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“MOVIMENTO: OGGETTO = MOVIMENTO: CONCETTO”

Quando la decontestualizzazione unisce cinque artisti

 

Mercoledì 16 gennaio, presso la galleria BUILDING in via Monte di Pietà 23 a Milano, sono state inaugurate quattro mostre personali, ognuna allestita su un piano dell’edificio:

Piano Terra, “Sono venuto per caso con intenzione” di Shlomo Harush

1° piano, “Magazzino” di Hanakam & Schuller

2° piano, “Déplacement” di Daniele Marzorati

3° piano, “Only by moving” di Julius Linnenbrink

Tali esposizioni dialogano tra loro tramite il tema del movimento in senso lato e fisico, seguendo il proposito della Galleria, trasla il fil-rouge della mostra, il movimento, a livello mentale, connotandolo di un senso di leggerezza che consiglia, prepara e induce lo spettatore a una visione aperta ed elastica di quello che vedrà in seguito.

 

“Sono venuto per caso con intenzione” di Shlomo Harush

L’elasticità mentale dell’artista è legata a doppio filo con il suo vissuto e con la sua opera. Originario di Gerusalemme (1961), Harush studia fotografia presso la sua Università ma anche lingue quali inglese, ebraico, aramaico, arabo – e mi racconta tutto questo mentre si scusa per il suo italiano. Lavora a Milano dal 1990 al 1997, trasferendosi a New York nel 1998. La sua ricerca punta a mostrare la leggerezza dell’oggetto anche quando è pieno, il movimento del soggetto pur essendo scolpito. A questo scopo concorre l’interazione dell’opera sia con lo spazio sia con la luce: le ombre delle opere appese al chiodo amplificano il volume esistente, mentre le quattordici sagome ferree di soldati sono poste al centro della sala di modo che i visitatori, girandoci intorno o guardando attraverso altri spettatori in movimento, abbiano l’impressione di una marcia in corso, poi bloccata da due sculture bronzee: un elefantino e un orsetto, materialmente, cromaticamente e simbolicamente in contrasto con la schiera. Fumetti tridimensionali, i suoi disegni fendono l’aria, strizzano l’occhio allo spettatore, innescando in lui la domanda: l’ha prima disegnato o scolpito? Entrambe le ipotesi sono valide, persino l’artista quasi stenta a ricordarlo, confessa ridendo. Tra i suoi soggetti preferiti, il libro e la lampadina nuda. Il primo, connettore per eccellenza della seconda e della terza dimensione; la seconda, simbolo della sua concezione di vita e di ispirazione: al massimo della brillantezza e del rischio, data la fugacità che comporta il suo essere “scoperta” e alla sua potenza massima.

 Le sue opere riflettono sui temi del contemporaneo con umorismo quasi pirandelliano: fa sorridere e riflettere sia la vignetta dei polli pronti a tuffarsi, come in una gara, nell’olio di McDonald’s, sia la scultura in acciaio, intitolata “Black Friday”, che rappresenta una mamma canguro piena di pacchi, usare il suo marsupio (massimo simbolo materno) come ulteriore contenitore di contenitori.

 

“Déplacement” di Daniele Marzorati

La meta-arte, l’arte che riflette sul proprio linguaggio, appare evidente a un occhio attento anche nell’ultimo progetto di Daniele Marzorati (Novedrate, Como, 1988), cui l’artista ha lavorato dal 2017 tra Parigi e Shanghai. L’acquisizione della padronanza di un linguaggio plurimediatico (lavora con disegno, pittura e fotografia) lo porta alla finale del premio “Terna 04”, a pubblicare due lavori con “A-Rivista” e a vincere, nel 2015, il premio “Agarttha Arte”.

Mettendo in relazione gli aspetti legati al colonialismo francese, Marzorati si concentra sulla vegetazione, testimone-soggetto del suo ragionamento, “non solo come elemento scenografico/decorativo, ma soprattutto politico”. I luoghi coinvolti (e sconvolti) sono tre.

A Shangai, il Parco Fuxing, dove ancora crescono le prove della concessione francese della città (1849-1946): i romantici platani, alberi da boulevards per antonomasia, spiccano in netto contrasto con gli ipermoderni grattacieli autoctoni. La pratica del frottage[1], applicata sulla loro corteccia utilizzando la tecnica cinese (inchiostro nero e carta di riso), pone maggiormente l’accento sulla crasi culturale e dimensionale: la tecnica permette di render bene la tridimensionalità originale del soggetto.

A Parigi, il primo è il Jardin d’essai colonial, fondato nel 1899 per studiare scientificamente l’agricoltura coloniale, legittimandone lo sfruttamento da parte europea. Il suo attuale stato di semi-abbandono è testimoniato dall’abbraccio soffocante che il bamboo riceve dall’invadente accoglienza della vegetazione locale.

