Archiviare utopico come metodo
In conversazione con Gaia Bobò
Gaia Bobò (Noto, 1995) è una curatrice indipendente e critica d’arte, co-fondatrice di SPAZIOMENSA a Roma. Per un anno sarà coinvolta nella programmazione della Quadriennale in quanto selezionata per il programma per curatorə in residenza. La formazione in Comunicazione e Valorizzazione del Patrimonio Artistico Contemporaneo, fa da premessa alla pratica curatoriale di Bobò che si sviluppa attorno ai binomi arte-antropologia, parola-immagine.
Per patrimonio immateriale – o patrimonio culturale intangibile – si intendono tutti gli aspetti immateriali che definiscono un’identità culturale, tra cui pratiche, espressioni, riti ma anche oggetti e strumenti legati a questi ultimi. [1]
Nel 2018 Bobò cura la mostra ICH. Intangible cultural Heritage presso la HFBK Gallery di Amburgo, il primo progetto curatoriale che emerge in maniera esplicita da riflessioni trasversali attorno al tema antropologico del patrimonio immateriale. Bobò riconosce nella partecipazione del pensiero artistico alla trasmissione di ciò che è intangibile, un metodo. L’interesse verso questi fenomeni ed elementi deriva, parafrasando le parole della curatrice, dal fatto che siano espressioni che mantengono una sorta di forza antropologicamente necessaria e condivisa, specialmente parlando di realtà locali ma comunque universalmente significative.
La curatrice intercetta la componente dell’immateriale in tipi di relazione umana, pratiche, oggetti che dal punto di vista accademico non sono immediatamente riconducibili all’idea di patrimonio. L’antimonumentalità propria di questo paradigma è uno dei punti su cui la pratica curatoriale di Bobò si focalizza. Riconoscere il valore di tutto ciò che è non-monumento apre a delle possibilità di lettura e rilettura delle identità culturali e le storie ad essere legate.
Da questi presupposti si sviluppa il progetto curatoriale Porta Portese, un’esposizione inaugurata a novembre 2021 e fondamentale per la comprensione della ricerca della curatrice. Il mercato di Porta Portese pur non essendo ufficialmente riconosciuto o classificato come patrimonio immateriale, Bobò afferma che è più interessata a inserirsi dove può riconoscere qualcosa che ancora non è storicizzato in quanto tale ma del quale può percepire l’importanza e l’energia potenziale. L’esposizione a SPAZIOMENSA si propone come una riflessione attorno al mercato inteso come luogo di scambio, trasmissione e transito di oggetti e persone, introducendone una possibile estensione globale e accelerata di questi processi di scambio. Questo specifico spazio-tempo mantiene la dimensione magico-irrazionale che i ritmi dell’ordine contemporaneo tendono a vanificare. Questo fa del mercato uno spazio culturale effimero di cui è propria una frequenza, una ripetitività performata e rituale. Porta Portese partendo da un’indagine sulla città di Roma, apre alla frenesia del transito tra diverse geografie che si compie all’interno di un medesimo spazio, quello del mercato e in questo caso quello dello spazio espositivo. Mettendo in dialogo percorsi artistici, generazioni, linguaggi vari e differenti, Porta Portese appare come la realizzazione di un archivio espanso e collettivo, che interroga la ricerca sull’archeologia dei media, i processi di trasmissione e diffusione delle immagini e il rapporto con lo spazio pubblico.
L’azione dell’archiviare utopico diventa metodo nella pratica curatoriale di Gaia Bobò. Lavorando nel dominio dell’immateriale, la dispersione è un fattore che non si può prescindere. Nel contesto del mercato, ad esempio, la dispersione è una regola del gioco. Le dinamiche, gli oggetti, le relazioni che esistono in quel preciso spazio-tempo, non esisteranno altrove e mai più. L’archivio diventa quindi una metodologia per arginare i processi di dispersione. L’utopia di questo tentativo, non diminuisce la potenza dell’atto di mettere-insieme linguaggi e forme plurali proprio della pratica di Bobò. La trasversalità su vari livelli riconoscibile in molti dei suoi progetti deriva dall’idea di pensiero storicizzato, ovvero che le idee siano cicliche, e dalla volontà di inserirsi in questo flusso energetico circolare creando libere associazioni.
