Landscape/mindscape
Intervista ad Ignazio Mortellaro
di Salvatore Davì
Il rapporto che lega l’uomo al paesaggio è alla base della ricerca di Ignazio Mortellaro; non è, però, una visione che interpreta il paesaggio come invenzione culturale, si tratta, bensì, di considerare natura e cultura come due aspetti del continuum della realtà. L’artista risolve il problema della loro precedenza logico-cronologica e propone il paesaggio come metodo, come processo per superare l’antitesi natura-cultura. Il paesaggio sembra non essere più il luogo dove riversare sentimenti, non ha più la caratteristica del mero contenitore estetico, da landscape sembra diventare mindscape.
Mortellaro lavora dunque sulle attitudini del pensiero puntando l’attenzione sulla Landscape Mind Theory che restituisce elasticità alla costruzione delle immagini. Il prodotto artistico non è più un fatto culturale, non è più rappresentazione ma diventa scarto del pensiero, fenomenologia dell’incompiuto, del frammento, superamento della falsa opposizione che separa mente e natura.
Lo studio dell’artista si presenta come percorso narrativo, gli input progettuali diventano il modello processuale di questa intervista, la struttura dialogica si frammenta e la gerarchia tra parola e immagine, tra domanda e risposta, trova una sintesi nell’instabilità del suo stesso confine.
SD:Chi è Ignazio Mortellaro? Raccontaci brevemente di te. Quale immagine ti rappresenta
IM:Un uomo inquieto. Sento l’epidermide ma anche il peso di ciò che quest’ultima delimita e contiene. Vedo la superficie da fuori e simultaneamente la sento da dentro, e la sintesi del confine tra ciò che è dentro e ciò che è fuori, frontiera indefinita e solida, trova una logica solo nell’indeterminatezza quantistica. Il momento che ci avvicina alla nostra pelle è lo stesso che ci allontana quando pensiamo di stare per toccarla. Noi siamo gli occhi della Natura e la Natura ha i nostri occhi.
SD: Come definiresti il tuo lavoro?
IM: Incerto. Figlio di una lenta ricerca, di un’indagine lucida e rarefatta sull’oscuro universo del pensiero e della natura. Un allenamento quotidiano per imparare a respirare con la mente l’aria che ci circonda.
SD: Disegno, video, installazioni e mixed media sono le tecniche utilizzate nella tua ricerca. Il tuo lavoro pone l’accento sul processo di strutturazione dell’immagine. Quanto conta, dunque, il prodotto finale?
IM: Se dovessi immaginare un’altra forma di impaginazione per la mia storia che non fosse attraverso opere la penserei come un’autobiografia senza fatti. Non esiste una mia opera che si possa considerare prodotto finale in quanto ognuna racchiude in se già il germe della successiva ed è frutto del rimescolamento di quelle che l’hanno preceduta. Frammentaria nella sua genesi e incompiuta nel suo sviluppo.
IM: Il luogo dove il mio pensiero si polverizza, diviene informe, tende ad una forma precaria. Si consuma la mia stessa fisicità, disintegrandosi in una costellazione di scarti. Una natura che sicuramente mi sopravviverà.
IM: Strumenti per il fallimento. Misura dell’esterno, misura dell’interno, tentativo di sintesi. Mi affascina la capacità dell’uomo di toccare l’universo con piccoli gesti.
IM: Le alpi dove non sono mai stato, lo spazio siderale dove forse non andrò mai. Nel paesaggio trovo la libertà della matematica, la leggerezza del pensiero logico. Il paesaggio è manipolabile e mi permette di addizionare, sottrarre, dividere, moltiplicare, derivare, integrare. Il paesaggio mi allontana dal centro del problema, è il mio esercizio di distrazione necessaria.
SD: La tua formazione è eterogenea, architetto ingegnere e graphic designer di numerose etichette di musica elettronica sperimentale tedesche ed inglesi, hai vissuto e lavorato a Roma e Berlino e adesso sei tornato a vivere a Palermo. Quali differenze hai notato tra il sistema dell’arte siciliano e quello nazionale ed internazionale?
IM:Se permetti aggiungo tra le mie città Porto, dove mi sono in parte formato e dove ho avuto modo di confrontarmi con una delle migliori e più radicali scuole di architettura; lì mi è stato insegnato ad osservare e misurare, ed il disegno è diventato il mio strumento privilegiato di sintesi del ragionamento. Il sistema dell’arte in questo momento mi interessa poco, mi interessano di più gli artisti che incontro ed il loro pensiero. Mi piace leggere le biografie dei grandi galleristi o artisti del recente passato perché attraverso la storia di questi uomini e le scelte che hanno compiuto comprendo il sistema dell’arte ed i meccanismi con cui esso si articola, noi artisti siamo artefici del sistema, non il contrario. A Palermo si vive bene, è una città magnifica nelle sue pietre, complessa e stratificata nella sua storia, e si sente nell’aria una strana tensione che agita il pensiero. Ho scommesso su Palermo e la Sicilia ma da buon isolano scruto continuamente l’orizzonte del mare.
