Intervista a Benedetta Casagrande
Si è inaugurato lo scorso 18 Aprile 2015 a Catania il Centro Culturale Polivalente, negli spazi del Palazzo della Cultura di Via Vittorio Emanuele. Lo spazio è nato grazie al progetto i-Art che ha portato in Sicilia diverse artisti nazionali e internazionali dando loro la possibilità di confrontarsi con il patrimonio storico, antropologico e artistico dell’isola.
A Catania le attività del centro si sono inaugurate con la presentazione al pubblico dei lavori dell’artista Benedetta Casagrande realizzati durante il periodo di residenza in città.
Abbiamo intervistato Benedetta per farci raccontare come è andata ma prima di leggere le parole dell’artista abbiamo fatto due domande anche a Marcella Borzì, Operatrice Culturale a cui fa riferimento il Centro Culturale Catanese.
Un centro Culturale Polivalente a Catania… quale il filo rosso che seguirete nella programmazione culturale dello spazio?
Marcella Borzì: Il Centro Culturale di Catania nasce nell’ambito del progetto i-ART insieme ad altri 22 centri, accolti in luoghi già deputati alla cultura o rifunzionalizzati per l’occasione, che costituiscono una rete che si snoda per tutto il territorio siciliano con l’obiettivo di offrire servizi a sostegno della produzione e fruizione dell’arte contemporanea in Sicilia. Sono dunque previste alcune attività comuni, in particolare la proiezione di una rassegna cinematografica e di alcuni documentari realizzati sempre nell’ambito del progetto. Accanto alla programmazione già prevista, ogni centro culturale mette poi a disposizione i propri spazi per mostre temporanee e più in generale per ospitare eventi culturali che non trovano spazio nei circuiti tradizionali.
Nella sua programmazione, il Centro Culturale di Catania intende sostenere la produzione di eventi artistici che estendano la rete anche all’esterno dei confini regionali e nazionali, con l’intento di promuovere scambi di artisti e opere che offrano maggiori opportunità agli artisti locali di essere conosciuti e visibili in contesti nazionali ed internazionali. Dopo aver inaugurato il CCP di Catania il 18 aprile con la mostra dedicata all’opera realizzata da Benedetta Casagrande nel corso della sua residenza d’artista a Catania, il prossimo evento ci vede infatti partner dell’Associazione Areacreativa 42 di Rivarolo Canavese (Torino). Il 20 maggio alle ore 18,00 accoglieremo l’ultima tappa del progetto di residenza d’artista di Clémentine Carsberg, con la presentazione della mostra fotografica della catanese Carmen Cardillo che “documenta” la residenza della Carsberg e la presentazione del catalogo dedicato (fino al 26 maggio, orari mostra dal lunedì al sabato 10.00 – 13.00/16.00 – 19.00; domenica 10.00 – 13.00).
Sono in via di definizione altri progetti che ci vedono coinvolti anche nella fase di produzione artistica e per i quali stiamo chiudendo un accordo con i curatori dello spazio espositivo indipendente Bocs di Catania. Di tutto questo, del programma, delle iniziative, degli orari di apertura al pubblico si darà comunque costante comunicazione mediante la pagina Facebook.
Approfitto del vostro magazine per comunicare che gli artisti interessati a presentare un lavoro presso il CCP di Catania possono far pervenire le loro proposte scrivendo alla casella mail ccp.catania@i-art.it. Mettiamo anche loro a disposizione attrezzature utili alla produzione delle opere o all’allestimento dei locali.
Il Centro è a disposizione non solo come spazio espositivo ma anche come luogo per presentazione di libri, convegni, laboratori, reading e piccole performance musicali.
Invito anche gli artisti e tutti coloro che gravitano attorno al mondo dell’arte di iscriversi al portale di IART (alla pagina seguente), piazza in cui idee, progetti e organizzazioni possono incontrarsi e dar luogo a nuove intraprese.
