L’editoria indipendente è il nuovo ambito d’azione che nelle arti visive contemporanee ha saputo trovare il suo spazio mettendo insieme diversi elementi della produzione artistica.
L’autoproduzione di “edizioni” che fanno capo a progetti curatoriali o espositivi, a gruppi di artisti, fotografi, curatori, addetti ai lavori mette nero su bianco l’attuale condizione della produzione culturale italiana e straniera. Questo scritto analizza i diversi approcci al “farsi un libro” che sia capace non solo di raccontare un percorso artistico ma che sia esso stesso un prodotto artistico.
La diffusione del mezzo tecnologico di stampa da un lato e il ritorno alla copia numerata hanno dato origine a nuovo sistema editoriale alternativo con codici stilistici e contenuti innovativi e fortemente sperimentali.
Valentina Lucia Barbagallo e Giuseppe Mendolia Calella
BACK TO ‘60s AND FORWARD TO THE FUTURE
di Giorgia Di Carlo*
Il libro è un corpo. Ha una sua forma, una sua materialità, una pelle sulla quale è incisa una storia. Il libro è una delle tecnologie più solide mai inventate, scriveva Eco. Come la ruota o la forchetta, invenzioni talmente perfette che è impossibile pensare di cambiarle radicalmente. Eppure il libro ha subìto lentissimi cambiamenti. Dalla roccia incisa, corpo letterario agito in funzione di una narrazione collettiva, si è giunti alla forma che conosciamo oggi e che si vorrebbe svaporasse nel mondo immateriale della rivoluzione digitale.
Il libro, come l’arte, sancisce il passaggio nell’esistente, è l’impronta cristallizzata che attesta la presenza e l’azione umana e ne fa dono all’alterità. Il libro è anche un mediatore visivo, tattile, linguistico che sa rispondere ad esigenze molteplici. Il libro è un feticcio. La sua cosità ci permette di toccare e partecipare della forma secolarizzata della cultura, di una certa manualità, di un certo habitus sociale di cui ne è divenuto il sacrario.
Ci sono voluti secoli e trasformazioni sociali enormi affinché chiunque potesse possedere un libro. E questo suo divenire oggetto del quotidiano, ci ha permesso di entrare in totale familiarità con la sua fisicità, di avere una confidenza tale con esso e al contempo un tale rispetto, che si è sentita la necessità di ridefinire il libro come spazio di espressione e di accostarvisi con la curiosità di rinnovare il rapporto con esso, di abitarne le pagine secondo regole e percorsi nuovi.
Mallarmè nell’800 cominciò a sperimentare sulla parola come segno grafico, vaporizzandola nello spazio a favore dell’espressività visiva del contenuto verbale. Per la prima volta la pagina cominciava ad assumere un altro ruolo, non solo contenitore, ma anche luogo abitato e strumento visivo. In seguito gli artisti delle avanguardie del primo ‘900 cominciarono ad agire liberamente sulla carta. Ma nei livre de peintre il rapporto rimaneva quello di un vis a vis tra due forme espressive: quella letteraria e quella visiva in cui generalmente il disegno e la pittura facevano da commento alla parola e la negazione della serialità di questi artefatti era pensata esclusivamente per fare del libro un oggetto d’élite.
Il primo forse a sperimentare sull’anatomia del corpo-libro è stato Fortunato Depero con l’ormai famoso Libro bullonato (Depero Futurista) del 1927, in cui utilizzò materiali nuovi e metodi insoliti di produzione dell’artefatto editoriale. È in questo momento che si apre la strada per una concezione diversa del libro che negli Anni ‘60 porterà al concetto di livre d’artist. Tale definizione — seppur dai confini non del tutto chiari — comprende tutte quelle opere d’arte che usano la forma del libro come strumento espressivo sovvertendone, nella maggior parte dei casi, le regole a cui il lettore è abituato e riportando il perimetro d’azione dell’arte al reale, non più inteso solo come soggetto e oggetto ma come strumento del fare artistico. Utilizzando i media tecnologici il campo puramente visuale viene abbandonato in favore di un’arte in cui “i dati visuali e materici si concretizzano tramite strumenti comunicazionali che […] richiedono un ampio grado di partecipazione […]. Scegliere la stampa (significa) rafforzare la coscienza che il medium offre una condizione comunicazionale alla sfera privata […] così il libro è un’estensione dell’occhio e della mente e contribuisce negli anni Sessanta […] ad una maggiore significazione dell’umano e del tecnologico, poiché richiede un procedimento analitico-discorsivo e non sintetico-ideografico” (G. Celant, Book as artwork 1960/1970 — DATA#1). Si percepisce il libro in quanto tecnologia consolidata e diffusa, medium autosignificante che non richiede altro sistema di informazione che l’immagine stampata e la parola.