IM: Prediligo il processo di sottrazione e sono ancora legato ad un’idea di città di pietra, compatta. Le città sono isole, più di quanto oggi non si pensi.
SD: Tra i tuoi interessi c’è anche la musica, in particolare l’elettronica. In uno dei nostri incontri hai affermato che oggi la musica elettronica è lo specchio della contemporaneità e una società che la disconosce sarebbe l’equivalente di una società ottocentesca che non conosce la musica classica. Quale ruolo ha la musica nella tua produzione visiva e quale ruolo pensi che abbia la musica elettronica nelle società contemporanee?
IM: La musica elettronica contemporanea ha un contatto intimo con la mia generazione, e col tempo quest’aderenza si andrà sempre più accentuando. Ascoltiamo musica in misura maggiore rispetto al passato, abbiamo tantissimi strumenti per farlo ed il mondo di chi produce musica si è ampliato enormemente. Penso al suono come elemento fisico che permette un dialogo tra l’universo ed il mio corpo. Adoro le basse frequenze della techno ed i suoi ritmi ossessivi perché nascondono qualcosa di atavico, un contatto col suolo e simultaneamente una proiezione nella profondità dello spazio. All’interno di un club è come se il tuo corpo si trasformasse in una cassa di risonanza, un processo di svuotamento e di vibrazione, dove il suono ed il pensiero generati e fatti materia convergono avvolgendo tutto ciò che ci circonda.
IM: Ė un’istallazione che parla del terremoto realizzata nelle ex tipografie GEA ora spazio espositivo Assab one. La memoria, trama di coordinate necessarie al nostro orientamento, si liquefà non avendo più supporti fisici e feticci che la sostengano. Nello spazio prima occupato da pesanti macchine per la stampa un’esile struttura di fili metallici è illuminata con luci al neon. L’inchiostro che prima lottava per il mantenimento della memoria depositandosi sulla carta ora inverte il processo ed inonda il suolo. Resta il suono del paesaggio che non ha più il sostegno dei luoghi.
SD: Chi sono i tuoi punti di riferimento nel mondo dell’arte?
IM: Sono troppi per elencarli qui e diversi i motivi per cui li ho eletti a padri. Finirebbe per essere una lista, ed odio le liste di nomi.
SD: C’è stato un evento o un incontro in particolare che ha segnato una svolta nella tua ricerca?
IM: Parlerei piuttosto di un’accelerazione nella maturazione del processo. Una svolta implicherebbe l’esistenza nella geografia del mio mondo di una serie di punti di arrivo/chiusura, di soluzioni “trovate”. Penso invece di trovarmi in uno spazio continuo dove mille funzioni si sviluppano simultaneamente ed in cui al limite l’unico punto asintotico di arrivo sono io. Una geometria indeterminata dove le leggi che descrivono l’insieme risiedono nella nostra interazione con il sistema che ci è complementare ed in come quest’ultimo ci perturbi. Credo che la lettura di Gregory Bateson e dei suoi testi stia tuttora contribuendo ad una sincretizzazione di parti della mia riflessione precedentemente in conflitto.
SD: Nel 2008 hai fondato Oblivious Artefacts, progetto sperimentale attivo tra Palermo, Roma e Berlino che riunisce artisti, fotografi, architetti e sound designer. Raccontaci di cosa si tratta.
IM: È nato come luogo di contaminazione dove fare convergere le multiformi esperienze che un gruppo di amici stava sviluppando in quel momento. Il tempo ha naturalmente mutato le caratteristiche di Oblivious Artefacts che dopo tanti anni è diventata una vera e propria visual label, continuamente a diretto contatto con etichette di musica underground d’avanguardia nel panorama della musica elettronica contemporanea. Abbiamo curato la veste grafica e realizzato video di innumerevoli progetti, disegnato vinili e cd, manifesti per djset, festival e concerti. Quest’anno siamo stati selezionati, con i video di Marco Morici per la serie limitata di vinili Stellate, per il Berlin Music Video Awards nella categoria Lo-fi e per il graphic concept di questa collezione recensiti su Wire.
SD: Che progetti hai per i prossimi mesi? A cosa stai lavorando?
IM: Trovare più tempo per leggere. Dormire di più. Costruire le condizioni per poter lavorare a Palermo.
(1) Animate/inanimate. concrete, lead. dimensions 8,5x17x3 each. unique, 2012
(2) Studio dell’artista
(3) Calibri e compasso, studio dell’artista
(4) Landscapes. prints, gouache. various dimensions. 2012
(5) Bestiary. print on acetate sheet, glass. 18x24cm. edition of 5+1PA. 2011
(6) Islands. wood, laser print on acetate sheet, glass. 21 x 29,7 cm. serie of 5, 2012
(7)Terrae motus. installation, wires of gold, silver, nylon, lead, neon lights, headphones, audio mixer, microphones piezometric, pc, printing ink tank, nautical maps. 2012