INTERVISTA A STEFANO RIBA
di Valentina Lucia Barbagallo
Chi è Stefano Riba? Parlaci di te della tua formazione e delle tue esperienze lavorative.
“Sono nato a Cuneo, cresciuto sulle colline del cuneese e laureato a Torino in un corso di studi che in nulla è servito per il lavoro che svolgo. Tutto ciò che faccio l’ho imparato in anni di pratica e praticantato. È stato proprio uno stage a indirizzarmi verso l’arte contemporanea di cui non sapevo letteralmente nulla. Ho lavorato per una cooperativa che realizzava allestimenti museali, in seguito ho fatto un tirocinio all’estero, poi sono tornato e ho iniziato a lavorare per una fondazione privata e in una galleria. Infine, quello che avevo da imparare l’avevo già imparato e così mi sono messo a lavorare per me stesso.”
Dal nomadismo al sedentarietà: Fart e Van Der, progetti che porti avanti dal 2012. Var Der è anche la sede espositiva del progetto di grafica d’arte e microedizioni Print About Me. Ti va di raccontarci la storia e l’evoluzione di tutti questi progetti cui lavori attivamente da anni?
“Il 2011 è stato l’anno in cui ho compiuto trent’anni, avevo già fatto tanta gavetta, nonostante mi continuassero a ripetere che ero giovane e che dovevo fare esperienza… Non si rimane giovani in eterno, anzi, Ingebor Bachmann diceva che dopo i trenta non ci si dovrebbe più effigiare dell’appellativo giovane. Così ho pensato che ero grande abbastanza per fare qualcosa di mio. L’anno successivo ho partecipato a un bando; se l’avessi vinto avrebbe finanziato la start up Fart. Non pensavo di avere nemmeno una possibilità, ma forse la commissione non conosceva l’inglese oppure il mio testo di presentazione è stato particolarmente efficace perché alla fine hanno scelto il mio progetto. Ho iniziato con una serie di mostre molto ingenue, dico ingenue in senso buono. Erano mostre itineranti in cui c’erano decine di lavori piccoli, spesso in tiratura, venduti a prezzi ridicoli per il mercato dell’arte classico. Ogni volta trovavo un posto nuovo e m’inventavo dei modi per non pagare l’affitto: tinteggiavo le pareti, facevo piccoli lavori di muratura e di riqualificazione, cose così insomma. Ma era sempre più faticoso, c’era tantissimo lavoro da fare per delle mostre che magari duravano solo due settimane, così nell’autunno del 2012 ho deciso di avere uno spazio fisso che mi permettesse di ampliare le possibilità espositive lavorando più “tranquillamente”. Fart è diventata Van Der e ritrovandomi con uno spazio fisso a disposizione è stato naturale realizzare qui anche le mostre di Print About Me e organizzare reading, concerti, aste benefiche, presentazioni e proiezioni che rendessero lo spazio vivo e vitale.”
Che cosa vuol dire, secondo te, oggi promuovere l’arte contemporanea in Italia?
“Vuol dire avere a che fare con una burocrazia demoralizzante, persone arroganti, artisti lamentosi, curatori noiosi, addetti ai lavori poco curiosi e un clientelismo medievale. Se riesci a sopportare tutto questo, allora conoscerai persone meravigliose, artisti fantastici, curatori brillanti, mecenati generosi. La burocrazia rimane demoralizzante e basta. Bisogna farsi gli anticorpi e avere qualche soldo da spendere sapendo che molto probabilmente una buona parte non lo rivedrai più. Io per riuscire a pagare l’affitto e produrre le mostre di Van Der devo fare l’allestitore al Museion, seguire gli allestimenti per altre gallerie, partecipare a bandi per curatori, fare il ghost writer e altri lavoretti che mi capitano per le mani. In realtà, oltre a tirare su soldi, lavorare in altre città è un modo utile per conoscere persone e stabilire nuovi contatti. A meno di non essere nati ricchi, questa è una situazione comune a migliaia di giovani artisti e curatori. È per questo che durante il periodo bulimico di Artissima, dove tutti cercano di essere cool e fare le cose più fighe, ho deciso di ospitare da Van Der la presentazione di The Real Job, una ricerca/riflessione di Lia Cecchin e Daniela Isamit Morales sui lavori che gli artisti e i curatori fanno per sostenere economicamente sé stessi e la propria pratica artistica o curatoriale.”
