Cosa vuol dire “risiedere”?
Un confronto con Maurizio Pometti
Ci si domanda mai cosa voglia dire risiedere? Significa avere una dimora in un luogo preciso e pertanto, al fine di poter risiedere, è necessario che il luogo in questione sia predisposto ad accogliere la nostra presenza e le nostre necessità. D’altronde anche in cerca di una casa in cui trasferirsi, si tiene conto delle possibilità che questa ha di soddisfare le nostre esigenze o desideri: il numero di bagni, la grandezza della cucina, se è presente una stanza per eventuali figli, un luogo in cui smettere temporaneamente di esistere. L’Uomo ha quindi bisogno di così tanti spazi, che “risiedere” sembra quasi assumere il significato di conquistare, possedere, proprio come un impero allargava i propri confini e il proprio potere.
Risiedere è però un profondo atto di duplice proiezione, dal momento che ci si proietta nel luogo che accoglie e di riflesso quest’ultimo, sovente senza intenzionalità, si proietta in chi lo abita, nelle proprie abitudini, pratiche, sensibilità, ragionamenti e quindi nella propria totale cultura. Tutto ciò fa del risiedere una pratica di paradigmatica importanza e che dalla seconda metà del Seicento l’arte ha inserito nel suo elenco di pratiche fondamentali, benché oggi sia diventata un trend pressoché fine a se stesso. Ne deriva che, per l’artista, partecipare ad una residenza artistica sia il non plus ultra che gli restituisce istantaneamente la definizione di “artista”, che fino a poco tempo prima non attribuiva neanche se stess*.
Così, nel cavalcante mondo dell’influencer art, le residenze d’artista – per l’appunto – sono apparse come funghi nel sottobosco, ognuna con nomi altisonanti provenienti direttamente dalla maestosissima villa ospitante o dalla fondazione che tenta il proprio risveglio dal coma culturale, indicendo, appunto, una residenza artistica. Ma dove è finita la progettualità?
Il fenomeno che si delinea è la rincorsa alla riga di testo nel curriculum dell’artista, nella quale inserire il nome della residenza: fenomeno incentivato da un sistema dell’arte obnubilato dalle righe di testo, oggi valenti più del contenuto. La domanda di quei critici ancora pensati dovrebbe dunque essere: ma cosa e come rimane di tutto questo?
Per tale motivo il curatore dovrebbe conoscere il significato – specialmente filosofico e critico – del risiedere e individuare un luogo non in base al nome con cui si identifica, bensì alle necessità del luogo, che tramite l’operazione intellettuale dell’artista con cui intende lavorare, possano essere rispettate, attivando quel processo virtuoso di proiezione e generando significati culturali assoluti.
A seguito della sfilza non quantificabile di curatori e artisti intenti a ritrarsi nei più begli scorci panoramici offerti dal luogo in cui risiedono, mi domando quale sia la differenza tra loro e un* fashion blogger all’interno di un camerino di un negozio di alta moda.
Il confronto con l’artista: Maurizio Pometti
Secondo te cosa vuol dire risiedere?
È un modo per sostenere gli artisti, abbastanza contemporaneo, dato che a volte si pensa che ci sia solo la figura del collezionista che compra le opere. Poi ci sono anche residenze che durano qualche anno, quindi servono anche a dare un luogo agli artisti in cui lavorare fuori dalla propria zona di confort, il che può essere stimolante per la produzione. Tocca più rami.
E a Pagliara come è andata?
Diciamo che il lavoro era nato in un altro modo quando iniziai a fare i sopralluoghi. Poi invece si è modificato in corso d’opera. La residenza offre anche la possibilità di cambiare continuamente le proprie idee e le regole di ciò che normalmente si fa in studio. È importante per il proprio lavoro.
È possibile che un luogo possa ostacolare la residenza?
Eh si, questa è stata la sfida che ho affrontato a Pagliara, nel senso di non essere ben accettato nella comunità con un lavoro non espressamente figurativo, ma in questo è fondamentale il supporto dei curatori, che nel mio caso hanno spiegato al meglio l’idea dell’opera.
Mi incuriosisce la figura del curatore all’interno della residenza. Secondo te cosa è la residenza per il curatore?
È un rapporto un po’ simile a quello con la mostra secondo me. È lui ad invitare gli artisti ed è lui ad intuire cosa potrebbero lasciare gli artisti con la residenza.
E quindi lo scopo della collaborazione tra curatore e artista quale dovrebbe essere e quale è stato nella tua esperienza a Pagliara?
