Art

Intervista a Daniele Villa

 

Chi è Daniele Villa? Raccontaci brevemente di te…

Il mio percorso è stato ed è decisamente atipico. Ho un background cinematografico. Ancora all’università formai un gruppo di critici/autori combattivi, alla Cahiers du Cinéma, con cui ho iniziato a lavorare a libri-intervista che erano il risultato dell’incontro con i registi che più amavamo, Otar Ioseliani, Takeshi Kitano, e in seguito Terrence Malick. Questi incontri mi hanno dato molto nei termini di una prospettiva etica dell’arte e della vita, quando ero molto giovane. Poi c’è stata la creazione e la produzione di film con la casa di produzione indipendente Citrullo International, in cui il documentario diventava il punto di partenza per un viaggio in un immaginario ogni volta differente.
Il cinema nel suo costruire modelli visibili di mondi, di vite, di relazioni implica in sé una grande responsabilità da parte di chi crea; come l’architettura, può influire sulla vita di una intera comunità di persone, per molto tempo. Forse c’è una differenza con l’arte che può essere a volte anche silente, privata, meno ideologica, effimera in alcune sue manifestazioni, più innocua – anche se intimamente non credo sia così. Per me l’onestà dell’artista, il suo effettuare una ricerca su di sé, nel profondo, il suo donarsi agli altri nello scavare in sé, rimane il valore più alto. La tecnica di faccio uso, il collage, è più un approccio e per come l’affronto ha in sé quella concezione del montaggio, dell’associazione, a volte della narratività che è molto vicina al cinema, specialmente quello delle origini. In questo sento confluire sempre di più nel mio lavoro le direttive delle mie passioni iniziali.

 

Che musica ascolti?

Sempre la stessa, quasi in loop. Si tratti di blues, di jazz, di folk, di rock, di dance anni 70’, non importa. Per me la musica che conosco è come una tana accogliente per i miei pensieri, plasmata dai miei ricordi come un giaciglio che ha la forma del corpo di chi ci dorme da anni. Questo non piace molto alla mia compagna, che giustamente mi accusa di essere monomaniacale e ripetitivo. Non posso darle torto…

 

Qual è l’ultimo libro che hai letto?

Festa Mobile di Hemingway, un libro struggente. Hemingway racconta con grande distacco e ironia la sua vita da bohème a Parigi negli anni ’20, descrivendo gli intellettuali, gli artisti che frequentava, il suo modo di lavorare di allora, le aspettative e la quotidianità. Nelle ultime pagine cambia completamente tono e si abbandona al rimpianto per aver tradito quella semplicità, sua moglie e suo figlio, i suoi ideali. Come il suicidio di Martin Eden nel libro di Jack London, questo finale getta un velo di violenta inutilità sull’esistenza e sulla lotta quotidiana per la vita. Pochi mesi dopo aver finito questo libro Hemingway si ucciderà. La Loss of Innocence ritratta in questi due libri sembra inevitabile. Io non l’ho ancora sperimentata, l’attendo con terrore.

 

Chi sono gli artisti che ami?

Kurt Schwitters e Joseph Cornell sono due grandi punti di riferimento, ma non solo nella tecnica: sono gli artisti che più mi hanno avvicinato verso un approccio passionale, indiscriminato, puro, poetico. Quando Schwitters era in Norvegia, e poi nel Regno Unito provò con qualunque materiale disponibile a creare nuovi Merzbau, persino con il fango. Al centro c’era il desiderio insopprimibile di ricostruire il proprio universo di riferimento interiore. E così faceva Cornell nella casa della sua famiglia, vicino a New York. Quest’esigenza esistenziale di esprimersi mi tocca sempre e mi indica una strada che spero di riuscire a percorrere con coerenza e coraggio. Poi c’è Tinguely, un altro colosso che avrei tanto voluto conoscere di persona per la sua vigoria anarchica e travolgente. Ma l’artista che più tocca le mie corde più profonde e che credo di aver completamente assorbito a livello inconscio è Caspar Friedrich. Spesso mi ritrovo a creare immagini che mi rendo conto solo in seguito essere vicinissime al suo universo, soprattutto nella composizione, e alla sua poetica romantica.

 

Come definisci il tuo lavoro?

