Intelligenze dimenticate
Gino Sarfatti il più anticonico dei padri del design italiano.
Non avrei mai voluto introdurre la trattazione su Gino Sarfatti con una sua citazione, se non altro per non fare torto alla sua genetica “fuori mura” costringendola, sbrigativamente, entro i parametri conventional della “sveltina narrativa”. Tuttavia, fosse solo il contrappasso della mia sprezzatura, splasho subito la gamba nella pozzanghera della quote:
“le lampade non devono essere belle. In natura non esistono il bello e il brutto.
È bella la farfalla ed è bello il rospo.
La farfalla è fatta per volare sui fiori. Il rospo per nuotare nello stagno”.
In questo verba manent ideologico è contratta la poetica su cui si articola la prassi di Gino Sarfatti che, parafrasando Nietzsche, si sviluppa tutta “al di là del bello e del brutto”.
Di Gino Sarfatti, fondatore di Arteluce (assorbita da Flos nel 1973), la Storia del design Italiano ha fatto placidamente a meno per almeno un ventennio; l’Italia risulta sempre scettica e omertosa dinanzi alle eccezioni, malgrado spesso ne rappresentino la regola. Gino Sarfatti, del resto, ha rappresentato nell’ambito della cultura del progetto italiano una sorta di outsider, un “non allineato”, tanto low profile e riservato nella condotta esistenziale, quanto prorompente ed esuberante nell’inventiva progettuale e produttiva. Sarfatti ha trasformato, radicalmente, non soltanto il lightening design ma il concetto stesso d’illuminazione. Con un’attività progettuale forsennata che conta in archivio oltre 650 lampade; Sarfatti ha indagato con scrupolo millimetrico e indefessa arditezza sperimentale le infinite possibilità della luce, dando luogo (o luce) a una produzione dal carattere enciclopedico.
Pioneristicamente, introduce Il concetto, tanto inedito quanto suggestivo, che l’illuminazione possa piegarsi, illuminare figure e persone, rappresentare spazi, riempire e connotare superfici, accarezzare e persino aggredire gli ambienti. Dalla statica verticalità dell’illuminazione classica, Gino Sarfatti sviluppa una luce obliqua, piegata, una luce che favorisce e si prodiga.
A Sarfatti, in effetti, la luce era davvero venuta in aiuto.
Veneziano di nascita, primo di tre fratelli, dopo un’infanzia e una prima giovinezza dorata segnata dall’ambiente cosmopolita della città lagunare, Gino Sarfatti si trasferisce a Milano. Abbandonati gli studi di Ingegneria aereonavale per sopperire alla disfatta della fiorente attività commerciale del padre, a 23 anni sarà rappresentante di una vetreria di Murano. Proprio per rispondere alle esigenze di un cliente, concepirà, a partire da una vaso, la sua prima lampada. Inizia la sua collaborazione con Lumen e apre un proprio laboratorio: sulla sua carta da lettere scrive “Gino Sarfatti – Illuminazione razionale”.
Intanto, sperimenta, armeggia, assembla, instancabilmente, elementi eterogenei e disparati trovando per ciascuno combinazioni inedite, risolte in soluzioni formali e funzionali che costituiranno il nuovo testamento per chiunque, dopo di lui, vorrà accostarsi all’Illuminazione.
Dal 1939 al 1973 dirigerà, dopo averla fondata, Arteluce. Punto di riferimento, a Milano, per un nutrito gruppo di architetti (Sergio Asti, i BBPR ovvero Banfi, Belgiojoso, Peressuti, Rogers, Gianfranco Frattini, Gregotti-Meneghetti-Stoppino, Vito Latis, Ico Parisi, Santi e Borracchia, Vittoriano Viganò) che utilizzeranno lampade di Arteluce per arredare gli interni della ricca e colta borghesia milanese, bisognosa, nel dopoguerra, di ridefinire la propria identità, anche attraverso i prestigiosi arredi di ricerca delle proprie case.
Tra le frequentazioni di Sarfatti ricorrono Lica e Albe Steiner, Franco Albini e Lucio Fontana. I modelli 1063 e 1065 ottengono il massimo riconoscimento per il design, il “Compasso d’Oro”, nelle due prime edizioni: Sarfatti in poco più di 40 anni ottiene, in vita, tutto l’ottenibile.
Chiude la sua esperienza imprenditoriale, al massimo storico del suo risultato, con circa 40 addetti in Arteluce, divenuta, a quel punto, la più importante società produttrice di lampade a livello internazionale. Cederà l’azienda e tutti i diritti del suo ingegno a Flos nel 1973.
La sfortuna critica del ruolo che la vicenda di Gino Sarfatti ha assunto e rappresentato per il design italiano, probabilmente ha fatto i conti anche con un tic endemico della storiografia italiana: la fatica di rinvenire l’aura eterea e impalpabile del talento inventivo, nella sua prosaica, volgave conversione “imprenditoriale” e persino (peccato capitale!) commerciale. In altri termini, se sei dotato di “furor divino” e sei un venerato maestro, non è raccomandabile che tu, con quel furor ci faccia anche i pìccioli! Questo non farà di te un “geniale inventore”, o peggio un “sofferente creativo”, insomma un’anima bella nei secoli dei secoli; il giudizio parziale e “rosicone” della Storia ti punirà con il limbo dell’oblio o della marginalizzazione, (non siamo calvinisti, si sa).
Il carattere punitivo della storia emerge talvolta anche a scapito dei “fuori accademia” (siamo figli del foglio di carta più che delle stelle).
Gino Sarfatti non aveva avuto una formazione convenzionalmente legata al mondo dell’Architettura in anni in cui, come è noto, in Italia i designer, provenivano da quell’ambito. Gli architetti, avi dei nostri interior designer, in quel momento, non avevano ancora l’uniform total black, con tagli minimal drammaticamente nordeuropei e pallori esistenzialisti, ma erano comunque sofferenti e accademici.
Altrettanto fuori schema, la recezione e il destino delle sue illuminazioni, che non rappresenteranno mai iconici must have, immancabili testimonial (“e sei in pole position”) degli status agonistici da industriale brianzolo; saranno, piuttosto, prezioso feticcio di un collezionismo più smaliziato, sviluppato, per lo più, oltralpe.
Gino Sarfatti si ritirerà a vivere sul lago di Como dove si spegnerà nel 1985, mentre il suo ingegno avrebbe continuato a giocare con la luce, illuminando spazi, abitazioni, persone e, senza dubbio, intere generazioni di futuri designer.