ArtInterviews

Le ragioni del vuoto

Intervista a Giuseppe Palmisano… ops @iononsonopipo 

 

Se non esistesse la relazione tra le persone, potremmo definirci realmente vivi?


L’intervista a Giuseppe Palmisano, alias @iononsonopipo, comincia con una domanda che lui rivolge a noi. Sintesi del suo pensiero, a tratti naïve, ma solo per chi non riesce ad attendere e vuole carpire tutto e subito. Solo per chi si ferma in superficie. Giuseppe si è sdoppiato in @iosonopipo, identità che ha poi venduto su e-Bay a testimonianza del fatto che bisogna abbandonare tutto quello che ci appartiene per non scontrarci più con chi vogliamo essere davvero. Trovata provocatoria e anti-system, a cui però Giuseppe lascia il tempo che ha ri-trovato.

 

 

 

Per rispondere alla domanda di apertura hai creato Vuoto, un luogo in cui risiede l’ossimoro del suo stesso nome: hai riempito questo spazio con dei corpi, esclusivamente femminili. Come hai costruito un vuoto e come hai reagito alle possibili e verosimili contraddizioni di questo presupposto?

Non parlo al passato perché non esistono vere cesure. Nel futuro non so dove andrò, ho più esperienza del passato che del futuro. Distinguo due tipologie di lavori: quello fotografico che ancora continuo a indagare in maniera più o meno giocosa.

L’immagine è una stratificazione di senso – per dirla alla Deleuze – e quindi si concepisce gradualmente, mai del tutto in post-produzione. Vuoto per me è stato un gioco. Il corpo della donna è stato campo di ricerca sulla relazione con me in ambito performativo-attoriale-amichevole in senso puro. Senza chiedersi troppo cosa è corpo, per non appesantire il gioco con dinamiche filosofiche o politiche.

Dopo il gioco però ho scoperto le stratificazioni successive dei miei scatti (per quanto non sia mai io dietro la camera) e mi hanno informato sulla parallela capacità relazionale e collettiva dell’azione, fino a mettere insieme fino a 150 donne. Ho agito di impeto, nella freschezza del dire e del pensare, con limpidezza di mandato.

Quando ho realizzato Bianco e Nero ho voluto mantenere l’ingenuità e la freschezza quasi infantile di percepirli solo come due colori, senza andare oltre. Nella seconda occasione, però, il colore nero della pelle in un momento di insediamento del primo governo Salvini mi ha spinto a scrivere e registrare una lettera al Papa. Chiedendogli di stendersi tra i nudi corpi.

 

 

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Cos’è per te (il) Vuoto adesso?

Il vuoto per me è cercare di aprirsi, posarsi sugli altri, per alleggerirsi a vicenda.

 

Qual è il legame di questo primo lavoro con la tua ultima mostra?

Io sono la relazione tra le cose e mi piace pensarla così perché mi sono fossilizzato nel ricercare gli agganci tra un lavoro e l’altro. Le definizioni privano la sostanza della sua bellezza. Probabilmente il legame più intenso è con la mostra Ogni cosa è abbandonata, 2020, realizzata presso il box di Kunstschau a Lecce. Un filo rosso in quanto per quell’azione ho invitato i visitatori a posare e quindi abbandonare un oggetto in loro possesso, a differenza di Qualche cosa è ritrovata, 2023, presso Ombrelloni Art Space, in cui “attacco le calze al chiodo”: ognuno poteva ritrovare e riconciliarsi con l’oggetto scelto. La potenzialità di lavori del genere è riuscire a mettere insieme la gente proveniente da vari posti, uno dei sensi più alti dell’arte a mio parere: quando la vita entra nell’opera e attiva delle relazioni.

 

 

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Inoltre, da posizione registica ti sei ritrovato a vero e proprio performer, è questo il cambiamento implicito nell’aver abbandonato @iosonopipo?

Sono in una fase di esplorazione introspettiva da lungo tempo. Quando penso a una performance, questa si esplicita per prima dentro di me per poi saltare fuori, come un negativo e un positivo fotografico. A differenza di prima, adesso tendo a pormi al centro, come con la performance delle calze, in cui io esisto e agisco. Dopo aver abbandonato me stesso (vendita su ebay) e averlo ritrovato ritornando ad esser art director (di iosonopipo) adesso ritrovo degli oggetti miei, che appartengono al mio corpo. Prima l’intera mostra dipendeva da chi decideva di venire diventando elogio al fallimento collettivo, della falsa partecipazione social, non tramutabile in reale, adesso costruisco con loro.

 

 

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Hai fatto dello shifting identity il tuo brand. In un momento in cui, mai più di prima, possiamo potenzialmente essere chi vogliamo, come hai gestito il grigio dell’essere chiunque in un ambito come quello artistico in cui si esige determinazione e riconoscimento?

Non avere un medium preciso, caratterizzante, sembrerebbe riduttivo quando si parla di vendite. Io sono stato artefice e vittima del surfare le mille onde di personalità che siamo tutti noi. L’artista deve esplorare gli altri anche e soprattutto attraverso se stesso e mettersi in dubbio. Io vengo dal teatro e sono sempre stato abituato a convivere con più caratteri. La tensione è implosa con la vendita e la decisone di abbandonare i social per questi ultimi tre anni. Intendo che l’identità è sparita nella stessa nube di caos generata dai social. Una nube che obbligava a fare tutto, people pleasing ma non arrivava a nulla. Così ho abbandonato i social, sebbene in piena pandemia. Decisione che si è rivelata un sano fallimento. Ho cambiato faccia al mio sito, adesso è un crowdfunding aperto. Un’azione popolare di sostegno che mi permetteva di capire se fosse possibile sostenere l’arte senza vendita e soprattutto non aver altra economia se non quella generata da me con altro lavoro. Tutt’ora è una domanda aperta che non so dove porterà.

 

È complicato no sapere cosa si è e cosa si farà?

Quando si è giovani si ha più ansia di essere compresi. Io sono stato dell’idea che – come suggerito da Flavio Giurato – “io le cose non le so, le sento”. Mi stimola più l’emozione provata che metabolizzare per intero un lavoro. Il lato commerciale mi ha sempre lasciato indifferente nonostante la sovraesposizione di ciò che ho fatto e di chi sono. Non mi sono mai chiesto se i miei gesti potessero avere conseguenze diverse o concepiti per altri fini, ho sfruttato gli strumenti alla mia portata perché mi servivano – vedi e-Bay, i social…D’altro canto io lavoro per relazione e per dirla con la Merini, mi deformo attraverso gli altri e sono sempre pronto ad esser altro dopo un incontro che mi illumina.

 

I social oggi riescono a legittimare l’arte?

La vera domanda per me è sempre stata: “quanto sarebbe cambiato il mio lavoro senza i social?” è uno strumento che fa parte di noi e se esiste possiamo e dobbiamo usarlo. Ho ricorso ai social per organizzare le call che poi mi hanno aiutato a realizzare tecnicamente e logisticamente i miei interventi. Il social è un mezzo e un meccanismo di questa struttura. Se deve essere lo spazio a legittimare l’arte io penso che per me lo spazio dell’arte è dove essa risiede.

 

Quali sono i tuoi progetti futuri?

Di sicuro faccio una call!

 

In copertina: Installation view “Qualche cosa è ritrovata”, personale Giuseppe Palmisano, Ombrelloni Art Space, Milano, 2023