Intervista ad Adelita Husni-Bey
di Maria Giovanna Virga
Giorno 20 Agosto 2012 si è conclusa Clays Lane Live Archive, prima esposizione personale nel Regno Unito della giovane artista Italo-Libica Adelita Husni-Bey presso la Supplement Gallery di Londra.
La mostra è la conclusione di una lunga ricerca, che l’artista ha iniziato nel 2009 interessandosi alla cooperativa di Clays Lane e della vicende che ne hanno portato all’abbattimento nel 2007 per la preparazione dei Giochi Olimpici di quest’anno.
Un archivio composto da fotografie, documenti, mappe e video che sin dalla sua progettazione si è dimostrato capace di sollecitare azioni solidali e forti momenti di aggregazione, sentimenti che fluiscono anche tra i visitatori, i quali mossi dal desiderio di conoscere la storia di Clays Lane e delle persone che vi hanno abitato continuano la rete di rapporti che Adelita Husni-Bey ha saputo attivare.
L’archivio verrà donato all’Instituto Bishopsgate nel mese di Novembre e messo a disposizione del pubblico.
Come sei venuta a conoscenza della cooperativa di Clays Lane? E quali aspetti del caso ti hanno maggiormente interessato per la tua ricerca?
Nel 2009, studiando alla Goldsmiths e frequentando un Master in Urban Studies, mi sono interessata alla questione della riqualificazione urbana ed in particolare la riqualificazione imposta da “mega-eventi”, quali le Olimpiadi. Ho studiato gli effetti delle Olimpiadi su una città come Barcellona, diventata una “branded-city”, ovvero una città pensata dalle istituzioni pubbliche e governative come un “prodotto” in “vendita” per turisti, imprenditori e immobiliaristi; una citta’ plastica dove i residenti perdono continuamente di valore e voce. Mi interessava quindi capire e sottolineare le ragioni della cancellazione della memoria storica di un quartiere intero in vista delle Olimpiadi Inglesi, e quali metodologie sarebbero state impiegate in questa cancellazione; ma soprattutto mi interessava cercare di contrastarla attraverso l’archivio. Nelle prime fasi della ricerca mi sono imbattuta nell’unica immagine di Clays Lane che appariva sul sito delle Olimpiadi (e ora stranamente scomparsa). Era un immagine studiata a tavolino che ritraeva la cooperativa abbandonata; la didascalia non menzionava la cooperativa, o il fatto che più di 450 persone erano state sfrattate da un luogo dove alcuni avevano vissuto per più di 20 anni, bensì descrivevano un “complesso di case popolari, vicine al villaggio olimpico”. In verità la cooperativa era stata abbattuta per far posto al parcheggio del villaggio olimpico. Paradossale che le Olimpiadi si vantassero della possibilità di offrire a tritoni, falene e uccelli di tornare nel luogo dal quale erano stati rimossi durante la fase di costruzione grazie ad un progetto ad hoc che li avrebbe riportati nei loro luoghi di origine, mentre per gli abitanti di Clays Lane evidentemente questo progetto non c’era.
Durante il tuo percorso artistico hai sempre lavorato con documenti dai forti connotati politici e sociali, rielaborandoli successivamente in disegni, fotografie, video ed azioni. Quali sono stati gli obbiettivi o gli interessi che questa volta ti hanno indotto a formalizzare i risultati della tua ricerca attraverso l’uso dell’archivio?
L’archivio tradizionalmente serve come mezzo per veicolare una determinata versione storica, legata a un luogo, ma le sue connotazioni sono sicuramente più ampie. Dietro un archivio c’è una paziente rimarcazione di una suddetta verità locale, imposta generalmente da una meta-narrativa istituzionale. In questo caso era mio interesse creare la possibilità dell’esistenza della memoria storica di Clays Lane, negata dalle Olimpiadi, attraverso un processo partecipativo e poli-vocale che non si formasse solo ed esclusivamente da una ricerca svolta da me, ma da una relazione stabilita in un lasso di tempo esteso con gli ex-residenti, e dalla loro volontà di raccontare le memorie che detengono. In un certo senso, non ho fatto altro che facilitare un processo di formalizzazione di una memoria collettiva.
Per poter comprendere la natura di ogni archivio è fondamentale capirne l’organizzazione. Puoi spiegarmi come hai pensato le sezioni che lo compongono?
La catalogazione standardizzata tende a raggruppare i documenti in maniera tassonomica, tende quindi a disciplinare e ordinare tramite una logica gerarchica. I partecipanti, in coerenza con i principi di questo progetto, hanno deciso di dare ad ogni residente la sua “scatola”, un suo luogo. Per “navigare” l’archivio il fruitore troverà un testo in ogni scatola che descrive il processo di archiviazione e formalizzazione del materiale contenuto, oltre alle ragioni collettive dietro la salvaguardia del materiale.
Oltre al desiderio di denunciare l’abuso che hanno subito le persone che abitavano a Clays Lane, perché ritieni sia importante preservarne la storia? Ti sei chiesta quali possono essere gli effetti futuri?
