La (s)cultura della moda
In uno strabiliante tripudio di sincretiche atmosfere, luminosa ed eterea la cantante islandese Bjork sovrasta il palco dello Shrine Auditorium di Los Angeles e dello Chase Center di San Francisco avvolta da volumetrici tessuti, cosmiche forme d’organza, prominenti finiture metalliche per il suo ultimo tour Cornucopia.
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Una performance dirompente ed espansiva che punta il suo occhio di bue sulle scultoree vesti della fashion designer olandese Iris Van Herpen, con la quale la cantante ha ormai da tempo intrecciato un’intensa e lunga collaborazione, e della collezione primavera 2022 del talentuoso stilista giapponese Kei Ninomiya, nato sotto l’ala protettrice di una delle più rivoluzionarie figure del fashion system Rei Kawakubo di Comme des Garçon.
Prescindendo dalle solite gerarchie e categorizzazioni a cui siamo ripetutamente abituati perché necessitiamo di un inscatolamento settoriale, non si può non elevare su un luminoso piedistallo la scultura modellata dalla Van Herpen, che riesce magistralmente a sconfinare dall’idea di haute couture, scivolando prepotentemente come un fiume in piena in una cascata nell’ordita trama di quella che definiamo aulicamente come Arte. Sì, è un’opera d’arte [un coro accoratamente urla: “Sacrilegio!”].
E non è casuale il richiamo al mistico scenario naturale di cui la designer si nutre avvalendosi dei cinque elementi che vengono scolpiti in forme liquide, evanescenti, fluide dai tratti avanguardistici, utopici. Di quella stessa utopia celebrata dalla poetica di Bjork che prevede in un futuro post-apocalittico la genesi di una specie mutante derivata dalla fusione di uccelli, piante e umani: ed ecco che una simbiosi trascendentale si antropomorfizza nell’abito “Sphaera”. Il corpo si veste di un’aura bioluminescente, prendendo le sembianze di un avatar-orchidea cangiante in euritmia con le movenze dell’artista.
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Questa processualità ideativa si accosta in fondo perfettamente alla “spugna” arricciata in tulle nudge di Kei Ninomiya. La parvenza di un’ombra, l’effimera rarefazione si materializzano nel rigonfio abito, come un inno al ritorno a strutture primordiali, un’invocazione all’umanità per manifestare quanto l’uomo sia parte integrante di un organismo complementare.
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Non si sta parlando forse lo stesso codice espressivo con cui l’artista contemporaneo si pronuncia quando è intento a progettare, maneggiare e concretizzare il suo campo visuale? Schizzo – forme – volumi – concetto. Un’inversione di parti si può persino azzardare, pensando alle tangenze e alle trasversalità che si intrecciano tra i termini, sempre se si vuole limitare a riflettere sul concetto di designer, scultore, artista, stilista. Basti pensare, da una parte, a due nomi titanici che hanno fatto dell’abito scultura il loro segno distintivo: Elsa Schiaparelli, appellata in maniera sprezzante da Coco Chanel “artista” e che con quegli artisti, Jean Cocteau e Salvador Dalì per citarne alcuni, ha vissuto a stretto contatto, e Roberto Capucci, artefice di sculture e di architetture di seta.
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Dall’altra, nomi di cosiddetti Artisti con la A maiuscola, che hanno fatto dell’abito materiale extradiegetico. Come abiti-scultura sono i lavori di Louise Bourgeois, indossati durante le sue performance A Banquet/ A Fashion Show of Body Parts in cui fa uso del lattice per imbastire sporgenze e protuberanze, dove il tessuto diventa estensione del corpo. Abito e corpo, corpo e abito, una seconda pelle da indossare nelle sculture dell’artista bolognese Sissi (Daniela Olivieri), di cui fa uso nelle sue azioni. E talvolta l’abito assume semplicemente la valenza di mero oggetto scultoreo senza l’ausilio del corpo, costruito per superfici modulari con materiale di riciclo (è il caso dell’Archiabito di Enrica Borghi).
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E se volessimo ostinatamente continuare il discorso delle categorie a priori, il designer e l’artista non sono altro che un giano bifronte, due facce della stessa, unica medaglia. L’atto di “rammemorazione” presente nel lavoro della Bourgeois, ovvero il racconto autobiografico cristallizzato nella forma scultorea e traccia soggettivizzata cucita e ricucita, si accorda con la stratificazione memoriale della promettente giovane fashion designer Cristina Cucinotta (cover manifesto del nostro editoriale).
«Le forme degli abiti sono certamente un richiamo ad un momento temporale della mia vita o di quello che mi ha particolarmente colpito in positivo o in negativo. Mi piace rappresentare i segni del vissuto, puntando più sulla narrazione, rispetto alla forma. Spesso la componente scultorea viene da sé, non è voluta, seppure nella mia mente ho ben chiaro le forme che cerco di riportare ogni volta e mi piace sperimentare in maniera naturale, senza regole. Non disegnando prima i capi, mi rendo conto che il risultato è spesso involontario, ma fedele ad elementi che mi accompagnano nel quotidiano. Rimango semplice nella struttura, nei tagli, mirando sul colore e sui dettagli. Penso che gli abiti siano dei fogli, delle pareti, dei supporti su cui scrivere una storia.» Le immagini scenografiche realizzate in ricercati shooting fotografici diventano successivamente tableaux vivants: «Ricerco un senso in tutto ciò che creo, dalla scelta della modella al luogo. Mi piace collocare le cose in modo tale da raggiungere l’unione di tutti gli elementi e non solo dare attenzione ai capi. Un bel vestito rimane bello comunque, anche buttato in un angolo. Ma un vestito può essere mezzo insieme al contesto per dire di più. Se separo le cose si perde la potenza di un’immagine».
I crossover potrebbero non fermarsi dal momento che scultoree sono le pose della mannequin istrionica, la conturbante e grottesca Cindy Sherman, che veste abiti dismessi per sfilacciare l’immagine di una donna fin troppo ancorata a facili stereotipi e che con la moda avrà un legame prolifico, così come Vanessa Beecroft e le sue modelle con indosso abiti firmati.
L’abito diventa il tempio e il simulacro dell’arte per tanti artisti trasformisti e investe persino in senso più ampio il sistema e i suoi vernissage, momento spettacolare ed esibizionistico. La grandiosa Lea Vergine ricordava quanto i tempi siano cambiati rispetto al passato: «Oggi non è che ti devi allestire come una volta, perchè allora Bucarelli docet…» E aggiungiamo quanto Francesca Alinovi docebat con il suo stile punk chic che poteva far invidia a tutti gli influencer, che per la fashion week milanese si abbigliano a parata, attendendo trepidanti gli scatti dei fotografi all’uscita dell’ultima sfilata.