Art

L’ombra del suono
Intervista ad Alessandro Librio
di Salvatore Davì

Comprendere profondamente il tessuto urbano di una città equivale ad abbandonare lo stereotipo della città-panorama ed aprirsi ad un testo sensoriale più ampio in cui l’occhio sfugge dalla responsabilità che totalizza in esso la verità del reale; si percepirebbe la vibrazione della materia e l’urbanistica assumerebbe il valore di un corpo sensoriale che si presenta come una traiettoria tattile e un ‘corpo sonoro’. Alessandro Librio, musicista e artista siciliano, elabora un processo che lega materia e suono creando contaminazioni tra diversi metodi espressivi; il suono diventa una presenza che si concretizza non solo nelle performance musicali ma anche in quelle artistiche, nei paesaggi sonori, nelle installazioni e nei lavori pittorici. Il senso della sua enunciazione artistica si basa su una sorta di indeterminazione professionale che amplifica il raggio d’azione e gli permette di sperimentare le possibilità di un’ubiqua creatività.
Per entrare a fondo nel lavoro di Librio si deve brevemente citare il principio di indeterminazione della fisica quantistica ovvero quel principio per cui la materia presenta una doppia natura (corpuscolare ed ondulatoria) e il suo comportamento dipende dall’ambiente in cui si trova (dalle condizioni del sistema di riferimento), per cui in determinate situazioni si presenta come corpuscolare (materia) ed in altre come ondulatoria (luce, suono); questa doppia natura mette in evidenza il fatto che suono, luce e materia sono in realtà fenomeni fisici unitari che si possono rappresentare attraverso modelli diversi e che la loro natura dissimile sia solo apparente e derivi dall’insufficienza del nostro linguaggio. Dai lavori dell’artista emerge questa consapevolezza per cui sembra che i paesaggi sonori si posino nei luoghi con la loro ‘pesantezza’ e con la loro ‘massa’ e che la luce della pittura obbedisca ai pieni e ai vuoti ‘dell’ondulazione gestuale’.

Alessandro Librio ci presenta il suo lavoro e si racconta in questa intervista.

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Chi è Alessandro Librio?
Non è semplice per me rispondere a questa domanda, non so bene chi sono oggi, sicuramente sono una persona sempre alla ricerca e mi ritrovo nell’esperimento, oggi sono un uomo di 30 anni da alcuni definito musicista-compositore, da altri un artista in senso più ampio. Sto tentando di fuggire da ogni definizione troppo rigida perchè vorrei lasciarmi la libertà di spaziare in diversi campi. In passato sono stato un pessimo scolaro ed un bravo pattinatore ma ad un certo punto, nonostante la carriera che mi si prospettava nel pattinaggio, ho sentito l’esigenza di rinunciare per dedicarmi all’arte.

Come definiresti il tuo lavoro? Cosa influenza la tua ricerca?
I miei genitori, senza ombra di dubbio, rappresentano per me un punto cardine di orientamento, il punto di partenza fondamentale per la mia ricerca, le mie radici. Un’altra circostanza che ha influenzato il mio modo di vivere è stata una sorta di solitudine iniziale dovuta al fatto che Erice (la mia città natale), durante la mia infanzia, era quasi deserta già da diversi anni. Il mio approccio all’arte è avvenuto in maniera spontanea già dai primi anni di vita: scrivevo musica e giocavo con i pennelli pensando che a nessuno mai sarebbe interessato quello che facevo; fino all’età di tredici anni non avevo idea che, ai giorni nostri, potessero esistere compositori ed artisti ‘viventi’ e pensavo che l’arte fosse qualcosa appartenente al passato.

C’è stato un evento o un incontro che ha segnato una svolta nella tua ricerca?
Quando mi trovai per puro caso ad un concerto di musica contemporanea a Palermo ebbi la rivelazione che l’arte era ancora qualcosa di vivo e realizzabile.
Non posso non citare Curva Minore che per molti anni mi ha permesso di stare a contatto con artisti e musicisti di grande spessore, una realtà che io definisco ‘una città di per sé’.

