Manifesta riparte dal Kosovo
Too shy to say but I hope you stay
A notte fonda atterriamo a Pristina. La prima immagine che ci colpisce è il volto, che ritroveremo ovunque, di Adem Jashari, militare di origine albanese ritenuto principale autore della liberazione del Kosovo. La mattina rivela imponenti grattacieli in via di definizione. Sembra di vivere in un cantiere a cielo aperto, popolato da branchi di cani randagi, veri custodi della città che fiutano curiosi un’insolita aria di novità.
It matters what worlds world worlds: how to tell stories otherwise, è il titolo della quattordicesima edizione di Manifesta, ideata da Catherine Nichols, creative mediator di origine australiana. La biennale itinerante di arte contemporanea nata a Rotterdam nel 1996 per volere della storica dell’arte Hedwig Fijen, prova ad inserirsi nelle trame intricate del paese più giovane e povero d’Europa, autoproclamatosi indipendente nel 2008.
Le biennali nate a partire dagli anni novanta si sono rivelate dispositivi funzionali a inserire città o regioni precedentemente emarginate all’interno di una più ampia cartografia culturale internazionale. Tra gli esempi più ammirevoli e radicali c’è Manifesta, le cui ultime edizioni si sono sempre più occupate di politica europea cercando di integrare l’arte orientale al contesto occidentale, focalizzandosi su urgenze quali: immigrazione, deindustrializzazione e le più che attuali questioni relative ai confini. Esempi esplicativi sono Manifesta3 a Ljubljana, Manifesta6 a Cipro, poi annullata, e Manifesta12 a Palermo che ha legato inscindibilmente l’analisi urbanistica della città alla costruzione della manifestazione.
Lo stesso modello ha costituito la base di partenza per l’edizione di Pristina, che non a caso ha scelto Carlo Ratti Associati come secondo creative mediator. Lo studio architettonico torinese ha tentato di concretizzare l’idea di un’urbanistica partecipativa e sostenibile attraverso il coinvolgimento attivo dei cittadini. Con l’aiuto degli studenti locali, è stata innanzitutto mappata la città, dal momento che non ne esisteva traccia su Google Street View, facendone emergere le tre stratificazioni storiche, ottomana, jugoslava e neoliberale. Il secondo step è consistito nel porre una domanda alla cittadinanza: What do the public want? Le risposte sono così sintetizzabili: decentralizzazione, multiculturalismo, inclusività e una riappropriazione dello spazio pubblico anche attraverso l’inserimento di aree verdi, prima pressoché inesistenti. La fase operativa è stata messa in atto con una semplice delimitazione pittorica di porzioni di spazio urbano, meta di un massiccio parcheggio abusivo, trasformate in luminosi spot gialli; questi sono stati arricchiti con l’inserimento di sedute, un po’ scomode, e di vari tipi di arbusti. L’operazione di design urbano diffuso è stata realizzata con materiali ecosostenibili e pensata come reversibile, nell’auspicio che gli interventi a breve termine potranno ispirare in futuro una trasformazione più sostanziale della città.
Il nostro percorso esplorativo inizia con il Grand Hotel Prishtina, luogo grandioso e fatiscente al contempo, incubatore temporaneo di The Grand Scheme of Things, una densa esposizione tematica disseminata lungo i sette piani dell’edificio, che scegliamo di percorrere dall’alto verso il basso. In questo vortice atemporale, paragonabile all’Inferno dantesco, ci vengono offerte le chiavi di lettura dell’intera edizione: speculazione, ecologia, amore, capitale, acqua, migrazione e transizione. Da questo punto di osservazione privilegiato, inizia il nostro viaggio alla scoperta di uno schema narrativo che infondo resta sempre lo stesso, pur nelle sue varianti linguistiche, geografiche e storiche. «Le persone hanno usato storie per dare un senso alla loro fugace e fragile esistenza sulla terra per millenni; c’è stato molto disaccordo nel tempo e nello spazio su chi o cosa potesse orchestrare tale schema, siamo molto coinvolti in un vasto quadro narrativo, in un sistema di relazioni reciproche che sono turbate al punto da mettere in pericolo la sopravvivenza del pianeta stesso» (dalla Guida di Manifesta 14).