Infine, tra le funzioni previste del Centro, anche quella di promuovere itinerari culturali legati all’arte contemporanea nell’isola. Presto saranno disponibili delle brochure sugli itinerari che, passando per i Centri Culturali Polivalenti, si aprono al territorio siciliano.
Ci racconti come è andata la residenza di Benedetta Casagrande nell’ambito del progetto i-Art?
Marcella Borzì: È stato un periodo esaltante. Benedetta non è solo una fotografa di talento, ma è anche una donna con una carica di energia che non risparmia nessuno, in senso positivo naturalmente! Nel prendere via via forma l’idea del lavoro che l’ha vista realizzare la sua personale Pietà contemporanea (in dono al Comune di Catania e in mostra al Centro Culturale), è riuscita a coinvolgere con entusiasmo tutti, artigiani, amici, artisti, cuochi e semplici cittadini. E poi una gran voglia di non prendersi troppo sul serio, con aspetti performativi legati al suo percorso di ricerca artistica – la tartare di tonno offerta all’inaugurazione della mostra e il pranzo ultima cena offerto qualche giorno dopo in una pubblica piazza – che più che essere delle provocazioni sono stati momenti di festa e partecipazione tra persone che celebrano il rito dello stare insieme godendo di piaceri molto terreni e umani e nient’altro.
Col Centro l’ho supportata logisticamente in tutto ciò che le occorreva, mettendole anche a disposizione il locale come studio d’artista; esperimento interessante da ripetere anche per la curiosità che suscita avere un artista “in vetrina”, dietro le porte a vetri del Centro Culturale. Come avviene in ogni progetto abbiamo affrontato gli eventuali ostacoli con lo spirito del “c’è sempre una soluzione” e poi Benedetta è una persona davvero aperta anche a confrontarsi su proposte che sconfinano nel suo campo d’azione e questo approccio umile lo trovo ammirevole. Cosa dire? Credo che con Benedetta non finirà qui!
A seguire le parole di Benedetta Casagrande in risposta alle nostre domande:
Partiamo dalla fine, ovvero, dal tuo ultimo progetto espositivo “Ichthys” inaugurato lo scorso 18 Aprile 2015 presso il Centro Culturale Polivalente di Catania.
La mostra presenta i risultati della tua ricerca nell’ambito della tua residenza a Catania per il progetto i-Art.
Cosa ha rappresentato per te lavorare in Sicilia?
Benedetta Casagrande: Partiamo dalla premessa che vivo in Inghilterra da quando avevo sedici anni. Lavorare in Sicilia è stata per me una boccata d’aria fresca e una maniera per ricongiungermi, dopo tanti anni, con la mia terra. Pur non essendo siciliana, la ricchezza (in termini di umanità) sicula rispecchia tutto quello che mi manca del nostro paese: il vivere nelle piazze, il calore dell’aiutarsi a vicenda, la voglia di condivisione e di mettersi in gioco. Sono molto cosciente dell’esistenza di realtà contrastanti e dei tanti problemi locali, ma negli anni inizio a chiedermi se valga la pena rinunciare al calore umano per vivere in un luogo dove si è più facilitati sotto il punto di vista burocratico e lavorativo.
Ci racconti come è andata?
Benedetta Casagrande: Il commento finale della mia esperienza è: è andata magnificamente! Ho avuto la fortuna di essere assistita da Marcella Borzì, donna piena di risorse, entusiasmo e professionalità, con la quale sento di aver fatto miracoli. Nonostante la miriade di ostacoli che hanno intralciato il nostro percorso, l’amore per il lavoro e la voglia di investire ci hanno aiutate a creare un clima meraviglioso e a concludere l’esperienza nel miglior modo possibile.
Il Palazzo della Cultura ha messo in dotazione una stanza con una porta-finestra sulla strada, che inizialmente è stato il mio studio (avreste dovuto vedere tutti i volti curiosi che si soffermavano ad osservare che diavolo stesse accadendo!) e che è poi stato trasformato in spazio espositivo, inaugurando con la mia mostra il nuovo Centro Culturale Polivalente di Catania.
La tua ricerca in Sicilia quali tematiche ha preso in esame?
