Decostruire l’immaginario
Intervista ad Alessia Rollo
Abbiamo avuto l’opportunità di incontrare Alessia Rollo (1982) fotografa e artista visiva che risiede a Lecce. Il suo lavoro si concentra profondamente sull’area mediterranea e sulle sue comunità mettendo in risalto, attraverso un approccio documentaristico, aspetti ritualistici, antropologici e umani. Dopo aver conseguito la Laurea in Comunicazione Visiva presso l’Università di Perugia, ha frequentato un Master in Fotografia Creativa presso l’EFTI di Madrid nel 2009. Il suo lavoro è stato esposto a livello internazionale in mostre e musei, tra cui: Fotografia Europea, Phest, PhotoEspana, Encontro de Imagen, Benaki Museum, Museum of Photography of Helsinki.
Per citare alcune mostre in corso e future dell’artista, si ricorda che fino al 12 settembre sarà possibile visitare “Alessia Rollo: visual narrative of The Italian South“, presso la Biblioteca Herziana di Roma; fino al 30 giugno, “Parallel Eyes“ presso Asincronie Festival di Sassari. Dal 24 al 29 giugno, “Queer è ora”, presso il Parco Pubblico Bocconi di Milano e dal 21 giugno al 1 settembre, “I Nomi Scritti Nell’Acqua“, presso Collateral Festival di Vieste.
Il lavoro fotografico di Alessia Rollo si sviluppa attraverso lo studio e l’esplorazione attiva dell’area mediterranea. La sua pratica si alimenta delle ricerche che lei stessa conduce su temi che la coinvolgono emotivamente non tanto come individuo, “ma come appartenente a una collettività”. Partendo da argomenti di attualità – si definisce una fotografa documentaristica – con approccio autoriale, mischia molti generi e approcci fotografici che le permettono di utilizzare la fotografia come un vero e proprio linguaggio, un medium tecnologico potente che può sviscerare tematiche fragili e, spesso, mal rappresentate. Pratica una sorta di reincarnazione dell’immagine in chiave artistica, dove il corpus risorge attraverso forme e rappresentazioni altre, coinvolgendo lo spettatore in visioni altre dei temi trattati.
I miraggi sono reali:
Il progetto Fata Morgana parla della migrazione. Come ti sei approcciata a questo tema attualissimo?
Fata Morgana è una serie che parla di migrazione con un linguaggio che cerca narrative alternative a quelle utilizzate classicamente per questo tema. Il progetto parte da uno shock emotivo molto forte che ho provato guardando la famosa immagine di Aylan Kurdi del bambino morto sulle spiagge di Bodrum. Mi sono chiesta se fosse possibile produrre una serie sui migranti senza sfruttare il loro dolore. Non mi sono sentita legittimata a parlare della loro storia e della loro sofferenza in modo fotogiornalistico, quindi ho pensato di lavorare su un altro tipo di rappresentazione a me molto caro e vicino dato che faccio parte di un territorio, la Puglia, che è un grande crocevia di approdi tra l’Albania, la Grecia e molte altre aree del mediterraneo. Nella prima immagine del progetto, infatti, vediamo una spiaggia con molte angurie: ho scelto questo soggetto perché allegoricamente parla anche di approdi, di successi e fallimenti essendo un frutto raccolto dai migranti nelle mie zone. Inoltre, ho voluto lavorare sull’idea di stereotipo e di massa: i migranti sono spesso rappresentati in gruppo e quasi mai come singoli individui. Nei loro ritratti non si riconosce neanche il luogo dove sono stati fotografati, perché ho preferito allontanare lo spettatore dalle vicende per metterlo più in contatto con una suggestione.
Come sei entrata in contatto con queste persone?
Inizialmente ho chiesto supporto ad Arci, attraverso amici e amiche che lavoravano nel territorio salentino. Poi, per una specie di serendipity ho iniziato a incontrare persone che mi hanno raccontato la loro storia e hanno accettato di far parte del progetto. Ci sono anche amici e amiche di famiglia, persone che conosco da almeno 15 anni. Volevo comunicare che la migrazione non è un fenomeno legato necessariamente alla crisi, come è stato descritto dall’Europa, ma è una questione storica e naturale di movimento di persone all’interno dei continenti.
Il nome Fata Morgana [1] a cosa si ricollega?
Nell’area dello Stretto di Messina e altrove, c’è un effetto ottico chiamato appunto Fata Morgana. Qui in Puglia, quando si presenta, ci fa illudere di vedere le montagne dell’Albania. Molte persone pensano che sia reale ma in realtà è un miraggio. È un nome che ho scelto perché mi sembrava calzante, visto questo fenomeno ottico, ricollegarlo alla migrazione come un miraggio che accade quotidianamente nel mar mediterraneo: porta i migranti ad avere l’illusione di una vita migliore ma che purtroppo, viste le violazioni sui diritti umani presenti nel mondo odierno, rimangono solo desideri o speranze disattese.
La de-costruzione di un mito condiviso:
Alessia Rollo è una fervida lettrice, ricercatrice e studiosa. Si definisce affettuosamente una “secchiona”: per lei, la pratica artistica fotografica parte da una sensazione a priori di fastidio verso rappresentazioni stereotipate della realtà. L’artista capisce che per de-costruire un immaginario collettivo c’è bisogno di sapienza e approfondimento dati dallo studio, dalla ricerca e dall’esperienza reale ed umana con le persone o le comunità rappresentate. Dice, con fermezza, che il suo mantra è: “un artista è una persona capace di resistere alla frustrazione”.
Noto che nel tuo progetto Parallel Eyes c’è una ricerca molto ampia di riti, cultura e eredità visiva riguardanti il sud Italia. Come hai iniziato questa ricerca?