Per la prima volta non si paga un biglietto d’ingresso e gli artisti locali affiancano quelli di fama internazionale nelle venticinque sedi espositive della capitale kosovara. Lawrence Abu Hamdan (1985, Giordania) con Earwitness Inventory, invade una stanza con oggetti randomici e suoni disturbanti. Per documentare la violenza perpetrata ai prigionieri politici, attinge da memorie acustiche strumentalizzate. Nel video Spider’s Envy di Genti Korini (1979, Albania), ambientato in una rovina modernista, un critico e un artista discutono la scelta di adeguarsi o meno all’estetica del realismo socialista albanese. Adrian Paci (1969, Albania) con The Wanderes, video a due canali, contrappone con una coppia di spettri cromatici, diversi modi di camminare, di muoversi e di essere, evocando una processione di vagabondi erranti nel cosmo. Infine Artan Hajrullahu (1979, Kosovo) con i suoi disegni, micronarrazioni domestiche su carta da imballaggio, descrive narrative quotidiane tratte dai ricordi d’infanzia di un bambino kosovaro, in cui rientrano i pregiudizi contro la nudità e i tabù sociali.
Passando poi all’osservatorio astronomico si può giocare a Golf Club Wasteland videogame di Igor Simić (1988, Serbia) scegliendo di essere Donald Trump o Elon Musk. Una catastrofe globale si risolve così in una partita di golf dai toni post-apocalittici.
Cosa significa essere vulnerabili oggi? Lee Bul (1964, Corea del Sud) prova a dare una risposta nel Palace of Youth and Sports, icona decadente dell’architettura socialista, con la sua mongolfiera lunga 17 metri che ci invita a riflettere su ciò che potremmo recuperare dai sogni del passato. Ricordando il disastro del dirigibile l’Hindenburg che, volando sotto la bandiera nazionalsocialista, si incendiò nel 1937, il suo pallone d’argento incarna la vulnerabilità dei sogni davanti alla strumentalizzazione politica.
Alla National Library troviamo la biblioteca del collettivo RomaMoMA (1978, Kosovo) che consta di una selezione di 150 volumi; questa ricca eredità interroga criticamente la violenza e l’oppressione contro i rom in Europa. Il lavoro è accompagnato dai vivaci ritratti di donne rom dell’artista Farija Mehmeti (1978, Kosovo), dedicati alle eroine di tutti i giorni, trasfigurati dalla sua immaginazione.
Passando dalla Adem Jashari Square, troviamo il Il Triangolo, monumento costruito sotto il governo di Tito nel 1961, progettato per consolidare la fratellanza e l’unità dei vari gruppi etnici che convivono in Kosovo. In un’epoca in cui in molte parti del mondo i monumenti sono messi in discussione per il loro legame con le ideologie, Ugo Rondinone (1964, Svizzera) trova una soluzione meno invasiva all’abbattimento del suddetto; avvolge l’imponente struttura con una brillante carta fucsia. Il monolite rifunzionalizzato adesso attira anche i bambini che ci giocano molto volentieri.
Nato dalla ex biblioteca Hivzi Sulejmani, come istituzione permanente, il Centre for Narrative Practice costituisce un vero e proprio laboratorio creativo polifunzionale che promuove il benessere dei residenti con svariate attività. Sarà finanziato per i prossimi cinque anni da Manifesta.
Mentre ci dirigiamo verso la Great Hammam, risuona da una vicina moschea il richiamo rivolto ai fedeli musulmani. Una volta entrati nei bagni pubblici del XV secolo, veniamo travolti da una marea di fili rossi che congiungono diverse parole così come diverse vite: «La connessione è parte della nostra esistenza. Non possiamo esistere senza sentirci connessi a qualcuno o a qualcosa». Così l’artista Chiharu Shiota (1972, Giappone) descrive la sua installazione site-specific Tell me your Story.
Per concludere, a mio avviso, il progetto più riuscito è Sisters Flats di Alicja Rogalska (1940, Polonia) che riflette sulla condizione delle donne kosovare. Sviluppato in dialogo con le attiviste femministe locali, il progetto propone la sorellanza come punto di partenza. L’artista ci fa fisicamente entrare in un Flat che, da luogo di molte oppressioni, può tramutarsi in base domestica da cui fondare l’emancipazione di genere.
È possibile raccontarsi storie in modi alternativi. Narrare è il modo più semplice e antico di mettere in dialogo diverse persone tra loro.
Come ha detto una delle mediatrici di Manifesta14: «There is hope, we have hope for the future of this country», la speranza viene attivata dal dialogo.
Si riflette insieme sul presente, rileggendo il passato in un’ottica costruttiva orientata al futuro.