Benedetta Casagrande: Il lavoro creato in Sicilia è stato frutto di delle ricerche iniziate precedentemente durante il mio percorso in Inghilterra. Il mio campo di interesse riguarda principalmente la nostra relazione con sessualità e morte. La nostra relazione così struggente, censurata e dilaniata nei confronti della sessualità mi ha sempre affascinata e incuriosita. L’umanità ha un rapporto complesso con il corpo umano; siamo gli unici esseri a provare vergogna per la natura organica del corpo, vergogna che viene evidenziata dai tabù riguardanti i fluidi, i peli, il sangue, e dalla nausea provocata da tali visioni. Nel creare lavoro, la mia intenzione è di ricercare quella linea che ha separato l’uomo dalla natura, dando vita al fenomeno dei divieti e delle trasgressioni. Infatti, è nella tradizione del culto religioso, con le sue violenze e le sue contraddizioni, che ho iniziato a trovare una linearità con le nostre attitudini riguardo alla sessualità. Basandomi su questi presupposti ho iniziato a dare forma al progetto Ichthys (‘pesce’ in greco, derivante da Iesus Christos Theo Yous, Soter: Gesù Cristo, Figlio di Dio, Salvatore). In particolar modo, trovo che questi divieti e trasgressioni culminino nei i rituali sacrificali religiosi. Concentrandomi sul Cattolicesimo, religione nella quale sono cresciuta, ho iniziato a pormi domande sull’approccio cattolico nei confronti di creazione, riproduzione e decomposizione. Allontanatasi dal sacrificio di sangue, la nozione di sacrificio cattolico è oggi legata ad un sacrificio spirituale. Tutta via, il sangue rimane una componente chiave per comprendere il sacrificio religioso – la crocifissione di Gesù è considerata, nel cristianesimo, il ‘sacrificio perfetto’. La pratica dell’eucarestia è una celebrazione simbolica del corpo e del sangue di Cristo. Nonostante il primo comandamento reciti ‘non ammazzare’, vediamo sopravvivere culti e celebrazioni nelle quali viene perpetuata la nozione del sacrificio di sangue (come l’agnello pasquale). La Sicilia è una terra ancora ricca di passioni, di amore sacro e di amor profano, di culti antichi provenienti da un mélange di civiltà arcaiche. Concentrandomi sul sacrificio della Vergine, che vede morire suo figlio, e sui culti che perpetuano il sacrificio di Cristo, ho deciso di riprodurre La Pietà di Michelangelo in chiave contemporanea. La mia Madonna intende essere una Madonna delle Passioni, che abbracci la natura contraddittoria del sacro e del profano, della morte e della vita. Riflettendo sul simbolismo del pesce, simbolo arcaico per il corpo di Cristo, e sulla violenza dell’origine del rito sacrificale, un tonno ha sostituito il corpo di Cristo. I riti locali della mattanza – il mare tinto di sangue rosso – richiamano la violenza dei nostri istinti. Giocando con simbolismi arcaici come il melograno (simbolo di fertilità e di martirio) e le foglie di palma (anch’esse simbolo di martirio) vorrei celebrare le tradizioni visive Siciliane e ricreare quest’opulenza passionale. Grazie alla collaborazione con un falegname locale – Sciré Banchitta – le fotografie sono montate in un trittico che richiama l’iconografia religiosa medievale. Durante l’installazione sarà anche presente un video che richiederà una chiave di lettura istintiva e non lineare, che sperimenterà con le nostre reazioni istintive a determinati stimoli visivi. Il tonno utilizzato per la fotografia è stato poi cucinato a più mani e servito in piazza dei libri come Ultima Cena diurna, durante la quale è stato letto un manifesto con una poesia scritta apposta per noi dal poeta siculo-milanese Paolo Cerruto.
Come definiresti il tuo lavoro?