Max Ernst diceva: Si ce sont les plumes qui font le plumage, ce n’est pas la colle qui fait le collage.
Questo diktat mi accompagna nella mia ricerca, nel preservare la forza del potere associativo degli accostamenti, e nel cercare di non correre il rischio di comporre ‘belle immagini’. Quando nel realizzare un collage mi abbandono profondamente all’inconscio, allora mi sembra che il mio lavoro possa avere un senso, abbia la dignità di essere condiviso. Mi sembra un sogno che sono riuscito a ricordare una volta sveglio, e, come ogni attività onirica, mi possa guidare lentamente alla comprensione del momento che sto vivendo. Ma la digestione di un’immagine prodotta è spesso lenta e può essere incompleta. Forse questa porzione di mistero è indispensabile.

 

C’è stato un evento o un incontro in particolare che ha segnato una svolta nella tua ricerca?

Tanti anni fa, nel mio percorso erratico, ho vissuto qualche mese a Parigi per seguire una scuola di teatro legata alla compagnia di Peter Brook. Al Centre Pompidou c’era la prima retrospettiva completa di Kurt Schwitters. Ci tenevo tantissimo ad andare, ma – secondo uno schema in cui spesso cado – rimandai e rimandai finché la persi. Ma come accade talvolta, questo creò un’ossessione nei confronti di Schwitters che mi portò a immaginare questa mostra, e i lavori esposti come qualcosa di unico e irraggiungibile a livello poetico. Iniziai a realizzare collage vicini a quelli di Schwitters, minuscoli e fatti di mille frammenti, mi sentivo appagato nell’operare in quella suggestione per compensare il mio errore. Ho iniziato così ad avvicinarmi al collage. E’ stata, in modo un po’ primitivo, la prova che il meccanismo del desiderio, innescato da un vuoto, da una mancanza, da un rimpianto può essere utile in alcuni momenti ad accendere le proprie passioni.

 

Come definiresti il panorama artistico siciliano?

Un incontro per me importante è stato sicuramente quello con Federico Lupo e la galleria Zelle di Palermo. Da perfetto outsider sono stato accolto qualche anno fa con un grande calore e un’ospitalità unica da Federico e dal gruppo di artisti con cui collabora e condivide quest’esperienza di resistenza e produzione culturale unica nel suo genere che è Zelle: Vito Stassi, Sergio Zavattieri, Francesco Balsamo, il Laboratorio Saccardi, Daniele Franzella, Giuseppe Adamo e, in seguito, Carmelo Nicotra. Palermo mi si è mostrata nella sua vitalità, ho visto veramente la brace viva (e molte fiammate) sotto le ceneri di una situazione sicuramente difficile. Un evento che in seguito mi ha restituito il senso del fare arte è stato Casa Aut, organizzato dal Laboratorio Saccardi a Cinisi, in quella che era stata la casa del boss mafioso Gaetano Badalamenti. Le opere degli artisti hanno letteralmente invaso e occupato uno spazio ancora posseduto dall’orrore quotidiano e privato del capomafia – le pareti stesse sembravano trasudare sangue – e hanno così ingaggiato una lotta contro questa presenza oscura e purtroppo ancora oggi molto concreta. Mi vengono i brividi a ricordare quella sensazione, a quanto il conflitto fosse palpabile.
Riguardo alla scena siciliana, conosco quindi più Palermo che Catania e le altre realtà siciliane, ma in generale mi sembra che in Sicilia ci sia molto dialogo tra gli artisti, molta vitalità e una sete di cambiamento forte, profonda e insopprimibile. Ed esperienze passionali come Zelle e Tribe Art, in modo differente, mi sembrano esempi importanti all’interno di questo contesto.

 

Che progetti hai per i prossimi mesi? A cosa stai lavorando?

In questo momento sto lavorando per una mostra che si terrà a Londra alla galleria Galerie 8. Il lavoro che presenterò sarà una vera e propria installazione in cui i singoli collage dialogheranno tra di loro ad un livello superiore. La stessa cosa avverrà per le opere che presenterò alla Biennale di Santorini, in Grecia, a agosto. La conquista di una riflessione più ampia e l’appropriazione inequivocabile dello spazio da parte dell’opera le sento come un passo importante nel mio lavoro; sarà questo a impegnarmi nei prossimi mesi. Mi porta verso il senso più profondo della mia ricerca, che nel mio caso, più che scaturire da una impermeabile progettualità iniziale, è in primo luogo – non potrebbe essere altrimenti – un lavoro di progressiva sedimentazione e di graduale scoperta.
Faccio mio il detto di Karl Kraus, con cui mi piace concludere: Pazienza, voi ricercatori! Il mistero sarà illuminato dalla sua propria luce.