Il clima del periodo ’60—‘70 è favorevole alla riscoperta del libro nella sua natura materica e di dispositivo culturale. Gli anni in questione infatti sono quelli in cui l’underground press si cimenta con l’autoproduzione di artefatti editoriali, dai libri alle riviste e ai fenomeni di nicchia come le fanzine. Al libro in quanto oggetto-corpo-opera si nega la funzione per la quale era stato concepito e cioè quella della sua riproducibilità tecnica pressoché infinita. L’artista produce il libro come pezzo unico o in serie numerata. L’artefatto editoriale diventa spazio di sperimentazione e controinformazione, un contenitore esperenziale colmo di desiderio di fare ricerca. È una scommessa che riconduce la sfera dell’arte a quella del quotidiano, o meglio a quella umana, del tempo reale, da documentare e ripensare criticamente cosicché, al lavoro fisico e visuale e al gesto dell’artista, si affianca l’azione sui segni comunicazionali.
Andy Warhol nel 1968 realizza A. A novel, registrando un’intera giornata di conversazioni, pensieri, accadimenti succedutisi nell’arco di 24 ore all’interno della sua Factory e che si mescolano al cuore pulsante della vita quotidiana, fatto di silenzi, rumori e suoni della città e dei suoi abitanti.
Nel 2013 i graphic designer newyorkesi Jessica Walsh e Timothy Goodman lavorano ad un progetto volto ad indagare i rapporti umani e il sentimento dell’amore. Per quaranta giorni “simulano” le dinamiche e le tacite regole di una vera relazione sentimentale, condividendo l’esperienza con un pubblico ampio attraverso un blog dedicato che ogni giorno veniva arricchito da contributi visivi prodotti da amici e colleghi della coppia e che hanno finito per far parte di un libro, 40 days of dating, uscito una volta conclusosi l’esperimento.
In che modo potremmo definire gli artefatti editoriali che sono venuti fuori da queste due operazioni artistiche? Residui fisici e documentali? Bookwork?
Nella riscoperta del libro come medium, i confini si fanno sempre più labili tra le diverse tipologie di artefatto editoriale, ma proprio questa ambiguità porta in sé l’implicita considerazione che non esiste una sola maniera di leggere il libro — la realtà — ma molteplici interpretazioni. È chiaro che “il lavoro ‘tramite’ e ‘sul’ libro, il film…ecc. non deve evidentemente essere considerato come operazione visuale, ma come argomento riguardo alla natura e alle possibilità funzionali dell’arte o della ricerca comunicazionale”(Celant).
Sull’onda di questa riscoperta dell’artefatto editoriale si muove anche il sistema dell’arte contemporanea che vuole rinnovare i propri mezzi non solo espressivi ma anche divulgativi. Il catalogo d’arte in questa ottica scavalca la presenza dell’opera negli spazi chiusi della galleria e diventa esso stesso opera. Ulises Carrión sosteneva che i bookwork “sono libri in cui la forma libro, una sequenza coerente di pagine, determina condizioni di lettura che sono intrinseche all’opera”. Ne è un esempio Xerox book catalogo-esibizione del 1968.
