Una residenza nel crocevia padovano
Si è da poco conclusa MAC Studi d’artista al Centro presso il polo culturale Altinate San Gaetano di Padova, mostra collettiva a cura di Caterina Benvegnù e Stefania Schiavon, che vuole mettere in luce le ricerche portate avanti da sette artistə under 35 che hanno iniziato a coabitare negli ambienti dell’ex macelleria halal, civico 13 di Piazza de Gasperi, per provare a instaurare un dialogo con la città e con i suoi abitanti.
Un progetto di rigenerazione urbana a sfondo culturale
Si è da poco conclusa MAC Studi d’artista al Centro presso il polo culturale Altinate San Gaetano di Padova, mostra collettiva a cura di Caterina Benvegnù e Stefania Schiavon, che vuole mettere in luce le ricerche portate avanti da sette artistə under 35 che hanno iniziato a coabitare negli ambienti dell’ex macelleria halal, civico 13 di Piazza de Gasperi, per provare a instaurare un dialogo con la città e con i suoi abitanti.
L’evento espositivo non è funzionale a esporre i frutti della residenza padovana, tutt’ora in corso, ma bensì a presentare lavori molto eterogenei tra loro, rappresentativi delle diverse ricerche artistiche condotte in maniera parallela.
MAC è uno spazio condiviso di lavoro e ricerca attivato nel 2018 dall’Area Creatività dell’Ufficio Progetto Giovani di Padova, in cui artistə selezionatə tramite bando, sono supportatə concretamente nel proprio percorso professionale oltre che nello sviluppo di un progetto artistico in ogni sua fase. Non si tratta però solo di uno spazio fisico ma di una piattaforma che favorisce connessioni e collaborazioni, incoraggiando la crescita individuale e collettiva di artistə emergenti, affinché continuino a farsi portatori di inedite visioni e immaginari sul futuro come agenti di cambiamento e risignificazione dei territori.
Una curatela di tipo processuale
L’idea si manifesta non a caso nell’area della stazione di Padova, zona pluristratificata ed estremamente complessa, MAC, infatti, attraverso un progetto più ampio mira ad indagare e a mettere al centro la relazione tra il contesto urbano e suoi abitanti. Se urbanisticamente sembra piuttosto semplice delineare dei confini, più difficile risulta invece coglierne l’identità dinamica, sfuggevole e spesso transitoria.
Il lavoro di rigenerazione urbana dell’Area Creatività dell’Ufficio Progetto Giovani del Comune di Padova prende avvio nel 2012 con il progetto Vuoti a rendere, col quale furono temporaneamente riabitati una serie di ex negozi sfitti in diverse zone del centro storico, dando vita ad esposizioni, laboratori e workshop. Dal 2018, con la scelta di stabilizzarsi in Piazza De Gasperi è apparso naturale costituire un pacifico avamposto culturale, terreno neutrale da cui osservare e provare a comprendere le molteplici dinamiche sociali che si sono sedimentate nel tempo. Lə artistə rappresentano le figure in grado di connettere i diversi tessuti urbani, partecipando alle metamorfosi che si susseguono senza soluzione di continuità.
La dimensione che guida l’agire curatoriale e progettuale di MAC è processuale, si pone in ascolto e prende parte al movimento in divenire tra fuori e dentro. Un movimento che è costituito dalle intra-azioni che Karen Barad concepisce come un incessante relazionarsi in cui la possibilità di agire emerge da dentro le relazioni stesse, non al di fuori di esse[1].
Così corpi e ambiente non rappresentano più unità rigide e indipendenti ma piuttosto intra-attivamente costituite in modalità dialogante, lə artistə in residenza diventano parte integrante di ciò che già esiste in una precisa porzione geografica, etnica e politica. L’obiettivo è quello di formare una comunità che apra uno spazio dialogo in primis al suo interno per poi sondare l’esterno. Una pratica che da artistica si fa sociale, nel tentativo di comprendere la propria posizione individuale e collettiva rispetto alla città in cui si vive con tutte le sue contraddizioni e generare nello spazio urbano nuove aree di sfogo, necessarie per evitare l’implosione.
Mostra al Centro Culturale Altinate S. Gaetano
Costruire questo percorso espositivo uscendo fuori dalle pareti della residenza, rappresenta una modalità inedita per narrare uno spazio di ricerca sperimentale dei linguaggi contemporanei che da cinque anni interagisce con il contesto e con le sue trasformazioni. Tra performance, sound art, installazione, fotografia, teatro e publishing, i lavori si articolano nell’esplorazione delle ritualità, le vulnerabilità, le interferenze, la memoria e gli imprevisti che tentano di decostruire tempo, spazio, movimento e immagini. Frammenti visivi e sonori, testimonianze di un processo fluido e in divenire che si snoderà in residenza durante i prossimi mesi.