Sicuramente quello di aiutare alla lettura dell’opera, cosa che comunque fa anche l’artista, ma che il curatore sa tradurre in modo più fruibile, sicuramente questa è stata la mia esperienza a Pagliara.
Quindi il curatore la rende fruibile, ma l’artista rimane la figura che più si confà alla residenza perchè è colui che sta avendo una pratica totalmente diversa in quel momento. La pensi come me?
Di questo ne ho parlato durante la presentazione della restituzione e secondo me sono due figure complementari, anche perchè bisogna affidarsi agli addetti al lavoro. Oggi ogni cosa può essere tutto e niente, ha bisogno di regole…
Certo, perchè l’artista attiva significati. Forse è l’unico individuo a poter risiedere nella forma di residenza artistica, intendo.
Beh, questo è fuori da ogni dubbio. Io ho fatto residenza con Alessia Pietropinto che ha curato la residenza, ma la viviamo in modo diverso. Io da artista metto in opera l’ambiente e ciò che mi suggerisce. È un fare tutto diverso, un modo di vivere quel luogo in modo diverso.
Soprattutto Matteo Galbiati è stato importante per questa residenza, come vi siete trovati?
Il caldo non ha aiutato. Proprio per questa fatica è importante arrivare a delle soluzioni, che in questo caso sono state trovate insieme a Matteo, ragionando su quelle dinamiche e su come influivano in quello che stavo facendo. Quindi si è stato importante.
Certo che Pagliara è un luogo strano.
Non possiamo metterlo in discussione, è un posto molto strano, c’è veramente poco. Ma per me la cosa che subito mi ha colpito sono stati il letto del fiume prosciugato che fiancheggia il paese, il pignaro, la chiesa di S. Sebastiano che poi è stato l’elemento principale che ho ritratto, seppur l’ultimo dei soggetti che pensavo di raffigurare. Ho lavorato dentro la chiesa, anche perchè fuori c’erano quasi 50 gradi. Ho iniziato il dipinto sotto il pignaro portando con me persone che non lo avevano mai visto da vicino pur vivendo lì…
Credo che l’artista debba fare proprio questo. Ovunque c’è qualcosa, ma l’artista ha la sensibilità per rintracciarle per sé e metterle a disposizione degli altri.
Lo penso anche io.
Voglio chiederti come si divide la giornata in residenza. Scegliere quando lavorare e quando stare in giro per conoscere, nel rispetto del senso della residenza.
A Pagliara ho avuto tre settimane che sono volate. Già dal primo giorno ho iniziato a disegnare, poi ho anche conosciuto il luogo nella prima settimana. Quindi di fatto solo la seconda e la terza le ho dedicate al lavoro.
Secondo te quanto dovrebbe durare una residenza?
Questo dipende anche all’idea che ha il curatore sul progetto di residenza, ma secondo me un mese sarebbe un tempo perfetto.
Non pensi che le residenze stiano aumentando a dismisura?
Pensi ci sia il pericolo che diventi una cosa troppo inflazionata?
Più che altro credo che a volte le residenze siano come un camerino di prova di un negozio d’abbigliamento firmato, dove le luci ti fanno vedere tutto in modo perfetto, ti fanno credere che ti stia tutto perfettamente, ma poi quando torni a casa ti sta tutto di merda. Ecco penso che alcune residenze vengano messe addosso credendo che ti stiano bene, ma in realtà sono fatte un po’ banalmente. Sicuramente è importante quando c’è un progetto curatoriale dietro con una dichiarazione di intenti presenti e futuri, specialmente per continuare e non essere sporadico, perchè anche nelle forme strane c’è una visione che riflette sul risiedere. Alcune purtroppo non lo fanno minimamente. Il rischio è farlo diventare una moda.
Sicuramente bisogna vedere dove sta la qualità e se c’è un taglio curatoriale. È qui che sta la differenza.
Secondo te una residenza artistica si può fare ovunque o ci sono luoghi più forti di altri?
Beh si, anche il posto va scelto in base al progetto, perchè il posto deve parlare alle persone e all’artista.
Un pro e un contro di questa residenza?
È stata una residenza che mi ha permesso di realizzare il mio lavoro più significativo dal punto di vista spirituale. Un contro è che all’inizio non è stato semplice leggere questo luogo e il clima senza ombra di dubbio.
Quando la residenza produce qualcosa che va oltre la raffigurazione del riconoscibile estrapolato in modo troppo superficiale dal contesto, allora si fa un buon lavoro.
Era quella la mia sfida. Non volevo accontentare il gusto del posto o ciò che la gente si aspettava di vedere.