Profonde sovrapposizioni d’immagini
Recentemente sono giunto alla conclusione che l’arte non ha più di una sola funzionalità. Questa, lontana da quelle deboli teorie di appagamento per la vista, appigliate instabilmente a concetti come “bellezza” ed “eternità”, trova la sua collocazione nel dolore, nel dramma, nella problematica. Potremmo sintetizzare che l’arte è il problema e non la soluzione. Per quella lasciamo agire la medicina. Dunque l’unica funzionalità che riscontro nell’arte è quella di indagine interiore, impegnata a lasciare ciascuno che vi si trovi coinvolto al suo cospetto, privo di risposte pronte che non richiedano uno sforzo doloroso, che scavi nella profondità del proprio sè, delle proprie ansie e angosce, paure e paranoie. È chiaro che la storia dell’arte ci ha anche fornito gioielli di spensieratezza e leggerezza, anche soltanto visiva, ma quanto siamo stati capaci di indagare l’immagine? Quanto siamo stati in grado di abbattere le pseudo-certezze che avevamo e mettere noi stessi nell’opera d’arte?
Per accedere alla vera e unica funzione dell’arte, perciò, sono stati individuati nel corso del tempo diverse pratiche. Qui per comodità e necessità ne verranno riportate due con l’intenzione di restituire una lettura dell’opera che sia più incerta e instabile possibile. D’altronde l’arte non ha mai dato nessuna certezza e quindi perchè dovrei farlo io? Il primo metodo viene rintracciato da Sigmund Freud, affermando semplicemente che per accedere all’inconscio e dunque avere la possibilità di ritrarre tutto quell’humus psichico di cui sopra, la “via regia” è il sogno. Il secondo è individuato dall’artista Robert Motherwell nel disegno automatico, ovvero lo “scarabocchio”.
Mentiremmo nel dire che a primo acchito e da una certa distanza l’opera Se nella notte estiva sai trovare la via di Giuditta Branconi (Sant’Omero 1998) non ci sia apparsa come una miscela di segni insensati e confusionari privi di senso e paragonabili ad uno scarabocchio, perchè è un dato di fatto. Solo affinando l’attenzione riservata al dipinto e dedicandogli un tempo di osservazione superiore ai sei secondi dell’ormai tempo standard di attenzione media della società contemporanea, riusciamo a riconoscere gli elementi e le figure che lo compongono. Ne individuiamo i soggetti umani, nove per la precisione tra ragazze e fanciulli angelici, ma rintracciamo anche animali, la vegetazione e simboli che si fondono la propria forma a decorazioni simmetriche. L’opera è effettivamente un archivio di immagini che solo apparentemente si sovrappongono liberamente per essere ricercate, per stimolare l’occhio disattento dell’osservatore contemporaneo a penetrare tra le pennellate piatte e i segni marcati. In una prospettiva assolutamente bidimensionale, in cui tutto appare realizzarsi e muoversi per scontrarsi – fisicamente e simbolicamente – su un unico piano, l’artista suggerisce appena una narrazione confusa, squilibrata e onirica, in cui ci si domanda se ciò che accade sia realmente possibile, se sta accadendo davvero, ma se soprattutto lo stiamo comprendendo.
Come dopo un sogno intenso si rimane in contemplazione fra sé e il peso del sonno che ricade sui nostri arti stanchi, l’opera ricerca la propria trama nella contemplazione, la stessa che viene richiesta all’osservatore davanti a quest’ultima, condividendo il senso dell’attesa insieme ai suoi personaggi. È proprio nell’attesa, infatti, che risiede l’impegno e il bisogno di riscoprirsi, attivando grazie a questa l’origine di immagini che sembrano restituirci il significato di ogni singolo elemento simbolico, di ogni animale e persino di ogni sguardo dipinto. Cosa si nasconde in questo giardino? Perchè rivederci negli sguardi sperduti di quelle giovani donne? Quando ho avuto lo stesso sguardo perso nel vuoto, cosa stava accadendo alla mia vita?
Dopo essersi sentiti spaesati nell’opera di Giuditta Branconi, si percepisce come una dimensione domestica, estremamente familiare, illudendoci di conoscere ogni evento e dettaglio di quella scena, dando per scontati punti cardinali incerti e ambigui, come il fanciullo disteso, forse ancora addormentato e che si risveglierà colpito da quel torpore onirico, forse invece deceduto tra la follia degli accadimenti. L’incertezza diventa figlia di un simbolismo enigmatico e impenetrabile, probabilmente fittizio, completamente casuale o privato.
Tutto, nella grande opera di Giuditta Branconi, tra colori vibranti e fitti segni è percepibile in un secondo momento. Fondendo sapientemente le connotazioni del sogno e geometrizzando la percezione dello scarabocchio, l’artista raggiunge lo scopo dell’arte, in quello che a tutti gli effetti Arthur Danto definirebbe “un sogno a occhi aperti”, in cui ricadere volontariamente per ricercare quei significati nascosti nei meandri più remoti e intimi di noi stessi.
BIO
Giuditta Branconi nasce a Sant’Omero nel 1998. Attualmente vive e lavora tra Milano e Teramo. Tra le ultime mostre alle quali ha partecipato: Haunthology, Galleria Giampaolo Abbondio, Teramo, 2023 (group exhibition); Les filles terribles, L.U.P.O., Milano, 2022 (solo exhibition); Salone d’autunno, Galleria Giovanni Bonelli, Milano, 2021 (group exhibition).