L’esperienza musicale ti ha portato per un periodo della tua vita a vivere a Londra. Proprio in quella città hai cominciato a muovere i primi passi all’interno del sistema dell’arte. Raccontaci la tua esperienza londinese.
Londra è incredibilmente stimolante. Subito dopo il mio arrivo sono stato selezionato per suonare alla Queen Elisabeth Hall ed ho registrato le musiche di un documentario su Antony Gormley per la BBC. Da quel momento ho prodotto installazioni per diverse gallerie: Waterside Project Space, Laban Centre e la EB&Flow Gallery con cui poi ho realizzato il mio lavoro per la Biennale di Venezia. Considero Londra la mia seconda città ma per il momento non ho intenzione di tornarci.

Quale connessione ha il suono con il mondo figurativo della tua produzione pittorica?
Il mio modo di lavorare non fa nessuna distinzione fra pittura, installazione, teatro, danza, suono etc.. le considero tutte ‘curve’ (dall’onda sonora al gesto pittorico). Il suono di un musicista non è forse il prodotto di un gesto? E come definire allora quel gesto? È pericoloso e riduttivo attaccare etichette alle cose; il mio primo insegnante di violino, in Conservatorio, non ha fatto altro che dirmi, per tre anni, che avrei fatto meglio il benzinaio. L’arte per me è un’esigenza, una religione, qualcosa che non vorrei mai capire veramente. Comprendere è anche tentare di controllare ed è differente da ‘percepire’. Non è fondamentale capire l’arte che adesso viene definita contemporanea, ci vuole la giusta distanza temporale; Il mio lavoro è spesso considerato troppo “accademico” dai non accademici e “non accademico” dagli accademici, ma la cosa non mi turba minimamente, al contrario mi diverte.

Negli anni hai sperimentato contaminazioni che hanno superato la barriera che separa i diversi linguaggi, hai portato il suono e la musica all’interno dell’environment dell’arte visiva. L’esperienza dell’ultima Biennale di Venezia con l’installazione sonora Palermo a Venezia segna la strada di una contaminazione acustica tra luoghi per mezzo di un paradosso: l’impossibile presenza sonora di una città nell’altra. Venezia acusticamente lontana dalle caratteristiche che contraddistinguono la città di Palermo accoglie le  istanze sonore di quest’ultima; le due città mettono in discussione le proprie identità e le proprie autorappresentazioni attraverso un gioco di scambio. Hai trasferito in presa diretta il paesaggio sonoro palermitano in quel di Venezia, raccontaci brevemente quest’esperienza, la struttura logistica e la gestione di un progetto così tecnicamente complesso.
Se fosse possibile ripiegare l’Italia su se stessa, come lo spazio-tempo per Einstein, Palermo e Venezia verrebbero a toccarsi. Per la Biennale ho pensato di dare a Venezia, per un giorno intero, l’unica cosa che non ha mai avuto e che forse non avrà mai, il traffico automobilistico. Tecnicamente ho spostato in tempo reale (per 24 ore 7 minuti) grandi zone sonore di Palermo riversandole per le vie del centro storico veneziano con punto centrale di diffusione a Piazza S. Marco; Venezia, avvolta dai suoni di Palermo, veniva audio-visivamente ripresa e proiettata in diretta alla EB&Flow Gallery di Londra e su 4 siti internet. L’installazione, considerata molto invasiva per la città di Venezia, è stata presa di mira dalle forze dell’ordine che hanno cercato di fermarla attraverso pretesti burocratici.
L’aspetto più interessante dell’installazione è stato il ritorno al paesaggio sonoro veneziano dopo oltre 24 ore di traffico palermitano; ero incuriosito da come i veneziani si sarebbero riappropriati dei loro suoni. L’installazione è stata pensata per la gente che vive a Venezia e non tanto per il pubblico della Biennale. Ho inteso il suono della città di Palermo come un vestito sonoro da far indossare a Venezia.
Palermo a Venezia non è una provocazione ma semplicemente una proposta, un tentativo di unire la cultura del profondo sud con quella del lontano nord. Cultura? si, il suono delle città mi racconta molto della loro storia, non si tratta di rumore, ma di segno umano e non solo.