La mostra Mixed Media, inaugurata a gennaio 2022 presso Gallery of Art della Temple University di Roma, vede le artiste Lucia Marcucci e Angela Washko coinvolte in un dialogo inter -generazionale e -disciplinare. Per quanto distanti in tempo, spazio e strumenti, le ricerche di entrambe le artiste si delineano analizzando tematiche femministe in relazione allo sviluppo dei media e dei mezzi di comunicazione. In questo caso lo sguardo femminile – femminista – viene posto al centro del discorso, in quanto gli viene riconosciuta una forza sovversiva in grado di far tremare le logiche dominanti e determinare la grammatica per un nuovo linguaggio.
Parte della complessa sensibilità di Bobò può cogliersi nell’audacia di riunire all’interno di stessi limiti spaziali artistə e non, con ricerche ed eredità non riconducibili ad un unico sguardo. Questo si rende evidente in tutti i suo progetti, da Porta Portese a Mixed Media a VIVAVUCI, inaugurato a viaraffineria, Catania, a luglio 2021. Nei progetti sopracitati l’attenzione pare appoggiarsi sempre sulla relazione diretta tra i domini dello sguardo e del linguaggio, o immagine e parola, dimostrandone un’interdipendenza che diventa territorio fecondo per associazioni e storie. Bobò spiega che nonostante la sua formazione e ricerca teorica, i suoi progetti sono alimentati da urgenze personali e da un aspetto relazionale che occupa una posizione centrale nei suoi processi di ideazione e compimento. Natalie Loveless, professoressa associata in Arte e Teoria Contemporanea presso l’Università di Alberta, parla in un suo testo di curiosità-motivata o azionata. Spiega che questa è una curiosità specifica attivata dall’amore che si prova verso qualcosa – come una pratica, un oggetto, un fenomeno, ecc. – o qualcunə. La curiosità-azionata è definita dalla stessa come pericolosa, in quanto potenzialmente inesauribile perché tenuta viva da un sentimento che permetterà di prescindere i confini accademici. La ricerca di Bobò sembra ammettere questo tipo di curiosità e attenzione. Il risultato è un linguaggio-sguardo che si muove in diagonale, in tutte le direzioni, tra prassi e osservazione empirica, in cui il processo di libera associazione corrisponde alla costruzione del significato.
Con queste premesse non è difficile comprendere come l’editoria si inserisca senza stridere nel lavoro di Gaia Bobò. In Porta Portese viene dedicata una sezione ai linguaggi della stampa e del libro d’artista, con opere e i progetti editoriali di Alessia Armeni, Quentin Lefranc, Lamberto Pignotti e Sergio Sarra in collaborazione con Emilio Prini, per citarne alcunə. Ancora più puntuale è MAGNETE, un format che invita diverse realtà editoriali ad appropriarsi dello spazio espositivo di SPAZIOMENSA, attuando una vera e propria traduzione dello spazio della pagina nello spazio espositivo, portando a un rovesciamento di ruoli e ad una sovrapposizione tra spazio-pagina, editoria-curatela.
In conclusione, la ricerca di Gaia Bobò sembra quindi contribuire ad un discorso più ampio e non limitato alla pratica curatoriale, che segue un approccio interdisciplinare e intersezionale, che prende la prassi come punto di partenza per estenderne i confini fino a ridefinirne ruolo e status. L’esattezza pretesa nei suoi progetti rivela la capacità di far convivere più polarità, attivando spazi complessi per la co-esistenza e la narrazione dell’elemento verbale e visivo.
In copertina: Gaia Bobò – Courtesy opere Lamberto Pignotti.
[1] Nell’ultima puntata del podcast Archivio Plurale la curatrice è in conversazione con Leandro Ventura che dal 2020 ricopre il ruolo di Direttore dell’Istituto Centrale per il Patrimonio Immateriale. Qui si trova forse una chiave per leggere la pratica di Gaia Bobò in quanto si discute di come sia patrimonio anche ciò che non è sempre riconosciuto come tale dall’opinione comune.