Intervista a Federico Lupo
di Salvatore Davì
Il lavoro di Federico Lupo, nel dispiegarsi all’interno del sistema dell’arte, esprime un punto di vista indipendente che ha le pieghe di un racconto polifonico nel quale interagiscono differenti metodologie autonome ma correlate. Lupo orchestra un dialogo personale che sfugge dal monologo della professionalità recintata; il suo modus operandi abbraccia diversi processi che lo collocano sul crinale che unisce la figura dell’artista con quella del gallerista, del collezionista e del curatore. Questo dispositivo crea una narrazione eterogenea che prende forma in un luogo, Zelle, uno spazio espositivo nel cuore di Palermo, dove la visione intimistica del progetto di Lupo non si chiude in una sintassi monolitica ma apre al confronto, allo scambio e alla complicità tra artisti.
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Chi è Federico Lupo? Raccontaci brevemente di te
Un impreciso.
Come definiresti il tuo lavoro?
Il mio compito è collezionare tracce. Conservare, archiviare frammenti sottratti a storie di cui non conoscerò mai l’inizio o la fine. Mi avvicino molto al lavoro di un biografo, servendomi però di un solo tassello per ogni storia narrata.
Che si tratti di tracce audio rubate da una vecchia segreteria telefonica, o di una vhs di un videocorso per fotomodelli, il processo di scomposizione della narrazione avviene in maniera algida pur restituendo un immaginario che, appropriandosi delle dinamiche del ricordo, genera empatia.
Zelle rispecchia il tuo modo di concepire le relazioni artistiche; da quale presupposto nasce? E quali pieghe ha preso lungo il corso degli anni?
Inizio dalle pieghe. Zelle ha lentamente abbracciato il dissenso, e perché no l’odio, verso quell’insieme di sistemi che determinano le regole chiave dell’arte contemporanea, così come la intendono gran parte delle riviste di settore e degli addetti ai lavori.
Zelle è nata con quel briciolo d’ingenuità che mi ostino a non abbandonare, nonostante mi siano serviti pochi anni per capire quanto il cosiddetto ‘contemporaneo’ soffra di regole ferree quanto incapaci di stabilire un rapporto con il pubblico.
Rispetto il bottegaio di quartiere in grado di soddisfare e fidelizzare i clienti, più del giovane ‘autarchico del contemporaneo’ trincerato nella sua bianchissima project room.
Nel 2011 in un’intervista concessa a Vincenzo Profeta hai dichiarato che vedi Zelle come un dono alla città di Palermo. Rispetto alle altre realtà palermitane quale posizione pensi che occupi il tuo spazio espositivo?
Come tutti i doni rischia di essere sgradito, ed essere riciclato al prossimo Natale. I regali si calibrano spesso sui propri desideri, capita quindi che nessuno in fondo si prenda la briga di riceverli. Il tentativo di Zelle è di creare un dialogo con il tessuto sociale in cui opera, che non è Kassel, ma Palermo. Questo significa misurare i passi, rendere le informazioni leggibili e non agire da intoccabili miracolati.
Credo che Zelle occupi una zona liminare, un confine.
Come definiresti il panorama artistico siciliano? Esiste una rete o un sistema dell’arte dove lo scambio tra individui ed operatori possa definirsi maturo?
Di certo esistono persone che operano alacremente in funzione della cultura ed altre che operano in funzione dell’ego. In nessuno dei due casi ci si è dimostrati capaci di generare un sistema.
‘Fare sistema’ è da sempre uno degli argomenti centrali del dibattito culturale siciliano, ma ad oggi ritengo non sia un elemento necessario allo sviluppo. Credo nessun sistema, per sua stessa natura, possa assecondare lo sviluppo culturale di un paese.
La cultura non si misura sulla capacità di attuare prassi ormai rodate, bensì sulla capacità di mettere in crisi il sistema apportando nuovi contenuti.
Credo fortemente nelle dinamiche relazionali, finché queste siano basate su un rapporto umano ancor prima che professionale.
Chi sono i tuoi punti di riferimento nel mondo dell’arte?
Chris Marker.
C’è stato un evento o un incontro in particolare che ha segnato una svolta nella tua ricerca?
L’incontro più importante, se così posso definirlo, è sicuramente quello con la mia famiglia. L’attività di mio padre, il negozio di antiquariato e modernariato in cui sono cresciuto, ha indubbiamente influenzato il mio feticismo per impercettibili porzioni di storia.
Da artista quali immagini del tuo lavoro, che in qualche modo rappresentano dei punti di snodo fondamentali, ci proporresti?
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Da gallerista invece quali opere ci proporresti? Tre immagini alle quali sei particolarmente legato
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Che progetti hai per i prossimi mesi? A cosa stai lavorando?
La personale di Enrico Piras, artista selezionato dalla galleria in occasione del Premio Ora, tocca delle corde a me affini, credo sia uno degli appuntamenti più interessanti della prossima stagione.
Tra i progetti dei prossimi mesi: non prendere parte ad alcun premio, né in concorso né in giuria.
(1) Francesco Costantino, Senza titolo, Marker su carta, 2012
(2) Federico Lupo, Biography through objects, Video – loop, 2005
(3) Federico Lupo, Before the last snow, 120”, videoinstallazione, 2009
(4) Federico Lupo, 0’15’, Video – found footage, 2011
(5) À partir de l’eau, Giuseppe Adamo, Sergio Amato, Francesco Balsamo, Marco Cassarà, Daniele Franzella, Federico Lupo, Vito Stassi, Fabio Sgroi, Francesco Surdi, Daniele Villa, Sergio Zavattieri, ottobre 2011
(6) Sweet Sheets (Moves to Modica), luglio 2010
(7) Robert Morgan, The separation, gennaio 2007