Clays Lane era la seconda co-operativa per persone single più grande d’Europa. Dal 1982 ospitava studenti, attivisti, scrittori, musicisti ma soprattutto persone che non avevano accesso alle liste per le case popolari, tuttora difficili d’accedere per persone single nel Regno Unito. Molti di coloro che vivevano a Clays Lane beneficiavano della vita in comune (vivendo in case da 4/6/10 stanze da letto), del network si supporto e dei servizi offerti dalla cooperativa. Non era un luogo idilliaco, nessun luogo lo è, e non era nostra intenzione rappresentarlo come tale, ma non è questa la ragione politica della salvaguardia della memoria storica del luogo, bensì è il gesto della creazione dell’archivio ad avere in se il suo significato politico. Oltre alla denuncia quindi c’è la speranza di aver riaperto un dibattito sulle cooperative per abitanti, una soluzione abitativa che si allontana con forza dal legame creditorio dell’affittuario-proprietario o del creditore-banca (mutuo), operando su una base che non ha come principio fondante il profitto individuale ma la qualità della vita comune. Spero che in futuro si possa imparare dagli errori e dalle scelte positive di Clays Lane anche tramite l’archivio, ma soprattutto spero che l’archivio divenga una cicatrice sul volto plastificato e sorridente delle Olimpiadi, testimone della brutalità ingiustificata e mistificata che spesso accompagna progetti di riqualificazione multi-milionari come questi.
Visitando la mostra è impossibile non avvertire il trasporto e la disponibilità con cui gli ex residenti hanno collaborato alla realizzazione del progetto e l’interesse che questo suscita nei visitatori. Quanto è importante per te il coinvolgimento di persone estranee all’ambiente artistico nella progettazione dei tuoi lavori?
Spesso sono io ad essere “l’estranea”! Portando avanti ricerche lunghe e tortuose trovo sia sempre stimolante cercare, se possibile, di avvicinarsi alla memoria “viva” di ciò che si sta cercando di portare alla luce. Questo implica l’avvicinarsi in modo diretto a chi ha vissuto e contribuito a cercare quel determinato immaginario sociale alternativo. L’importanza del coinvolgimento è chiara, le modalità lo sono di meno, vengono strutturate di volta in volta in funzione di chi partecipa e cercando di capire le necessità di ognuno. Le complessità sono molteplici, mentre la mia pratica si avvicina sempre di più all’etnografia non vuole avere i suoi tratti legittimanti, e tantomeno scientifici, dall’etnografia però cerco sempre di trarre la componente del codice comportamentale etico. Infatti il concetto di partecipazione nel contesto dell’arte contemporanea in se è estremamente complesso, poiché implica falsamente che la partecipazione sia presente su tutti i livelli, mentre sovente per ragioni pratiche, è necessario fissare dei limiti, ma quando si fissano questi limiti in precedenza, che partecipazione effettiva ci può essere? Bisogna poi confrontarsi con le altre problematiche di coerenza, quali la distribuzione del lavoro (che a mio avviso non può poi essere esclusiva o elitaria), un eventuale profitto o reddito (che andrebbe ridistribuito), un contatto prolungato (che vada oltre il periodo del “progetto”).
Molti dei tuoi lavori si presentano come tentativi di restituire alla memoria collettiva parte di qualcosa ch’è stato occultato o dimenticato. Credi che debba essere anche questo il compito dell’artista contemporaneo, restituire e svelare ciò che la società e l’informazione occultano?
Non posso dire che sia il ‘compito’ dell’artista, sicuramente sento che tutto ciò che è denuncia non può fermarsi ad un livello formale. Qualsiasi lavoro che intende confrontarsi con un tema politico-sociale non può sicuramente farlo senza che la sua distribuzione, fruizione ed anche il modo in cui viene finanziato vengano messi in discussione. Forse non sarebbe tanto compito degli artisti ma di tutti i cittadini coscienti opporsi in modo attivo a ciò che ritengono un abuso, ma è da tempo ormai che siamo entrati in una fase di spegnimento totale della coscienza e responsabilità collettiva.
Quali sono state le ragioni per cui hai scelto di donare l’archivio proprio all’Istituto Bishopsgate? E quali quelle che ti hanno fatto scegliere la Galleria Supplement per presentare la mostra?
Il Bishopsgate Institute è un organizzazione no-profit che detiene gli archivi più estesi sulla storia radicale dell’East End di Londra (zona storicamente legata alla sinistra radicale), dai documenti del CND (Campaign for Nuclear Disarmament), alla London Co-operative Society, passando per una sezione dedicata alla Freedom Press, storica casa editrice anarchica in attività dal 1910-1989. Quale miglior casa? Per quanto riguarda Supplement invece si e’ trattata di una scelta dettata da diverse qualità che caratterizzano la galleria: la sua struttura no-profit; la dinamicità’ dello spazio, il programma variegato che ha dato risalto alla natura transdisciplinare del progetto, e la direzione; due persone che si dedicano senza riserve al loro lavoro e credono nel potenziale trasformativo della cultura.
Per concludere, puoi anticiparci qualche nuovo progetto e dove potremo vederlo?
Quest’anno sarò ospite dell’Independent Study Program del Whitney, a New York, da dove ti scrivo, e a Dicembre sarà in mostra un progetto dell’educazione anarchica cominciato nel 2011 e sviluppato ulteriormente per gli spazi di Gasworks, a Londra.
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