la poesia, renderla più coinvolgente e non farla rimanere chiusa dentro un libro. Passeggiare tra fili di parole è parecchio suggestivo.
Leggendo le tue poesie non si può fare a meno di pensare ai testi di una canzone, quanto ti ha influenzato la musica e soprattutto la musicalità di certi giochi di parole e luoghi comuni?
Tantissimo. Credo sia ciò che mi ha influenzato di più in assoluto, ho fatto mio lo stile di moltissimi autori per poi rimescolarlo in un mix assolutamente personale penso soprattutto a Dargen d’amico, marra, fibra, willie peyote, dutch nazari, claver gold, caparezza, frah quintale tra gli italiani e Mac Miller, Anderson paak, kendrick lamar, Brockhampton, per gli americani. Ma la lista potrebbe veramente essere infinita. E questi sono solo i contemporanei. Ho un account Instagram che uso solo per seguire artisti che mi sono d’ispirazione e da lì seguo 1150 persone. In realtà fino a ottobre 2020 facevo più musica che poesia/installazioni. Ma non era abbastanza punk come attitude.
Il tuo è un esperimento di poesia visiva il cui fulcro però rimane il linguaggio. Pensi che abbiamo bisogno di didascalie e sottotitoli come supporto e come linguaggio nell’arte?
Assolutamente no. Infatti nelle mie sono poesie, parte tutto dalle parole, aggiungo altri elementi solo se quel concetto non potrei esprimerlo altrimenti. Anzi l’arte senza parole ha un potere espressivo ancora maggiore perché non resta confinata ad una nazione e ad una lingua ma può essere apprezzata in tutto il mondo, come la musica quando nessuno ci canta di sopra. Le parole definiscono, non è sempre un bene, non è sempre necessario.
Hai manifestato il bisogno della poesia come dovere civile, quali sono stati i tuoi progetti e quali quelli futuri per la nostra vita urbana?
Ho iniziato ad appendere poesie per la strada dopo aver letto una ricerca di neuroscienze che dimostrava come la bellezza percepita del luogo in cui viviamo influenzasse il nostro umore. Ho iniziato a pensare quindi che abbellire le nostre città fosse un’operazione di salute pubblica, di salute mentale. Mi piacerebbe ottenere permessi dal comune per realizzare sempre più opere in collaborazione con quanti più artisti possibile. L’arte dovrebbe poter essere usufruibile da parte di tutti perché “non pagare non ha prezzo“.
A tal proposito fanno parte del percorso espositivo anche delle collaborazioni di Marco con altri artisti: dalla locandina realizzata da Giuseppe Rubino e la traslazione in realtà virtuale di una delle poesie di Marco; fino alla tela in mostra realizzata con Vincenzo Portuese e un’installazione con Aurora Cavaleri.