Benedetta Casagrande: Questa domanda mi mette un po’ in difficoltà! Definire vorrebbe dire limitare. Sono una giovanissima artista, e i miei lavori e le mie ricerche variano incredibilmente – amo sperimentare. Negli anni il mio interesse si sta allontanando sempre di più dalla fotografia intesa come stampa bidimensionale, e mi sto approcciando sempre di più a pratiche più scultoree e installazioni. Essendo però ancora in università, le mie possibilità sono limitate – per il prossimo anno sarò ancora obbligata a creare un lavoro che abbia a che fare in qualche modo con la fotografia, e pur avendo avuto altre proposte lavorative interessanti in Sicilia ho dovuto per ora rifiutare per concentrarmi sul mio ultimo anno. Vi chiedo di essere indulgenti; spero un giorno di diventare un’artista polimorfa che crei installazioni tattili e visive che immergano lo spettatore in una realtà che abbia forme diverse dalla realtà di tutti i giorni. Fino ad allora, mi prendo la libertà di non rispondervi.
C’è stato un evento o un incontro in particolare che ha segnato una svolta nella tua ricerca?
Benedetta Casagrande: Attualmente, ogni anno scopro qualcosa di nuovo riguardo al mio campo di interessi. Sono una persona affamata di esperienza e che impara in fretta; non saprei distinguere un evento particolare che abbia creato una svolta, ma una serie di eventi minuscoli o meno che hanno creato una serie di svolte. Un percorso a zig-zag. In sintesi, è l’osservazione del mondo e soprattutto delle persone e del loro modo di percepire che segna per me ogni giorno una nuova rivelazione.
Attualmente vivi e studi a Brighton… Quanto il contesto in cui vivi o da cui provieni ha influenzato ed influenza la tua ricerca artistica nella scelta delle tematiche e dei supporti che utilizzi?
Benedetta Casagrande: Quando lasciai l’Italia sei anni fa non avevo la più pallida idea che sarei effettivamente potuta diventare “un’artista”. I contesti locali italiani instillano nelle giovani menti un’idea di inaccessibilità a tutto. Ci fanno pensare di dover chiedere il permesso per qualsiasi cosa (a chi poi? A queste entità astratte e lontanissime come i comuni, le associazioni, le grandi aziende?). L’immensa influenza che ha avuto su di me l’Inghilterra è stata farmi realizzare che il mondo è accessibile, che qualsiasi cosa è a portata di mano e che basta allungarsi per prenderla. Oltre che i metodi convenzionali ci sono miriadi di metodi alternativi per creare e promuovere il lavoro, e questa scoperta mi ha dato una spinta immensa. Per la nostra ultima collettiva abbiamo raccolto quasi mille euro vendendo torte fatte in casa, per esempio.
Riguardo alla mia ricerca artistica, indubbiamente mi ha aperto le porte alle politiche di genere e all’arte femminista. A mio parere c’è moltissima ignoranza in Italia quando si tratta di queste tematiche (me ne rendo conto anche grazie ai preconcetti che avevo io prima di addentrarmici), mente in Inghilterra questi dibattiti vengono portati avanti e costruiti e de-costruiti in continuazione. La comprensione popolare italiana delle politiche di genere si è fermata alle femministe degli anni ’70, che fortunatamente non riflettono più quello che significa essere femminista oggi. Ma sto aprendo un dibattito che potrebbe andare avanti all’infinito, quindi per ora passo oltre per finire di rispondere alla vostra domanda.
