Art

Strani estranei

La delicatezza dirompente che si trasforma in arte

 

Una personalità che non vede confini tanto netti tra i concetti di arte e di design quella di Marco De Santi, docente presso il Dipartimento di Design del Politecnico di Milano, che inaugura la stagione espositiva della Amy-d Arte Spazio con una mostra personale plastica, scultorea, organica e concettuale.

Come da manifesto la galleria, guidata da Anna D’Ambrosio, dona all’artista un materiale industriale nuovo ed eco-friendly: in questo caso bioplastiche progettate dal dipartimento di “Smart Materials” dell’I.I.T. di Genova.

Nella mostra il nuovo materiale contrasta con quelli usati dall’artista per gran parte della sua produzione: scarti. Quest’ultimo concetto abbraccia vari ambiti e ambienti.

In primis le macerie raccolte nei cantieri che diventano una serie di “Reietti”, vasi antropomorfi che malgrado sembri un miracolo non assistere al loro crollo, provano ad assolvere la funzione ontologica della loro specie: ospitare fiori, o meglio, piante spontanee raccolte nei più sparuti angoli cittadini. La concretizzazione dell’impossibilità: malgrado siano nate in condizioni ardue, le timide esistenze vegetali non possono comunque sopravvivere a lungo nello spazio ospitante: esso non può conservare la vita perché non riesce a trattenere l’elemento essenziale ad essa: l’acqua.

Le rovine materiali sono metafora delle macerie dell’uomo: materiali e spirituali. L’utero in plastica vuoto, inutile quanto l’essere che solitamente vi abita si sente, esemplifica la depressione e con sottile ironia denuncia anche la “cura tecnologica” quasi prescritta dall’attuale epoca digitale: nella scultura si possono, infatti, inserire i cellulari facendo percepire l’emergere di una nuova funzionalità. La tecnologia prende il posto del feto, massima potenzialità vitale dell’uomo, almeno fino a qualche decennio fa.

Potrebbe essere interpretata, di primo acchito, come una riflessione negativa quella dell’artista. In realtà De Santi con sguardo attento e delicato, coglie e rende visibili le possibilità che l’uomo cestina: accumula cento lenti a contatto che, una volta usate ed esposte, solidificandosi in una “Archeologia dell’usa e getta”, si offrono a giochi di luce e, in modo diverso dal solito, allo sguardo umano.

Anche “Letame” esemplifica questo punto di vista: tra pieghe delle lastre in plexiglas curvato si trovano disegnati degli omini in posizioni improprie che ricordano i flussi organici ed energetici esternati dall’essere umano, con riferimento anche ai disturbi dell’anoressia e della bulimia. Anche qui sembrerebbe un focus negativo, ma lo scopo è ribadire che “dai diamanti non nasce niente… dal letame nascono i fior”. La riflessione sulla parte che l’uomo rifiuta in quanto “rifiuto” di sé stesso è catartica: la oggettivizza e la concretizza, rendendola meno mostruosa, anzi, esteticamente bella e aggraziata. L’opera di De Santi fa emergere tutta la delicata bellezza della fragilità umana.

La riflessione continua in rapporto più stretto all’epoca contemporanea. Il tema della “falsa cura” investe anche “Ultracontemporary bodies / Ritratto sociale”: tre lastre di porcellanato cinese cui vengono sovrapposte, con estrema cura nella disposizione, piccoli oggetti di bigiotteria “made in China”. Auto-appiattimento esistenziale: il corpo umano è diventato lapide in serie e noi stessi moribondi ci ricopriamo del mortifero flusso estetico-tecnologico che caratterizza la nostra epoca.

Infine i rapporti dell’uomo con la tecnologia, con sé stesso e con gli altri è riassunto in “Transumanze”. Un flusso migratorio, reso continuo dal gioco degli specchi, di personcine di plastica che, omogeneizzate dalla tintura grigia, assumono i più vari atteggiamenti mentre attraversano un percorso punteggiato da piccoli teschi. L’opposizione binaria che rende universale e atemporale questo moto consta di “noi” popoli sedentari (di cui sono simbolo le sedie a sostegno dell’intera struttura) e “loro” popoli migranti. La nostra corrente è travolgente ma non fisica: la rete tecnologica che connette sì, rapidamente, ma che causa anche l’estremo arenamento dal muoversi sociale, esemplificato dal personaggio che per uscire di casa e dalla depressione, porta a spasso l’insalata (secondo una terapia prescritta spesso in Cina). I teschi invece ricordano i nomadi del deserto che nel loro mai arrestarsi, lento ma continuo, lasciano i propri morti sepolti solo sotto la sabbia, rifiutando anche il minimo monumento personale: la tomba.