Un incontro che ha segnato, positivamente o negativamente, il tuo modo di lavorare?
“Quello con Franz Paludetto, uno storico ex gallerista torinese, è stato un incontro che, fino a qualche anno fa, avrei detto negativo e che ora ricordo positivamente, pur nel suo cinismo. Era l’inizio del 2012 e gli dissi che avevo l’idea di aprire uno spazio espositivo fisso. L’unica cosa lui che mi disse fu: “Quanti soldi hai? Quanti soldi sei disposto a buttare?”. Erano domande brutali e lì per lì mi arrabbiai. Ero un idealista, pensavo che i soldi non fossero tutto, che la bellezza vincesse su qualsiasi cosa. Invece, mi sono dovuto ricredere, la bellezza vince ancora su tutto (o quasi), ma devi avere qualche risparmio da parte e comunque lavorare moltissimo. Per portare avanti anche solo uno spazio piccolo come Van Der ci vogliono soldi: denaro che solo in parte arriva dalle vendite. Da qui si ritorna al discorso accennato nella risposta precedente. Poi ci sono stati tanti altri incontri, quelli che ricordo meglio sono quelli negativi. Alla fine sono quelli che t’insegnano di più. Al contrario, due degli incontri più positivi degli ultimi tempi sono sicuramente quello con Michela Rizzo e con i ragazzi di Ritmo. Michela l’ho conosciuta a luglio nella sua galleria veneziana a seguito di una mail che le avevo mandato in precedenza (aveva risposto in due ore, quando normalmente artisti, galleristi e curatori ci mettono settimane, se mai ti rispondono). Dopo questo incontro, seppure mi conoscesse ancora molto poco, mi ha affidato la realizzazione di due grandi lavori di Hamish Fulton per la mostra a Palazzo Platamone a Catania (che tra l’altro sono visibili ancora fino al 10 dicembre).
Questa fiducia è molto bella e credo sia stata ripagata visto che i lavori per la mostra catanese sono venuti alla perfezione! Rimanendo sempre in Sicilia, anche l’incontro con Ritmo è stato molto bello. Ci siamo conosciuti a Torino tre anni fa e ci siamo subito trovati bene, così abbiamo realizzato insieme una mostra nel luglio 2013 e una nel giugno di quest’anno con Federico Lupo. Ora stiamo progettando altre cose. Tornando al lavoro di Fulton realizzato per Michela Rizzo posso dire che senza l’aiuto di Marco, Andrea, Livio, Vittoria e Alberto ci avrei messo due settimane per finirlo!”
Progetti futuri e un consiglio per chi volesse intraprendere un percorso professionale simile al tuo?
“A breve mi metterò al lavoro per l’edizione 2016 di Passi Erratici, la mostra che curo al Museo Nazionale della Montagna di Torino all’interno del festival culturale Torino e le Alpi. A gennaio sarò a Bolzano per allestire le nuove mostre del Museion e collaborare con un bel progetto di residenza che si chiama Eau&Gaz. I consigli finali sono: fare esperienza, essere curiosi e tenaci, muoversi molto, lavorare tanto, collaborare, essere aperti e non lamentarsi.”
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(Copertina) Passi Erratici 2014 – Trekking.
(1) Laura Pugno Jonathan Vivacqua – Passi Erratici – Fondazione Revelli Paraloup – Luglio 2015.
(2) Simone Pizzinga – Visioni simmetriche – Fart – Maggio 2012.
(3) Hamish Fulton – Sicily Wall Variation e Migrant Volcano – Palazzo Platamone – Catania.
(4) Fabrizio Prevedello – Passi Erratici – Museo Montagna Torino – Luglio 2015.
(5) Anush Hamzehian Vittorio Mortarotti – Eden – Art Verona – Ottobre 2015.
(6) The Real Job – Van Der – novembre 2015.