/DISCONTINUO/ an open studio #4
Intervista ad Alessandro Costanzo e a Roberta Gennaro
Proseguiamo con le interviste agli artisti della quarta edizione della residenza d’artista /DISCONTINUO/ an open studio curata dal collettivo Flock e svoltasi a Barcellona Pozzo di Gotto nel mese di agosto.
Le stanze della dimora in stile liberty, situata nel centro storico del paese, sono diventate lo studio degli artisti che hanno elaborato individuali osservazioni sull’esperienza del vivere il momento presente, hic et nunc.
Il rito e il rituale, il sacro e il desacralizzato sono il nucleo semantico dei lavori di Alessandro Costanzo e di Roberta Gennaro, entrambi siciliani, che hanno interpretato il corso della residenza secondo logiche introspettive, benché con risultati molto diversi.
L’indagine di Alessandro Costanzo, invitato espressamente dal collettivo per l’attenzione che viene riservata alla ricerca contemporanea del territorio, si esemplifica nella coesistenza dell’operazione duale di meticolosa e sistematica progettazione congiunta ad una successiva disgregazione dell’immagine, ridotta in frammento e plasmata in forma scultorea che prende le sembianze di sezioni di luminarie. Distanziandosi dall’ottica del produrre ordinario regolato dal periodo di residenza, Alessandro compie una celebrazione del suo fare e del suo esserci mediante il bilanciamento dei tempi pieni e vuoti della meditazione che conduce nell’alternanza delle giornate, generando un’interferenza nel fluire degli eventi.
Dopo avere sottoposto il corpo come tramite dell’azione del tempo sulla materia, giungendo così ad esiti di matrice auto performativa, l’artista trasferisce il riferimento del suo vissuto ed elogia l’Allegoria del giorno.
Durante il periodo di permanenza, hai sperimentato il risiedere nel luogo come considerazione del tuo agire sul contesto. Qual è stata l’evoluzione del tuo pensiero inteso in senso processuale?
Durante la residenza mi sono focalizzato esclusivamente sull’amplificazione di un’azione rituale, estraniandomi in qualche modo dal contesto geografico locale.
La riflessione è partita inizialmente dalle stesse modalità che una residenza d’artista impone: un luogo e un tempo specifico. Questo vivere e sviluppare un pensiero nella brevità di un contesto è stato il cardine che mi ha spinto a produrre un’azione circolare sulla consuetudine dell’agire umano.
In maniera quasi tautologica, il tentativo è quello di celebrare il giorno stesso nella consapevolezza di appartenere alla transitorietà del mondo; registrare quel peso, inglobarlo nella materia, edificarne un piccolo monumento per assimilare quella “verità” gravitazionale, a cui il nostro peso è soggetto quotidianamente.
La desacralizzazione del simbolo liturgico, la luminaria, viene riconosciuto come atto fondatore di un paradigma materico-concettuale che richiama il tuo precedente lavoro site-specific Indagine sulla curvatura. Le porzioni dell’oggetto qui però incarnano protesi di te stesso traducendosi in simboli autocelebrativi e fai uso di un materiale per te insolito, la ceramica. Come ti sei relazionato con essa rispetto alla trasposizione della tua riflessione?
La ceramica, in quanto nella sua prima fase è creta, si presta all’atto costruttivo. L’aggiungere materia per definire la luminaria diventa fondamento del rituale auto-celebrativo, mentre perderne una parte in fase di cottura esaspera nella sua contraddizione il processo e diventa la testimonianza di un evento, di un passaggio.
Come anticipi tu, ho già approfondito questo oggetto, cerco forse di “appropriarmi” della sua attitudine, prendo in prestito la sua carica simbolica per declinarla verso altre direzioni.
Progettare e disegnare grandi luminarie, durante quei giorni, è diventato così il pretesto per impegnare il tempo in una pratica “festosta”.
Ho immaginato questi elementi ingombranti, fuori portata, e ne ho realizzato soltanto una parte, quella parte che attesta il tempo utile che il giorno riserba al fare. Quel peso diventa la testimonianza di un transito, della variazione costante della mia massa sul mondo, un estratto di tempo fossilizzato.