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In uno dei nostri incontri hai definito la tua pittura come ‘pittura ad ombra’. Spiegaci il senso di questa tua affermazione.
La mia pittura è “pittura ad ombra” in quanto l’ombra come la vernice viene fissata sulla tela. Ciò che mi ha portato a questo tipo di ricerca è stata una lunga riflessione sulla luce naturale e su quella artificiale; la grande differenza fra le due sorgenti sta nel fatto che la prima è in continua variazione ed è quindi quasi impossibile da gestire, la seconda è sempre costante ed uniforme. La luce elettrica ha (consapevolmente o inconsapevolmente) influenzato tutti i pittori dal XVIII secolo in poi e l’ombra non è che l’altro profilo dello stesso volto.
Molti artisti utilizzano e sperimentano con l’ombra; il mio lavoro consiste nel fissarla insieme ai colori sulla tela come se non ci fosse differenza fra questi due elementi. Per questo per i lavori pittorici preferisco utilizzare la dicitura “pittura ad ombra”.

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Da circa un anno hai deciso di tornare in Sicilia e trasferirti a Palermo. Come definiresti il panorama artistico siciliano? Esiste una rete o un sistema dell’arte dove lo scambio tra individui ed operatori possa definirsi maturo?
Lo definirei denso, non mi ritengo un conoscitore del sistema artistico siciliano, ho vissuto a Londra e solo da pochi mesi sono ritornato in Sicilia. Posso dire però che a Palermo ho subito conosciuto delle splendide persone e che solo in un secondo momento ho scoperto essere degli artisti straordinari come Francesco De Grandi, Linda Randazzo,  Laboratorio Saccardi, Nike Pirrone, Andrea Di Marco e tanti altri.
Non so in che senso si potrebbe intendere la definizione di ‘maturo’;la Sicilia, per il suo ricchissimo patrimonio culturale, lo è sicuramente. È la mia terra e so che non smetterà mai di regalarmi il ‘senso’ di ciò che produco; ho bisogno di viaggiare e lavorare in altri luoghi, anche per lunghi periodi, ma ho altrettanto bisogno di tornare a casa, dove forse è più difficile ‘fare’ ma dove mi sento più libero di pensare.

Il tuo lavoro riflette sul paradigma estetico teatrale e sull’arte performativa in cui il corpo diventa il centro di una esplorazione spazio-temporale; suono e corpo partecipano alla costruzione di una coreografia di sensi eterogenei. Le due performance documentate in Sicilia, toccano dei punti nevralgici per il territorio siciliano. Nell’Incaprettato usi il tuo corpo come barometro per testare non solo la tua resistenza ma simbolicamente anche quella di tutti i siciliani; La performance consiste in un vero ‘incaprettamento’ dalla durata di sei ore e due minuti ed è stata realizzata il 23 maggio del 2012, in occasione del ventesimo anniversario della morte del giudice Giovanni Falcone. Nella seconda performance, Balarm, il tuo violino si lascia suonare dal vento palermitano in un viaggio panoramico su parapendio che vede protagonista la città di Palermo dall’alto del Monte Grifone.  Da cosa nasce l’esigenza di usare il corpo nel complesso della tua produzione artistica?
Tutti gli esseri viventi comunicano con il corpo; è un linguaggio universale, uno dei più antichi ed oserei dire il più naturale. Considero il corpo una sorta di filtro fra il pensiero e l’opera, il mezzo con il quale proiettare la propria energia… l’energia che può fermarsi su una tela, su una pellicola o nella memoria di chi vede una performance

Che progetti hai per i prossimi mesi? A cosa stai lavorando?
Sto cercando il luogo adatto per organizzare la mia prima mostra personale in Sicilia.

 (Video 1)

(Video 2)

(1) Alessandro Librio, No classical quartet for Demetrio, Londra, Eb&Fow Gallery, 2011, scultura sonora
(2) Alessandro Librio, Palermo a Venezia, Venezia, 4 giugno 2011, Biennale di venezia, installazione sonora, foto di Francesco Murana
(3) Alessandro Librio, L’uomo seduto sull’ombra, 2011, ombra ed olio su tela, foto di Francesco Murana
(4) Alessandro Librio, Veleno, 2011, ombra ed olio su tela, foto di Francesco Murana
(Video 1) Alessandro Librio, L’Incaprettato, performance, 23 maggio 2012, frame da video
(Video 2) Alessandro Librio, Balarm, performance, 2012, frame da video

www.alessandrolibrio.com

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