E’ molto interessante che tu mi chieda dei supporti utilizzati, perché questa è una differenza nel metodo di insegnamento che trovo fondamentale. L’Inghilterra mi ha insegnato a non limitarmi a un campo solo, a non sentire l’urgenza di definirmi attraverso solo un mezzo di comunicazione e ad addentrarmi senza paura nei meandri di altri mezzi a me sconosciuti. Anche lo studio della teoria critica coinvolge una comprensione dell’intertestualità tra i mezzi e propone un approccio critico alla materia e a come mezzi diversi funzionino e cambino in relazione l’uno all’altro. L’esempio più banale é l’utilizzo dell’analogico e del lavoro in camera oscura al posto che il digitale. Pur essendo permesso, l’uso del digitale viene sconsigliato. E se qualcuno presentasse una scultura come lavoro finale per il corso di fotografia, potrebbe passare a pieni voti dimostrando una ricerca sostenuta e argomentando perché questa ricerca fa parte dell’ambito della fotografia. Parte del lavoro dell’artista è essere giocoliere e sapere individuare i vari strati di significato del proprio lavoro, per poi enfatizzare un aspetto del lavoro piuttosto che un altro, dipendendo dai contesti. Quindi, per rispondere alla tua domanda in maniera più pratica; tutta la sperimentazione che ho iniziato in camera oscura nell’ultimo anno (soprattutto riguardante esperimenti con l’emulsione liquida) non sarebbe stata possibile se il sistema universitario Inglese non portasse avanti anno dopo anno conversazioni paleolitiche, che vengono stravolte e rivoltate di anno in anno. C’è sempre qualcosa di nuovo da commentare e nuove connessioni e relazioni da scoprire. Onestamente è stato un dispiacere notare, nella durata della residenza, come le istituzioni universitarie limitino gli studenti piuttosto che prepararli alla realtà lavorativa di un artista, inclusa la gestione del proprio lavoro quando si collabora con gallerie o istituzioni.
Quanto è importante per te il confronto con ciò che ti circonda: società, mass media, altre ricerche artistiche, ecc. Quanto e come ti influenza?
Benedetta Casagrande: Qualsiasi lavoro artistico, per natura, riflette sulla nostra condizione umana. Come ho accennato precedentemente, ciò che mi interessa di più è l’esperienza della percezione; riflettere su normative esistenti e tentare di porre la domanda ‘perché?’. La nostra maniera di percepire questioni di genere, sessualità, razza e quant’altro è dipesa dalle immagini cibate al nostro immaginario fin da una tenera età – citando Uochi Toki, ‘gli occhi di chi guarda educati dagli occhi di chi fotografa’. Mi interessano i conflitti interiori di chi tenta di muoversi ascoltando nel contempo se stesso e le normative sociali, il conflitto di chi fa lo sforzo di chiedersi se per caso non ci sia un’altra alternativa possibile. E’ un lavoro struggente. E trovo che ogni individuo soffra per il divario tra l’istinto e la ragione. Mi interessa il desiderio e la sua soppressione, e la vergogna che solo noi umani sappiamo provare, ogni tanto, nei confronti di quello che desideriamo. Quindi direi che le società che incontro e vivo mi influenzano moltissimo. Leggere teoria non basta se poi non si esce a parlare con le persone. Parte molto emozionante del processo di sviluppo è anche scoprire i lavori di altri artisti! In che modo affrontano le tematiche, come i mezzi e i supporti interagiscono con il concetto… provo un po’ di antipatia per chi dice di “non voler essere influenzato”, la trovo una visione limitata e poco onesta di cosa voglia dire creare arte! Alla fine, la storia dell’arte è una lunga storia di appropriazione. Ogni volta che ci si avvicina a dare qualche risposta, arriva un nuovo movimento a stravolgere tutti i presupposti su cui si erano basati i movimenti precedenti. Onestamente penso che non importi creare qualcosa di completamente nuovo (io personalmente penso sia impossibile), mente importa molto l’esperienza personale provata nel creare e quello che viene comunicato all’audience. Il lavoro finito assume importanza attraverso l’esperienza che ha offerto sia al creatore che al pubblico.
I mass media invece mi interessano molto poco; pur essendoci molti lavori affascinanti che commentano sulla realtà virtuale e l’universo digitale, “internet” e i mass media sono due ventri voraci nei quali non mi interessa addentrarmi. Come dice il nome stesso, è una realtà inesistente, che si estende in verticale piuttosto che in orizzontale, pendendo qualsiasi senso cronologico (o anche solo logico). Quindi pur amando molto i lavori che commentando sull’uso di Internet o dei social network, è un interesse che Barthes descriverebbe di ‘studiuum’, piuttosto che di ‘punctuum’.
Chi sono gli artisti che ami di più e perché?
