Von Holden Studio:
studio visit ad Elisabetta Marino
Entriamo nello studio palermitano di Elisabetta Marino fra storia, reperti e corredi funebri l’artista ci mostra la sua archeologia contemporanea nata da un interesse ossessivo verso la storia antica; un’archeologia fatta di colori e forme variegate.
Ricordo che quando da piccolo mi veniva domandato che lavoro volessi fare da grande, la mia risposta era sempre la stessa: l’archeologo. Non so bene il motivo per cui volessi fare quel lavoro. Forse mi ero fatto incantare dall’immaginario dei film de La Mummia o forse perché avevo una fissazione ossessiva verso l’Egitto, tanto che arrivai al punto di chiedere ad una mia zia di portarmi un po’ di sabbia del deserto. Non lo so. Ciò di cui sono certo è che avrei voluto scavare e trovare qualcosa di un tempo che non apparteneva al mio, così remoto da perdermi anche soltanto nell’immaginazione di quanto tempo ci separasse.
Invece mi ritrovo ad aver fatto tutt’altro nella vita e a vagare da uno studio d’artista all’altro, ascoltando le loro immaginazioni, gli eventi e le vicende legate ai loro lavori, le loro ossessioni, le paure, i sogni e le ambizioni, le filosofie più bizzarre e –come uno psicoterapeuta–anche i loro traumi.
Qualche giorno fa sono andato al Von Holden Studio, in un meraviglioso palazzo nei pressi del quartiere Libertà, la zona più elegante di Palermo, a trovare Elisabetta Marino, che condivide questo grande spazio con altri amici artisti e architetti.
Elisabetta Marino (’89) ha frequentato l’Accademia di Belle Arti di Palermo dove ha conseguito il diploma di primo e secondo livello in Pittura e di fatti si definisce una pittrice.
Percorrendo una grande stanza del Von Holden Studio si arriva nel suo spazio, una stanza non troppo grande, ma adeguata alla sua produzione e abbastanza intima. Sembra che sia abituata a questo genere di incontri, è apparentemente tranquilla, mi porge una sedia, mi accomodo e lei siede disinvolta su un tavolo di fronte a me. Pochi minuti dopo l’imbarazzo è evidente, sta scomoda ed è costretta a prendere anche lei una sedia.
Ma tutto questo è importante? Credo di sì per un fatto strano: mi è parso di andare a trovare un’amica d’infanzia che non vedevo da tempo e con la quale condividevamo alcune passioni. Non passerà molto tempo dal mio arrivo, quando Elisabetta esordirà dicendomi «Io volevo diventare un’archeologa». Io le avevo solo chiesto di raccontarmi qualcosa di lei.
La produzione di Elisabetta Marino è bizzarra, ma per comprenderla dall’inizio è fondamentale una constatazione portata avanti dalla stessa artista, cioè che il suo periodo di studi in accademia è stato pressoché un trauma. Il motivo è da rintracciare nei vincoli e nei pochi stimoli, elementi che forzavano la sua pittura e la sua sperimentazione a rimanere sul piano accademico che l’artista, invece, voleva già dall’inizio sfidare.
Non sorprende che Marino volesse diventare un’archeologa, perché i suoi lavori sono tutti legati fra loro da un interesse ossessivo verso la storia antica. Statue antiche, kouroi, scene d’impianto classico ed esseri mitologici sono i principali protagonisti delle sue tele, inseriti in atmosfere apparentemente digitali. Come collage, la pittura di Elisabetta Marino, offre la totale centralità alle figure che ritrae, spesso distaccandole dallo sfondo, che diventa il pretesto per creare un contesto non scenico, bensì temporale. I lavori pittorici dell’artista palermitana non inscenano narrazioni, bensì ricostruiscono il sentore di un tempo passato, che fa della storia la matrice di sensazioni intime manifestate tramite il colore, intersecando l’antico e il presente con le caratteristiche digitali.
Le opere certamente più d’impatto sono le sculture colorate che compongono la serie BUBBLE BUBBLE, in cui emerge totalmente l’estro ironico e giocoso dell’artista. Opere di varie dimensioni, principalmente ridotte a pochi centimetri, illusorie nel peso, nella consistenza e nel ruolo. Quando Elisabetta Marino inizia a disporre con cura e precisione queste statuine coloratissime sul tavolo, mi sembra di avere davanti un bambino che posiziona i suoi pupazzetti prima di iniziare a giocarci e di fargli vivere storie fantastiche. Ma non sono lontano da quella scena, infatti man mano che il tavolo si riempie di queste piccole sculture, sto involontariamente cadendo nella storia fantastica che Marino ricrea. Sono davanti ai resti di uno scavo o al bottino di un tombarolo? Davanti ho un intero corredo funebre caratterizzato da colori sgargianti che subito mi riportano contemporaneamente indietro nel tempo, in un passato mai vissuto, di cui ho solo studiato l’esistenza e le caratteristiche e un istante dopo alla mia infanzia, dove passavo giornate a modellare la plastilina.
La scultura di Elisabetta Marino diventa un gioco infantile che ha finalità mature e intellettuali, ovvero quelle di riscoprire la storia e di rimetterla in discussione, creando cortocircuiti volontari, di senso e di percezione. Infatti, ritrovandosi anche di fronte alle sculture più grandi come le teste dalla forma di anfore, è impossibile comprendere il loro peso, che proprio per l’illusione storica di avere davanti un vero e proprio reperto archeologico, crediamo abbiano un peso specifico rilevante. È solo nel momento in cui entriamo a contatto con queste opere, con la stessa delicatezza con la quale si potrebbe raccogliere un’anfora antica, che ci si rende conto del suo reale peso. Questo fattore contribuisce ad accrescere l’illusione che la serie BUBBLE BUBBLE vuole generare; un’illusoria serietà in cui parla di storia, di fragilità, di ricostruzione temporale e di morte, ma che viene, appunto, smontata dalle imperfezioni strutturali che ricordano le infantili sculture in plastilina, dai colori sgargianti in pieno stile POP e dalle espressioni burlesche che l’artista conferisce alle teste e alle maschere che realizza.
Il legame di Elisabetta Marino con l’arte antica è un modo per indagare e mettere in discussione la storia e le forme che la raccontano, aprendo complessivamente vari interrogativi esistenziali coi quali analizziamo non soltanto noi stessi nel momento in esistiamo, ma soprattutto nel momento e nel modo in cui siamo esistiti.
Una volta fuori dal Von Holden Studio mi appare alla mente un pensiero ironico, ma tutto sommato possibile: forse sarò una nuova forma di archeologo, che scava il presente e tramite tanti piccoli reperti contemporanei lasciati dagli artisti, potrà ricostruire la storia di quel periodo in cui ha vissuto. Ma forse è ciò che fanno già i critici dell’arte.