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L’esplorazione dell’area barcellonese è stata, invece, l’origine della ricerca di Roberta Gennaro, che si è lasciata ispirare dalla tradizione religiosa del borgo. Elementi oggettuali si tramutano in icone sacralizzate, simulacro di credenze indecifrabili, che l’artista costruisce con l’urgenza di esprimere la sua personale interpretazione della realtà trascendente. La stanza/studio è stata adornata quale spazio devozionale entro cui stanziano due pale in cemento raffiguranti effigi, immagini tratte dal repertorio virtuale in una fusione di fotografia e pittura, e di controcanto ossa di scarto inglobate all’interno di basamenti di cemento che fungono da reliquiario. I drappi rossi, che ornano i due altari, calano giù come sentenze e richiamano le antiche celebrazioni del culto, attraendo il visitatore ad avvicinarsi per tentare di comprenderne il loro oscuro significato.
Barcellona Pozzo di Gotto è fortemente intrisa della cultura del sacro. Qual è stato il tuo rapporto con la religiosità del luogo e come hai portato avanti la tua ricerca?
Ho condotto la mia ricerca sapendo già di voler affrontare la religiosità del luogo; conoscevo Barcellona Pozzo di Gotto e credo che la cittadina mi sia entrata dentro pian piano col passare del tempo. Nel caso di questa residenza, ho cercato un po’ in giro, mappando il territorio con la mia macchina fotografica, osservandolo, raccogliendo storie, rimanendo anche ad ascoltare le sensazioni che potevo assorbire durante la notte. Più di una volta sono finita al fiume di Terme Vigliatore, ero al corrente del fatto che fosse una discarica a cielo aperto, ma volevo toccare con mano quello che avevo solamente sentito dire da diversi barcellonesi. Un giorno passeggiavo lì tra i rifiuti sentendomi parte di una transumanza invisibile e all’improvviso mi ricordai di quando venni a Barcellona per assistere alla processione delle varette di Pasqua, dove la gente si maschera da romani e sfila con questi carri infiorati per le vie antiche del paese. Da qui la mia ricerca prende una piega più concreta: ho deciso di lavorare su delle ossa che erano state trovate sul fiume e di convertire il loro significato da oggetto di scarto a reliquia, altro oggetto apparentemente inutile ma nel quale noi riversiamo le nostre speranze così tanto da farlo diventare oggetto di conforto. Infine, ho fatto una ricerca sul web per scoprire dettagli che mi sarebbero poi serviti per i collage finali delle due pale, altre immagini su cui riporre fede.
I tuoi oggetti si ammantano di un’aura misteriosa, feticci, ex-voto, reliquie di un rito divino che si scopre alla fine mendace. La realizzazione di un dogma che spiazza lo spettatore di fronte ad una non riconoscibilità dell’icona presentata. Qual è il tuo credo e cosa vuoi disvelare?
Sono un’appassionata di religioni. Ho letto diversi libri che parlano di svariati credi come induismo, vudù, wicca, religione cattolica, testi sui miti e sulle filosofie orientali con uno sguardo anche all’antropologia. Mi reputo agnostica semplicemente perché penso che ogni religione del mondo di cui ho approfondito possegga dei piccoli tratti in cui io credo e a mio avviso l’unico elemento in comune che possano avere veramente tutte le religioni è che “qualcosa” esiste oltre a noi; inoltre, sono interessata al concetto di sacro insito in noi stessi o che può esserci all’interno del sistema vegetale e animale. Questi due pensieri formano le immagini iconiche che in realtà per me sono un insieme di tutti i credi che esistono nel mondo.
Siamo un tutt’uno con la terra, con l’universo che per me è una reliquia ed espressione di qualcosa di grande, così immenso che spesso non si riesce a comprenderne appieno il valore.
In realtà non voglio svelare nulla, ma probabilmente sottolineare la preziosità della vita e il rispetto per il “tutto” in cui viviamo. Parlare del sacro è qualcosa che secondo me, nel periodo storico del moto perpetuo, può servire a fermarsi e riflettere.