I galleristi S. Siegelaub e W. Wendler concepirono il progetto di una mostra per sette artisti, in cui lo spazio a disposizione non era quello della galleria ma quello della pagina. Un site-specific cartaceo che si articolava su 25 pagine per ciascun artista. Ogni “opera” costituiva in qualche misura un capitolo di un unico artefatto editoriale autoprodotto, rilegato a spirale, realizzato in 1000 esemplari tramite l’uso della fotocopiatrice come mezzo di produzione, con lo scopo di ridurre i costi per arrivare al maggior numero possibile di fruitori-lettori, e concepito quasi come opera collettiva. Un anno dopo fu organizzata January 5—31, 1969, un’esibizione di cui 26 delle 32 opere presentate esistevano esclusivamente all’interno del catalogo. Viene ad annullarsi così lo spazio tra l’opera e la sua riproduzione visiva ed il catalogo stesso diventa cuore della mostra, aprendo il mondo dell’arte ad una collettività più ampia proprio perché è uno strumento accessibile e intellegibile da tutti. Xerox Book diventa anche un pretesto per criticare il sistema istituzionalizzato ed il mercato dell’arte, assumendo il ruolo di meta-riflessione su sé stesso.
Produrre piccoli artefatti editoriali richiedeva quindi strumenti semplici: ciclostile, collage, fotocopiatrici. E proprio l’approssimazione di questi mezzi “casalinghi” permetteva una libertà espressiva ed una ricerca formale senza pari, capace di reinventare il ruolo del designer e dell’artista stesso.
È il caso, ad esempio, di East Room 128, un magazine autoprodotto nel 1968 da Ettore Sottsass e Fernanda Pivano, utilizzando una fotocopiatrice. L’esperimento costituisce l’antesignano di un certo tipo di design contemporaneo, per la logica dell’appropriazione di immagini da altri media, sperimentazione tipografica, utilizzo dei collage, disegni fatti a mano, scrittura da macchina da scrivere.
Oggi queste stesse pratiche vengono riprese dalle nuove generazioni di designer e portate ad alti livelli. Sebbene molti professionisti affermati sconfessino l’utilità della produzione di nicchia di questi progetti handmade (Irma Boom ad esempio ritiene una contraddizione in termini la produzione di artefatti in serie limitata, poiché negano la funzione e la rivoluzione principale del libro stesso), assistiamo ad un interesse sempre maggiore, tanto che negli ultimi anni si è avuto un proliferare di iniziative ad esse dedicate. Nascono sempre più festival e sempre più collaborazioni tra ambienti dell’arte contemporanea, della cultura e progetti esoeditoriali, poiché si apprezza la qualità e l’unicità del lavoro artigianale, tornando all’elogio della mano che l’era digitale, dagli infiniti database e dall’immagine preconfezionata, sembrava considerare obsoleta e retriva.
Il ritorno all’autoproduzione come tendenza del contemporaneo va relazionata anche alle dinamiche sociali, culturali e alla situazione dell’editoria odierna.
L’epoca del digitale e dei computer ha reso infatti accessibili a tutti gli strumenti per poter produrre un artefatto editoriale autonomamente e in genere per operare in molti campi prima destinati ad un’élite di professionisti. Parliamo di una nuova generazione quella dei prosumer, cioè degli utenti che sono ad un tempo produttori e consumatori di tecnologia e di contenuti ad essa legati. L’handmade diventa la regola di tutta una nuova generazione che ripersonalizza i beni di consumo di massa, libro compreso, secondo la logica del do it yourself, e aprendo le porte a nuovi progetti che riscoprono la bellezza della manualità dietro il lavoro artigianale.
C’è anche una ragione più strettamente connessa alle dinamiche interne al sistema dell’editoria. Mike Shatzkin definisce il self-publishing un processo di atomizzazione del pubblicare, derivato dal percorso intrapreso dall’editoria mainstream tarlata ormai dalla logica bulimica del mercato massmediale, che vede il libro come bene con data di scadenza, a cui si risponde bypassando il sistema della casa editrice tradizionale.
Inoltre nell’era della smaterializzazione del contenuto e della fugacità dell’informazione, si ridà valore al libro come corpo che ferma il tempo e che rende tangibile l’esperienza cognitiva.