Lə artistə in residenza
Michela Del Longo (Marghera, 1997) studia arti multimediali allo Iuav di Venezia e al momento sta completando il biennio in fotografia all’Isia di Urbino. I suoi lavori trovano spesso una contestualizzazione tra l’Italia e il Cile, luoghi in cui è cresciuta abbracciati in una rete di devozione e nostalgia. La sua pratica artistica è legata al mondo dell’infanzia e conserva in modo evidente una certa appartenenza territoriale. Gli eventi in Cile cambiano e lei è distante, i rapporti si allentano più che mai durante il covid e Michela sente di stare perdendo il contatto con una realtà troppo fisicamente distante da lei. I rapporti con amici e familiari diminuiscono ed è proprio in questa fase, inedita per tutti noi, che decide di salvaguardare i suoi ricordi in via d’estinzione, raccogliendoli in un libro dal titolo Dulces sueños realizzato nel 2022 in tiratura limitata. Ogni capitolo porta il nome di una merendina e segue uno sviluppo episodico tra ricordi, disegni, foto e illustrazioni legate al suo lessico famigliare in chiave postcoloniale. In mostra anche Mamá says I’m too naive (2021) un puzzle di legno ideato per realizzare la raffigurazione del suo alter-ego che invita chi ne abbia voglia a comporre e scomporre i diversi pezzi di un sé vulnerabile ed altamente esposto.
Ipercubo è un collettivo che si occupa della produzione e della curatela di progetti artistici inerenti al publishing. Fondato a Venezia nel 2021, è composto da Nicolò Brunetta, Matteo Rattini, Stefano Stoppa e Erica Toffanin. Si tratta di una piattaforma di produzione di pubblicazioni che collaborano con artisti, scrittori, architetti, designer, performer e più in generale con tutte le figure legate al mondo della creatività e della cultura. A partire dalla struttura tradizionale del libro, Ipercubo trova nella scultura, nella performance, fino alla manifestazione e all’attacchinaggio, terreni fertili in cui ampliare le molteplici potenzialità inespresse dell’editoria. Per questa mostra il collettivo sceglie di presentare non opere, ma prototipi, prove e test di possibili pubblicazioni future. Tagli che dimezzano libri, libri traforati e mensole che li accolgono per decorazione di interni, in un gioco senza regole o costrizioni: Metà superiore di Michel François, Plan d’évasion (2023); Metà inferiore di Michel François, Plan d’évasion (2023); Come diventare un coriandolo, (2023); Place holder, (2023) e Iper, (2023). Questo giovane collettivo mette in pratica, piuttosto che illustrare, il suo modo dirompente di intendere l’editoria.
Ember/Ambra Grassi (Gorizia, 1995) si trasferisce a Venezia dove conclude i suoi primi studi in Grafica d’Arte, nel 2020 decide di spostarsi nel sud Italia specializzandosi in Editoria d’Arte presso l’Accademia di Lecce e frequentando nello stesso anno la scuola d’arte contemporanea PIA School. Artista outsider, non segue le rette vie dell’arte contemporanea ma si inoltra in territori inesplorati e spesso incompresi. La sua ricerca si basa sul concetto di archetipo applicato al contesto contemporaneo e sulla capacità inesauribile delle immagini di generare significati in chi le guarda come se appartenessero a un database collettivo. Il suo Ricettario Fantastico (2023) custodisce le intime emozioni di ciascun autore che l’artista ha digerito, e in seguito tradotto in grafiche. Partendo da un semplice atto quotidiano viene innescato un atteggiamento di messa in discussione, di inserimento di significati personali, ritualistici o curativi. Il libro diventa un esercizio di cambiamento, applicabile in qualsiasi aspetto della vita. Le ricette raccolte, portano a viaggiare nel tempo e nello spazio, a lasciare andare amori passati, a riconciliarsi con gli amici, a soddisfare il proprio eros e tanto altro ancora. Nel caso del Vaso messapico (2021), il lavoro nasce dallo studio di quei manufatti che testimoniano la cultura materiale delle popolazioni indigene della penisola salentina che l’artista ha con cura osservato al Museo Archeologico di Lecce. Della stessa serie fa parte anche Primi uomini (2022), raffigurante delle sottili figure in terracotta di epoca micenea dalle fattezze antropomorfe, figure che Ambra deve aver incontrato durante uno dei suoi viaggi in Grecia.
