Design

Intervista a Giovanni Levanti

 

Si aggiunge un prezioso tassello alla sezione design con l’intervista a Giovanni Levanti. Grande protagonista della storia del design italiano, si forma a Palermo seguendo i corsi di E. Sottsass, A. Mendini, U. La Pietra, E. Mari, M. De Lucchi e allievo di Andrea Branzi, l’autore de La casa calda testo fondamentale del nuovo design italiano. Assieme al maestro milita all’interno del gruppo Memphis di Milano, un collettivo di designer fondato da Sottsass nel dicembre 1980, che ha portato una ventata di sperimentazione e innovazione in una città già in fermento con ampi risvolti a livello nazionale e internazionale. Del suo progettare dice: “è sempre qualcosa di complesso, mi sono fatto una mia maniera cercando di catturare le idee, cercando l’ignoto attraverso l’insicurezza, l’incoscienza e la dispersione in quel particolare momento del fare progettuale che mi piace chiamare del candore umano”.

 

Mi sento di poter porre domande sulla storia del design – passata, presente e futura – avendo l’opportunità di conversare con colui che ne ha reso possibile la sua affermazione in Italia. In che modo il rapporto design/funzionalità è cambiato nel corso del tempo condizionato da gusto e fortuna tipici delle mode?

Personalmente intendo la funzionalità in modo soggettivo. La funzionalità intesa soggettivamente, oltre a costituire in sé un paradosso, si traduce in necessità, in urgente esigenza di trasformazione. Un oggetto può dirsi  funzionale quando  rimanda a un gioco di attrazione e appercezione continuo col fruitore. Un dialogo che non scade nella banalità degli automatismi. L’oggetto che incuriosisce desta il desiderio di approccio, la voglia di viverlo in ogni suo aspetto, una piacevolezza  lontana dalla consuetudine di un uso distratto. Mi piace poi osservare attentamente i cambiamenti ai quali associare possibili nuovi comportamenti, fuori dalla logica dei  trend o delle mode, ma rimanendo invece nei termini utilitaristici delle possibilità.

 

Questa modalità progettuale fa entrare presto in ballo il lato estetico del design. Da quando nacque è stato spesso accompagnato da questo amico/nemico a seconda dei casi. Definito da te stesso “piercing sonoro” perché sulla bocca di tutti, alla sua popolarità era implicito un gusto visivo rilevante. Tra le molteplici necessità di oggi, è ancora possibile tutto ciò?

Ho parlato di “piercing sonoro” pensando al chiacchiericcio intorno al design. Il termine “design” usato sempre più in maniera disinvolta quasi fosse un accessorio decorativo applicato a qualsiasi contesto o a qualsiasi frase. Nel design la componente estetica è importantissima, non a caso un buon prodotto è quello che possiede un perfetto equilibrio tra tecnica ed estetica, ed è questo equilibrio, sintetizzato in un forma finale, il vero contenuto, la vera qualità. Il termine necessità invece, oltre che impegno verso la trasformazione, è ormai quasi sinonimo di sostenibilità, in un mercato che continua a produrre sempre più merci e che quindi va nella direzione opposta. In questo conflitto, io da sempre sorridendo, dico che seguo la linea del fare meno, nel senso del cercare di evitare progettualmente l’ennesima ovvietà. Dietro la parola sostenibilità si accumula talvolta anche una crescente e rischiosa retorica. Non è un caso che Andrea Branzi parli di sostenibilità sostenibile, ovvero del pericolo che estremizzando una certa cultura ambientalista si finisca poi col privilegiare certe tecnologie ecologiche o modalità formali autoreferenziali a discapito della ricerca di forme estetico/simboliche. Nell’eterogeneità delle dinamiche estetiche direi poi che sia appropriato distinguere tra apparenze e apparizioni: le prime sono feticci opachi, spettri di oggetti ma fortemente carichi di capacità seduttive; le seconde, invece, nuove presenze, segni innovativi della realtà che aprono possibilità e indicano inediti modi comportamentali.

 

In un momento che, al contrario corre, (a prescindere dalla emergenza sanitaria, se è possibile escluderla) verso cosa deve muoversi il design e in che modo? 