Benedetta Casagrande: I miei artisti del cuore sono tanti e vari! Tracey Emin e le sue installazioni così organiche, Louise Bourgeois con i suoi ragni-madre, Bill Viola e Pipilotti Rist grazie a gli universi in cui invitano ad immergersi… amo tantissimo anche Peter Greenaway, regista/artista pazzesco e che commenta su temi che mi stanno tanto a cuore come la sessualità, il cibo e la morte. Anche i miei fotografi preferiti riflettono su questi interessi; Sally Mann col progetto Immediate Family, Duane Michals, David LaChapelle con la sua serie Jesus is My Homie. Sarebbero moltissimi i nomi da elencare, e ci tengo anche a nominare un paio di artisti emergenti che studiano con me e che creano lavori magnifici come Madhava Bence Kalmar, che crea stampe in camera oscura su qualsiasi superficie (date un’occhiata al suo lavoro Stones), Maisie Cousins e il suo pop-porno al femminile tutto colorato, scultrice Becky Bicks e le sue installazioni con gelatina e vibratori…
Amo gli artisti che commentano su tali questioni on onestà e positività, senza l’intenzione di scioccare, ma con la voglia di stimolare sentimento ed esperienza. Walter Benjamin parla della perdita dell’aura grazie all’avvento dell’era meccanica; nell’era digitale, i lavori tattili che colpiscono dritto al cuore dell’esperienza sono, a mio parere, fondamentali. Dato che l’arte tende ad essere settoriale, e ad essere compresa solo da chi ha qualche background artistico, penso che l’arte che riesca a comunicare con un audience più ampio (senza però perdere in sofisticatezza) sia essenziale.
Cosa porti con te da questa esperienza siciliana?
Benedetta Casagrande: Il bagaglio più pesante che mi sono portata a casa è indubbiamente il bagaglio umano. Ho incontrato persone e professionisti con cui so già che nasceranno, col tempo, meravigliose collaborazioni. I ventinove altri artisti selezionati per la residenza iArt sono professionisti affamati di esperienza, aperti alla condivisione delle tecniche e dei saperi, e non vediamo l’ora di condividere i vari lavori creati sul suolo locale e, possibilmente, promuovere il nostro lavoro anche all’estero. Non sono state solo le persone coinvolte nel progetto iArt a fare la differenza: artisti locali come Filippo Leonardi, Maurizio Martena, Claudia Gambadoro, i ragazzi di Gammazita, i cuochi di Rocket from the Kitchen, e tutte le anime gentili che mi hanno accolta a braccia aperte nel cuore di questa città incredibile hanno determinato la profondità con cui questa esperienza ha inciso su di me.
Oltre al bagaglio umano ho avuto molto da imparare riguardo alla gestione del lavoro quando si lavora con istituzioni locali, la determinazione di lavorare anche quando sembra mancare l’appoggio, l’andare avanti anche quando si ricevono i ‘no’. Insomma, molto onestamente, questa esperienza mi ha insegnato cosa significhi davvero la parola ‘diplomazia’. E’ molto difficile lavorare in un luogo dove l’approccio al lavoro è così diverso da quello che mi viene insegnato, eppure bisogna trovare compromessi che quietino gli animi di tutti. Anche questo lato è stato parte della bellezza generale – il dover dolcemente accettare i ritmi lavorativi altrui, senza che essi interferiscano i propri.
Sono andata via anche con una grandissima voglia di tornare e smuovere i terreni stagnanti dell’arte nella regione! E’ un’idea ambiziosa, ma per oggi, lasciatemi sognare e desiderare in santa pace.
Grazie per avermi dedicato il vostro tempo e il vostro interesse.
Benedetta
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(1) Untitled, dal progetto Ichthys, cornice in legno 70×112 cm, stampe hahnemuhle
(2) Origin #2, dal progetto Ichthys
(3) Origin #1, dal progetto Ichthys
(4) Fermo dal video Ichthys
(5) Marcella Borzì durante l’inaugurazione del Centro Culturale Polivalente.