Irene Catania: studio visit
Lo studio di Irene Catania da sui palazzi della periferia della città, è (obbligatoriamente) verde misto all’azzurro del cielo che fortunatamente riesce a vedersi. Quel pomeriggio era particolarmente luminoso.
Non appena entrata mi sono accorta subito dei segni del bambino, il figlio di due anni e mezzo che gioca a fare l’artista. Non solo tracce ma veri e propri segni lasciati per dare libero sfogo all’espressione di un linguaggio alternativo.
Irene mi accoglie, mi fa accomodare, e lei si sistema sui comodi cuscini poggiati sul pavimento, percepisco subito il suo bisogno di stare a contatto con la superficie, sono sicura che se fosse stato un prato ne avrebbe gioito di più. Mi immergo quasi immediatamente nel suo mondo tanto ingenuamente quanto in modo incantato. L’ho ascoltata parlare della sua ricerca, un fiume coloratissimo di parole che sfocia in un mare coperto da una distesa di costellazioni. È approdata (nuovamente) alla lentezza della pittura dopo aver gustato la velocità e l’adrenalina della fotografia e del video. Mi ha ricordato un verso di Childish Gambino “Parents tryna tell the children please slow down” (Feels like Summer – Childish Gambino) sembra anche lei sussurrarlo al figlio con le sue pennellate studiate. Irene si rivolge a tutti i bambini tramite il proprio, preparandoli a una natura da rispettare, da non dare mai per scontata, ma soprattutto da temere sempre, insegnando a adattarsi a Lei e non il disastroso contrario.
Mentre parla mi sembra di ascoltare una cantastorie che risveglia i miei ricordi di bambina misti alle consapevolezze di giovane adulta. Mi racconta dell’importanza che ha avuto la vita da condominio per la serie Condomini appunto, un microcosmo che durante la quarantena si è trasformato in convivenza e condivisione forzata di emozioni “sentivo la vicina che chiacchierava, la coppia al piano di sopra che litigava, gli altri bambini piangere, distanziati da 40 cm di calcestruzzo i quali a noi sembrano un’infinità nell’intimità delle nostre abitazioni”.
Nell’ultima serie SAVETHENATURE, Irene si è caricata di una responsabilità imponente, si è chiesta “in che modo posso pensare io una cosa per gli altri? Come posso inscenare un mio pensiero che sulla tela appaia però come il proprio?”. Il dubbio e l’emergenza l’hanno spinta indietro nel suo passato, nei pa(e)ssaggi infantili che abbiamo vissuto tutti: dalla paura del buio al primo contatto con un fiore (lei ricorda bene i denti di leone del nonno), al primo sguardo di intesa con un felino. Ricettacolo di tali memorie è la notte, tuttora la sua parte preferita della giornata, selvaggia e selvatica, che ha impresso nella prima tela della serie, I gatti lo sanno.
In questo dipinto svetta un razzo, simbolo della velocità con cui ormai ci muoviamo e attraverso la quale il progresso tecnologico si spinge, fino a superare il confine terrestre e atterrare in altri pianeti. Irene, che ha messo da parte la velocità dello scatto, adesso si interroga sulle possibilità del razzo raffrontate alla ancora scarsa conoscenza del nostro ecosistema “non sarà forse il caso di andare piano?” domanda che fa a se stessa e che rivolge retoricamente attraverso lo sguardo pensieroso del bimbo e del giaguaro in primo piano. Anche il dipinto Voleva andare su su e invece è andato giù giù fa da supporto visivo alle favole della buonanotte e riflette sulla contraddittorietà della velocità: un astronauta (il sogno di ogni bambino) tracotante sfida la natura andando su su e precipitando rovinosamente sulla Terra accolto da uno squalo balena dal manto blu a pois che ricorda il cielo che l’uomo ha tentato di sconfinare.
L’artista catanese ha scelto la strada più colorata e naif per trasmettere un messaggio tanto urgente quanto nobile. “Il pensiero di svegliarmi con la rabbia per un cambiamento impossibile mi distruggerebbe fisicamente, devo dare speranza a me stessa e soprattutto a mio figlio” – ci spiega – “in questo momento di pausa sono tornata indietro nel tempo, a quando da piccola mio padre mi portava in campagna e quasi per magia sono riuscita a sentire i suoni notturni della natura nelle mie notti in studio da adulta”. I protagonisti della pittura piatta di Irene sono animali e piante, ma se scaviamo la superficie ci accorgiamo che impersonano la memoria e la paura, prima personali e poi condivisibili e condivise da tutti. La serie che ha fatto da spartiacque nel suo percorso è Bua, non a caso, poiché come ci racconta “quando l’ho esposta ho percepito intensamente le emozioni che i miei dipinti provocavano in chi li osservavano”, come veri e propri ex-voto, risvegliano in chiunque paure primordiali, traumi che con il tempo impari a ridimensionare nonostante poi emergano con la stessa potenza perturbante del principio.
Lungi dal non sorvolare sulla tesi principale della sua ricerca ovvero la salvaguardia dell’ambiente e la conservazione della biodiversità attraverso la sua individuazione e protezione, unici mezzi per la sensibilizzazione diffusa, i colori piatti e le tinte unite anche nei dettagli certosini degli occhi degli indri o dei petali dei fiori, rimbalzano agli occhi e penetrano fino ai disegni composti da bambini, fino alle occasioni che ispiravano quei disegni, fino ai piedi che non si vergognavano di toccare la terra e la sabbia, fino ai ricordi più reconditi in cui la vita scorreva senza dubbio più lentamente con particolare riguardo e sorpresa per i suoni e con la paura naturale delle prime volte, fino a scoprire di aver avuto un rapporto forte con la terra e tutte le sue derivazioni, man mano diventato non corrisposto. Da noi.
Con il richiamo a raccolta dei nostri ricordi, Irene non si serve della rabbia per alzare la voce, bensì ci invita a non vergognarsi delle paure e della nostra infanzia, dolcemente resi alla consapevolezza che saranno sempre parte di noi e dovremmo farne tesoro, quindi please, slow down.
In copertina: studio visit, ph Ricky Caruso