L’ultimo è il Musèe des colonies (oggi Musée national de l’histoire de l’immigration) inaugurato per l’Esposizione coloniale del 1931. Ad accogliere l’artista, all’ingresso del museo, vi è l’imponente affresco dipinto da Louis Bouquet (1885-1952), una monumentale musa nera ispirante Apollo, altresì allegoria “dell’apporto intellettuale e artistico delle colonie africane alla Francia”. Lo sminuimento dell’oggetto di ispirazione, cioè il popolo colonizzato, sembra evidenziato ulteriormente dal taglio della foto scelto da Marzorati. Tale scelta stilistica pare, inoltre, metafora del lavoro nel suo complesso: la dislocazione della testa (tagliata dal dipinto) ai piedi dell’affresco, sotto forma di scultura.

Tramite le varie tecniche usate, insieme al messaggio, l’artista espone anche il meccanismo che l’ha reso fruibile, la metafora del linguaggio artistico: dislocando un oggetto, senza modificarne la forma, esso assume un altro significato; lo stesso avviene unendo quattro immagini su uno stesso negativo o ponendo, uno accanto all’altro, due diversi tipi di piante, simbolo di due luoghi distanti sia a livello culturale che geografico

 

“Magazzino” di Hanakam & Schuller

La linea del movimento fisico-concettuale ci trasporta ancora, sino alla mostra installativa di Markus Hanakam e di Roswitha Schuller.

“Magazzino” nasce dal proposito di unire l’idea di scultura a un’esperienza interattiva. Questa coinvolge inerti oggetti di plastica – contenitori o tappi che nella dislocazione invertono la propria funzione-anima – ma anche soggetti pensanti quindi agenti nel loro assemblaggio. Infatti, in una mostra precedente gli spettatori erano stati chiamati a intervenire nel processo di composizione.

La dislocazione, anche in questa mostra, genera una nuova (de)codificazione: gli oggetti diventano “segni”, un intero alfabeto da comporre e ricomporre per trasmettere sempre nuovi messaggi. Proprio dalla comunicazione “in tempo di media” comincia la riflessione dei due artisti viennesi, i cui risultati sono stati esposti, oltre che a Vienna e a Parigi, anche negli USA (New York, Los Angeles), in Giappone (Tokyo) e in Russia (Mosca).

Tale riflessione si concretizza anche in un’altra narrazione, la visita presso una società tribale della Jacuzia (Siberia), e con un altro medium, il video. Quest’ultimo è, a detta degli stessi artisti, il miglior mezzo di comunicazione della loro ricerca la quale si basa sullo studio dell’oggetto “nella sua antica concezione[2]: come manufatto, come idolo (ad es. come strumento rituale), come oggetto da usare e quindi da muovere. Vediamo questa pratica negli oggetti portatili della nostra vita quotidiana[3], come gli smartphones; questi oggetti innescano gesti e rituali che ci erano prima sconosciuti: sliding e touching, ad esempio. Si potrebbe definirci incuriositi dall’objectology di queste cose. Inesorabilmente è qui coinvolto il consumismo, lavorando con prodotti in plastica riciclati dagli oggetti quotidiani. Questi conservano ancora una rimanenza della loro primiera funzione, cioè attirare il consumatore[4]”.

Gli abitanti della Jacuzia credono che ogni oggetto abbia un’anima e questa premessa esalta il messaggio dell’esperimento artistico realizzato durante quel viaggio: assemblare in nuove creature la manifattura locale con gli oggetti industriali occidentali, rendendo poetico un invito al riciclaggio.

 

“Only by moving” di Julius Linnenbrink

Al termine di questo viaggio concettuale, il percorso della mostra culmina in un muro di colori (per essere precisi, ogni parete ne è investita) dove il movimento è congelato nella sua esplosione: quella dell’acrilico sul supporto (intonaco o tela). Anche questa serie di opere, che paiono le più istintive e gestuali di tutta la mostra, hanno però un background (auto)riflessivo degno di spiegazione. L’artista di Düsseldorf trova che sia importante lasciarsi sedurre dalla fisicità dei materiali dal punto di vista sia di chi agisce sul dipinto, sia di chi ne subisce il risultato (il pubblico). Il pittore focalizza la sua attenzione prima dell’atto pittorico sul rapporto tra materiali e io-agente (l’artista), e poi sull’impatto del risultato sullo spettatore: al centro vi è la dimensione in cui l’artista è trasportato dal flow dell’azione pittorica. In quella dimensione non c’è condizione che tenga: è un incontro diretto tra materiali e persona del cui flusso di emozioni, convinzioni, in una parola “identità”, trovano traccia visibile anche quando non chiaramente interpretabile.

La traslazione finale della mostra nel suo complesso pone il visitatore al cospetto del proprio movimento interiore, della propria reazione: si trova insomma al cospetto di sé stesso.

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NOTE
[1] Tecnica basata sullo sfregamento; consiste nel sovrapporre un certo supporto (es. foglio di carta o tela) a una superficie in rilievo (es. in legno o in pietra o in qualsiasi materiale non liscio). Utilizzando delle matite di varia morbidezza (pastelli, gessetti, carboncini) si sfregherà il supporto, lasciando affiorare a poco a poco i rilievi della superficie sottostante.
[2] “form”
[3] “Our everyday hand-held gadgets”
[4] “as it is to attract a consumer”