Potremmo parlare quindi di un atto di resistenza ma anche della riaffermazione del concetto di autorialità non più mediato dalla figura specializzata dell’editore, né del sistema ad esso legato — dal momento che è stato messo in crisi dalla metamorfosi dell’editoria in impresa crossmediale, in cui le figure coinvolte provengo da ambiti diversi e legati ad altri mass-media. Il ritorno all’handmade in editoria rappresenta anche la riaffermazione dell’individualità, attraverso una pratica in cui l’autore è spesso il factotum di sé stesso: produttore del contenuto, redattore, curatore del progetto anche nel suo aspetto puramente grafico, in quanto traduzione visiva di un’operazione artistica volta a demistifica l’oggetto libro come artefatto.
Gli stessi spazi indipendenti si munisco di figure specifiche, che possano curare le edizioni di veri e propri libri legati alle singole esibizioni, o intraprendono collaborazioni con realtà esoeditoriali chiamate a supportare progettualmente il lavoro della galleria. È un continuo scambio sinergico tra diversi attori del mondo culturale underground che facendo rete veicolano l’uno il lavoro dell’altro ed insieme la volontà di rinnovare il dibattito intorno all’arte e alla sua comunicazione.
Scambio, partecipazione, ricerca, collaborazione sono i cardini di queste realtà. Anche la Sicilia si sta muovendo in una direzione che la liberi dallo status di luogo ai margini della ricerca artistica.
Von Holden Studio nasce a Palermo nel 2005, nuova pelle dello spazio espositivo indipendente Zelle Arte Contemporanea, punto di riferimento per la scena artistica non solo locale. VHS non è solo una galleria d’arte ma anche un luogo di dibattito legato a diversi ambiti di ricerca artistica e culturale. È anche un laboratorio di serigrafia dove la ricerca non solo si teorizza ma si fa pratica attraverso la sperimentazione in un continuo scambio tra arte, musica e tecniche di stampa.
A Catania nel 2013 nasce invece Ritmo, uno spazio indipendente e galleria d’arte, luogo in pieno fermento che ospita progetti che vanno dall’arte urbana — campo prediletto in quanto processo di riappropriazione visiva, sociale e culturale dello spazio pubblico — alla musica sperimentale, in un continuo dialogo con il territorio. Ritmo infatti si offre alla ricerca artistica che non si concreta solo nelle esposizioni di opere preesistenti, ma nello sviluppo di progetti che prendono forma nel corso della permanenza degli artisti all’interno dello spazio. Site specific ma non solo, opere nate dalle viscere del territorio stesso che ne diventa nutrimento, contenitore e ispirazione per l’operazione artistica. Ritmo cura anche l’aspetto comunicazionale di ogni singola iniziativa, producendo gli artefatti grafici per la promozione delle esibizioni. Teaser, flyer, poster ma anche bookwork editi al suo interno. Un altro aspetto importante che fa di Ritmo anche uno spazio-network è la collaborazione con altre realtà indipendenti, non solo in termini di programmazione di eventi ma anche di contenitore di progetti editoriali all’interno di un bookshop dedicato che promuove il lavoro di altre realtà affini per ricerca e logica. Quest’ultimo aspetto tipico degli spazi indie è fondamentale perché permette di fare rete bypassando i canali tradizionali spesso eccessivi per costo e farraginosi come sistemi. Il web ha un ruolo cardine nei processi di sviluppo di questi progetti e non deve stupire che queste pratiche legate alla tradizione del fare artigianale, apparentemente dal gusto retrò, si nutrano della nuova tecnologia e della rete. Il digitale è infatti uno strumento importantissimo sia nella fase di produzione che in quella di diffusione e distribuzione del progetto perché aiuta a mettere in connessione realtà diverse, professionisti diversi in un continuo scambio di competenze. Prinp 2.0 ad esempio è una piattaforma di self-publishing interamente dedicata all’arte e alla condivisione dei saperi tra artisti, designer, curatori che così realizzano i propri progetti legati al mondo dell’arte in sinergia con altri utenti.
Internet è anche lo spazio che permette di uscire dallo status di fenomeni di nicchia per aprirsi al grande pubblico. Magazine e piattaforme di discussione sono fondamentali per arricchire il dibattito e sostenere la diffusione di tali progetti.