Ho incentrato la prima parte della ricerca, che è durata molti mesi, sugli archivi che riguardavano la documentazione storica della società del sud Italia degli anni cinquanta e sessanta. Essendomi formata in Spagna, mi sono accorta che una parte della storia della fotografia italiana mi mancava e, amando molto studiare, nel 2019 ho colmato questa lacuna, concentrandomi sull’aspetto storico-fotografico italiano di quei decenni. Con mia grande sorpresa mi sono resa conto che il sud Italia era molto presente nelle rappresentazioni video-fotografiche, ma le immagini spesso erano prodotte in modo spesso stereotipato. Ho notato, inoltre, che la società del sud non ha avuto modo di auto-rappresentarsi, né di dare un’interpretazione più ampia delle proprie tradizioni. Ho capito che la maggior parte di questi materiali era stato prodotto durante il periodo del neo-realismo e che l’approccio positivista aveva generato un tipo di sguardo sulla mia cultura nel quale non mi rispecchiavo. Per cui ho deciso di fare un lavoro che cercasse di ampliare la storia del sud Italia partendo da questa constatazione: ho ricercato materiali di Luigi Di Gianni, Cesare Zavattini, Chiara Samugheo e molti altri che denunciavano effettivamente situazioni di disagio e povertà, ma non coincidevano del tutto con la complessità dei fenomeni osservati o ne appiattivano la lettura come l’immagine che raffigura le “Tarantate” [2]: è stata pubblicata sulla rivista “Le ore” da Chiara Samugheo con il titolo “Le invasate” [3], titolo che ahimè alimenta stereotipi sul fenomeno, sulle persone coinvolte e sui contesti culturali di appartenenza.
Un lavoro molto affascinante, come hai strutturato questo progetto attraverso questa ricerca?
Successivamente allo studio e ricerca ho lavorato sulla struttura fotografica del progetto, focalizzandomi sui riti e documentandomi anche attraverso il lavoro antropologico di diversi autori come Ernesto De Martino, “Sud E Magia” (Universale Feltrinelli, 2019) e Byung-Chul-Han, “La scomparsa dei riti” (Nottetempo, 2021) Gerorge Lapassade “Gente dell’ombra” (Controluce, 2015), Cecilia Pennacini “Filmare le Culture” (Carocci, 2015). Ho suddiviso il lavoro in due parti: la prima, sugli archivi di rituali antichi, scomparsi: la seconda, sui rituali sopravvissuti, nonostante l’avvento del consumismo e del capitalismo.
In queste immagini viene subito all’occhio la manipolazione fotografica attraverso varie tecniche che hai usato.
L’intero progetto è stato sviluppato attraverso tecniche di manipolazione digitali ed analogiche. Alcune sono manipolazioni sugli archivi, altre sono immagini che ho realizzato appositamente per il progetto. La prima immagine del progetto, ad esempio, è il rito chiamato Focara che si svolge vicino Lecce che ho fotografato e documentato personalmente. L’immagine successiva, raffigurante delle donne che hanno le mani protese in avanti è una manipolazione su un archivio che ho consultato, trattandosi di un frame video di Cecilia Mangini sul Lamento Funebre. Ho manipolato l’immagine per restituire ed evocare la potenza curativa che queste donne avevano in un momento di dolore così grande per una madre, come la perdita di un figlio.
Un aspetto che viene evidenziato in questi riti, oltre a quello sacro-religioso, è il lato fortemente comunitario e di cura che si veniva (e viene) a creare durante queste pratiche. Importante è anche l’aspetto intrinseco, indivisibile tra uomo e natura che forma i cicli esistenziali e quelli vitali mediante i rituali. I riti affrontati nel progetto, ci racconta Alessia, sono quasi tutti di origine pagana e qualcuno, nonostante il passare dei secoli e le prominenti idee religiose, è riuscito a sopravvivere permettendo all’artista di documentare un mondo che ci appare assai lontano, magico e irrazionale: ma dobbiamo tenere a mente, con forza, che è un aspetto della nostra società che ha fatto parte del nostro quotidiano fino a qualche decennio fa e tutt’oggi – se pur in minoranza – persiste. Per riportare le parole del saggio “Sud e Magia” dell’antropologo Ernesto De Martino: “L’alternativa fra «magia» e «razionalità» è uno dei grandi temi da cui è nata la civiltà moderna.” Ma bisogna anche specificare che l’importanza del lavoro di Alessia Rollo non sta nella sua referenzialità riguardante il luogo scelto o il soggetto: le foto ci appaiono a-temporali, dove i corpi o le scene raffigurate sono in dei non-luoghi, luoghi senza nome e mai specificati all’interno dell’immagine: è l’anima delle culture che ne fa da cornice ambientale, permettendo un meraviglioso e misterioso risalto magico. Le varie culture e tradizioni, attraverso scorci di epifanie o teofanie sono raffigurate in un piano d’immagine che risulta immaginifico, musicale, trascendentale: il piano figurativo-estetico arriva all’occhio dell’osservatore non tanto di contesto, risulta piuttosto una metodologia estetica chiassosa, magnifica e sfarzosa, dove c’è il desiderio di porre al centro importanti discorsi culturali per decenni così mal rappresentati da occhi a cui non apparteneva la sua comprensione. Ci viene da pensare che queste immagini contengano un enigma, il cui mistero viene celato sotto questo meraviglioso, estetico strato primo. Sono immagini che creano suggestioni e arcani, ma possiamo comunque ammirarle e porci domande nei loro folgoranti misteri epifanici, tenendo piuttosto a mente una frase tratta dalla “Chimera” di Alice Rohrwacher: “ci sono cose che non sono fatte per gli occhi degli uomini”.