Sono tanti i punti che emergono dalla questione: c’è un mercato in alcune parti del mondo ormai saturo. L’industria è sempre più condizionata dal marketing e molto omologata su esempi di successi commerciali che bruciano velocemente. Purtroppo, riguardo la situazione italiana, il rapporto di fiducia progettista/produttore caratterizzante gli anni gloriosi del Bel design, col nuovo secolo, sembra definitivamente imploso con grave danno per tutta l’immagine della cultura progettuale italiana. Appare evidente poi la sovraesposizione ad immagini virtuali. Questa dimensione inevitabile oramai, potrebbe essere colta criticamente e servire anche per aiutare a sperimentare la società futura, anticipandone le esigenze: il paesaggio urbano, per esempio, ha subito e continuerà a subire forti stravolgimenti per cui bisognerà ripensare a come saranno organizzate le città future e di conseguenza a come saranno abitate. Il paesaggio domestico dall’altro lato, a seguito delle restrizioni, ha acquisito nuovi parametri: pensiamo alle pluralità d’uso della casa, dal lavoro online a dimensione privata. Come si relazionano?

 

A tal proposito i tuoi arredamenti domestici iconici come Sneaker e Xito hanno subito dei cambiamenti di percezione fin dalla loro prima messa in mercato…

Sneaker incarna assieme a Xito una di quelle apparizioni di cui ti parlavo. Sono il risultato di un intuito e di uno sguardo attento sui nuovi comportamenti: l’interesse di molti verso il fitness mi ha portato a immaginare una rimodulazione delle attrezzature ginniche traslandole in un’abitazione, con canoni adeguati all’atmosfera che una casa implica e quindi ben diversi da quelli di una palestra. In Sneaker c’è un vero e proprio mix di esperienze e materiali: il nome rimanda alla calzatura sportiva e informale; i tessuti tridimensionali e molto resistenti appartengono al mondo delle auto perché utilizzati per rivestirne i sedili; infine la tipologia fa pensare ad una possibile evoluzione delle palestre. Insomma cortocircuiti visivi e sensoriali e di conseguenza, come accade anche in Xito, si tratta di “cose” che non si lasciano afferrare subito, ma funzionano grazie alla nostra curiosità, che li scopre reali e con una inaspettata logica interna, conclusa e chiara.

 

Quali sono i progetti a cui hai lavorato recentemente?

È stata e continua ad essere una fase di transizione nell’attesa di comprendere meglio i nuovi scenari che il design ha davanti a sé. Disegnando per l’azienda Et.al, specializzata nella produzione di arredi per la collettività, mi sono dedicato a progetti che riguardano il complesso tema dell’accoglienza nei luoghi pubblici. Ho inoltre avuto la possibilità di riorganizzare parte del mio archivio personale riscoprendo e rilanciando, un’esperienza per me molto importante. Purtroppo è stata rimandata una mostra in cui avrei dovuto esporre  I Cantieri, una collezione di piccoli ibridi sperimentali tra architettura e scultura, realizzati in plexiglass colorato, materiale a cui l’esposizione era dedicata: lavori inediti che mi piacerebbe presto mostrare in pubblico. E poi, che dirti, i lavori che vorrei fare: da un po’ rifletto sul fatto che non ho più lavorato sul tema della luce. Oggi tende all’automazione e gli apparecchi illuminanti, anche nella casa, tendono a scomparire, a smaterializzarsi; è invece molto stimolante per me cercare nuove figure illuminanti, nuove presenze solide all’interno della sfera domestica.

 

Quanto c’è della Sicilia nei tuoi progetti?

Penso ai colori, colori percepiti come epifanie, talvolta come veri e propri esempi di fosfeni limpidi e chiari. Colori che aprono in maniera improvvisa verso mondi sconosciuti: energie cromatiche con cui cerco di dialogare per distinguerne i vari poteri. Sono quei colori che vedi in Sicilia nelle ore del giorno e della notte, all’alba e poi al tramonto quando sottolineano ed evidenziano la linea dell’orizzonte, un limite che permette sempre di ricordare e immaginare. Sono i colori dei bagliori sul mare in quella relazione speciale tra te e il sole: meraviglia!