La distribuzione ad esempio è una questione molto delicata. La microeditoria spesso si nutre di risorse minime provenienti dall’autofinanziamento o dal crowdfounding — fondamentale per sovvenzionare questo genere di progetti e che presuppone una produzione e una progettazione in qualche misura partecipata che ha bisogno di un pubblico e del suo supporto. Pensare di affidarsi ai canali tradizionali della grande distribuzione è quindi impossibile. Nascono altre microimprese di distribuzione specializzate in arte contemporanea che quindi individuano i canali e le realtà giuste sulle quali fare convergere i bookwork legati al settore. Tra i più popolari Antenne Books (Londra) e Motto Distribution (Ginevra) che non a caso spesso diventano anche dei bookstore dedicati, con una sede fisica oppure ospitati da altri spazi, gallerie indipendenti ma anche grandi istituzioni dell’arte contemporanea come la Tate Modern Gallery di Londra. Ciò è indicativo del fatto che anche le istituzioni si stanno aprendo ai progetti indipendenti e che ne riconoscono l’importanza nel fare ricerca e nel promuovere l’arte contemporanea.
In un panorama così variegato ed in via di sviluppo come quello dell’editoria d’arte autoprodotta è importante imparare a distinguere gli artefatti di qualità che stimolano e aiutano la ricerca da quelli che sono meri esercizi di stile, per una buona pratica del design e un buon dialogo tra le arti.
Un prodotto editoriale handmade dunque acquista un nuovo sapore, recupera la dimensione del fare, nell’intenzione di ridisegnare un’aura attorno al progetto e affermare che si vuole ri-densificare il proprio corpo (artistico) e la propria esperienza umana. Si abbattono i costi e si ridà dignità al catalogo che non è più tale e diventa strumento si, ma autonomo rispetto all’opera, sua reinterpretazione materica, spesso in bilico tra mondo della comunicazione e opera d’arte vera e propria. Un dialogo tra designer e artista, autori entrambi di una parte dello stesso progetto.
Bibliografia
– Celant, Book as artwork 1960 / 1970 — DATA #1, 1971
– Angiolo Bandinelli, Giovanni Lussu, Roberto Iacobelli, Farsi un libro. Propedeutica dell’autoproduzione: orientamenti e spunti per un’impresa consapevole. O per una serena rinuncia, Biblioteca del vascello/ Stampa alternativa, Roma, 1990
– Daniele Baroni, Un oggetto chiamato libro. Breve trattato di cultura del progetto, Edizioni Sylvestre Bonnard, Milano, 2009
– Fahrenheit 39 — 4a edizione, catalogo del festival, Strativari Boooooks, 2014
– Progetto grafico #28, autunno 2015
– Giorgia Di Carlo, Indie. Considerazioni sull’editoria indipendente, tesi di laurea, accademia delle belle arti di Catania, 2014
Sitografia
http://www.doppiozero.com/rubriche/1352/201304/il-futuro-del-libro-la-parola-ad-artisti-e-designer
http://www.doppiozero.com/materiali/ars/oggetto-libro
http://silviolorusso.com/brevi-note-sulle-risposte-artistiche-ai-mutamenti-nel-campo-delleditoria/
http://www.theperfectjob.it/boite-l-arte-in-scatola-che-non-e-un-pacco/
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Biografia dell’Autore
*Giorgia Di Carlo è una graphic designer di base a Catania ma con aspirazioni nomadi.
Ha studiato grafica editoriale presso l’accademia di belle arti di Catania sostenendo l’esame di laurea con una tesi volta ad analizzare la storia e gli sviluppi dell’editoria indipendente in Italia sia in senso culturale e sociale (l’editoria indipendente come “atto di resistenza” verso le imprese crossmediali dei nuovi scenari editoriali) che in senso più strettamente legato al design dell’oggetto-libro. Lavora nel campo dell’editoria indipendente e da due anni è assistent professor di grafica editoriale presso l’Accademia delle belle arti di Catania.
B-RESEARCH – di Balloon Contemporary Art, Research, communication, Curating Art &Publishing Project
ballooncontemporaryart@gmail.com
Catania
Un progetto di ricerca a cura di
Valentina Lucia Barbagallo
Giuseppe Mendolia Calella
Gruppo di selezione
Valentina Lucia Barbagallo
Giuseppe Mendolia Calella
Cristina Costanzo
Maria Giovanna Virga