Marta Magini (Senigallia,1995) intreccia la sua ricerca attraverso pratiche performative, danza, arti visive e scrittura. A partire da una concezione dello spazio-tempo come entità ricorsiva, la sua pratica assume la ripetizione come materia estetica e come metodo di ricerca. Attraverso un lavoro sui corpi in loop e gestualità insistenti, indaga i territori della ritualità, della familiarità e dell’affezione nel tentativo di aprire spazi di contraddizione tra produttività, improduttività e auto-produzione dell’atto performativo. In mostra il suo video Swung (Attivazione 1: Centro Culturale Altinate San Gaetano) nato dalla performance Swinging is like saying no no no (2022, 30 min) che disarticola il corpo innescando una tensione tra il movimento oscillatorio e insistente della testa e quello lento e misurato del resto del corpo. In un avanzamento minimo e dilatato, Swinging assume i tratti di una danza–scultura che esplora un corpo teso tra sviluppo e ostacolo, processo e incastro, evoluzione e involuzione. È a partire dalla sua esecuzione che si generano le immagini di Swung (Attivazione 1: Centro Culturale Altinate San Gaetano); rispondendo a un’intenzione documentale, lo split screen restituisce al contempo l’immagine realizzata fissando, nello schermo in alto, una camera sulla fronte della performer e in quello in basso l’immagine realizzata fissando una seconda videocamera al suo braccio destro. In un ribaltamento di sguardo, il corpo in scena diventa qui un dispositivo di lettura dello spazio e di rappresentazione che produce uno sguardo invece che essere guardato. Le immagini che ne risultano non solo incorporano le due diverse qualità del movimento del corpo in azione e la loro intima relazione ma, in un processo di attivazione dello spazio architettonico, danno soprattutto conto del paesaggio circostante visto dal corpo stesso.
Marie Fratacci (Orthez,1997) è una fotografa e artista visiva francese, si è laureata in cinema a Parigi. Inizialmente ha lavorato come assistente alla macchina da presa e capo elettricista nell’industria cinematografica francese, per poi specializzarsi in fotografia artistica nel 2022. Sonda poi diversi terreni, dal fotogiornalismo alla street photography in Armenia, medium attraverso il quale potrà raccontare della diaspora armena in Francia. A Marie piace frugare tra i ricordi altrui, scoprendo inedite foto di famiglia e taccuini che segretamente hanno custodito promesse d’amore. La giovane artista dichiara di riuscire a colmare le sue memorie nostalgiche solo attraverso le storie altrui che può osservare con una predisposizione d’animo diversa, ma non per questo meno attenta e curiosa. Yvette et moi è la riscoperta di una relazione nata durante la guerra, nel 1940 che l’artista vorrebbe provare a far conoscere attraverso i suoi scatti. Con l’installazione, la scrittura e la fotografia, la giovane artista riesce a riportare in vita persone e luoghi da tempo ormai dimenticati.
Guido Sciarroni (San Benedetto del Tronto,1993) è attore e regista teatrale, il suo mondo ruota intorno al circo, alla danza e al musical che affronta in chiave grottesca. S’interessa all’osceno e a tutto quello che più comunemente è ritenuto fuori luogo, le sue maschere ispirate ai lavori di Leonora Carrington, tutte realizzate nel 2019 in collaborazione con Iwan Paolini e presentate in occasione dello spettacolo teatrale Tartar, lasciano trasparire proprio questo. La madre vacca che, non vista, vi osserva e, non ascoltata, vi guida; la Mamma; il Papà che non è severo, vuole soltanto il meglio per voi. È un accanito tabagista con la passione per le fiamme libere, infatti una volta ha preso fuoco! Ilenia la iena che se non trova niente da magiare potrebbe strapparvi la faccia mentre dormite e adora le patatine fritte. Utilizza il proprio corpo per occupare spazi preclusi alla stranezza e all’imprevedibilità, e non teme di risultare fuori luogo in un mondo di bieche convenzioni stridenti. Attraverso l’artivismo s’ingegna per edificare nuovi ponti didattici al fine di creare qualcosa dove prima non c’era nulla.
E infine Alessandro Gambato (Venezia, 1997) è un laureando in composizione musicale elettronica presso il conservatorio Pollini di Padova, al contempo frequenta il corso magistrale di improvvisazione elettroacustica tenuto dal Conservatorio Martini di Bologna. La sua ricerca è soprattutto legata all’improvvisazione libera e alla musica partecipativa, per mezzo di strumenti sia tradizionali sia innovativi. Interessato alle dinamiche sociali che il suono genera, modifica o stimola tra le persone, il suo lavoro spazia tra performance e sonorizzazioni che ricorrono all’uso di vari media. Esplora l’utilizzo degli smartphone come strumento creativo di esternalizzazione in performance partecipate o pezzi chiusi, tradizionalmente notati sullo sparito e spesso ricorre all’utilizzo dello speaker su cui agisce attivamente per la generazione e modulazione del materiale sonoro. Love me radically (2023) è una riflessione autobiografica sulle dipendenze emotive: trappole affettive derivanti da scompensi radicati, vuoti che si cerca di colmare individuando in un’altra persona ciò che si sta cercando in sé stessi. Questa performance musicale è la ricerca di un abbraccio collettivo, radicale e non soddisfabile in cui i diversi pubblici divengono un elemento fondante, attivatore necessario del senso dell’opera stessa.
[1] K. Barad, Meeting the Universe Halfway, Duke University Press, 2007