ArtInterviews

L’epifania della forma sta sul bordo della pittura

 

Il duo artistico Campostabile, composto da Mario Campo (Alcamo, 1987) e Lorena Stabile (Alcamo, 1989), ha recentemente inaugurato la mostra Il giardino delle farfalle, curata da Daniela Bigi, presso gli spazi de L’Ascensore a Palermo.
La mostra si presenta come un paesaggio di forme erranti, in perpetuo movimento, che sfidano la staticità e l’identità definitiva, anelando a diventare altro, a fondersi con l’altro, con l’ignoto. In questa quiete in moto, la pittura si dilata e si innesta su materiali extrapittorici: il tessuto blu del cielo, ad esempio, si avvolge attorno a una «grande struttura-colore» che sceglie di abitare l’altezza, cercando l’aria piuttosto che la solidità della terra. Oppure, gli «oggetti-scultura» realizzati in argilla bianca, vetro e produzioni 3D si radicano al suolo come profonde radici, offrendo sostegno alla forma geometrica sospesa e, al contempo, amplificando una visione aurorale e poetica, intrisa di una segretezza velata, in cui il primo bagliore di luce resta avvolto in un’ombra mai del tutto dissipata. Eppure, la sua essenza – quella della pittura – rimane intatta, affiorando dalle pieghe di ogni materia, come un respiro che non cessa di rinascere.

 

Carlo Corona: La tua docenza all’Accademia di Palermo, insieme alla co-direzione di «Arte e Critica», alla stesura di saggi, all’attività curatoriale e all’organizzazione di seminari e residenze, ha tessuto, insieme ad altre figure, un lavoro di semina che ha dato vita a un dialogo costante tra pensieri e artisti a Palermo. Pensando al tuo impegno nel contrastare l’idea che Palermo sia relegata ai margini, percepita come periferia della geografia dell’arte, cosa alimenta, secondo te, la resistenza di quella rete che continua a unire alcuni artisti in città, pur rimanendo silente ai più?


Daniela Bigi: Quella rete di pensieri condivisi si regge sul valore cementante di una visione comune – e forse anche di una visionarietà comune – che trova le sue radici nella convinzione che la realtà non vada subita ma quotidianamente agìta, contribuendo alla costruzione di un habitat in cui abbia senso spendere la propria vita. La resistenza di cui parli è un resistere alle spinte omologatorie degli ultimi decenni e al contempo è una precisa determinazione a voler contribuire, per la propria parte, alla formulazione dei termini di una riflessione sul senso dell’arte che non smette di porre interrogativi nell’oggi, da prospettive sia interne che esterne all’arte stessa. Si tratta di un porsi oltre i vittimismi e i complessi abbandonici, di investire sulle energie trasformative e di decidere che si è pronti a gestire il portato di una differenza. Il che non significa chiudersi nella forma presuntuosa dell’isolamento, ma pensarsi isola all’interno di un arcipelago.
La rete cui ti riferisci rivendica per l’arte quella stessa condizione di coesistenza delle differenze che si rivendica sul piano dei diritti civili. Con il desiderio e l’impegno costante nel sentirsi parte del tutto.
Potrei continuare a lungo, ma mi fermo a questo ulteriore punto, e cioè al fatto che quel resistere si nutre della consapevolezza che la storia innanzitutto, e poi il mare, le altimetrie, gli spessori, la luce, le piante, insieme ai gesti e ai riti, non sono degli optional da spendere nel marketing turistico, ma sono le componenti fisiche e simboliche di un’unica enorme risorsa che sostanzia il terreno del fare e gli scenari del pensare. Una risorsa che si chiama paesaggio, pensato come un laboratorio in costante scrittura e riscrittura, un contesto in cui le varie agency dei viventi, per dirla con Latour, si prendono continuamente cura di reinventare delle forme di equilibrio.

 

CC: Oggi, credo, è molto meno frequente parlare d’amore quando si riflette sull’arte e, benché se ne riconosca l’importanza, esso finisce per essere giudicato forse troppo languido per abitare questi discorsi. Al contrario, nel testo critico che accompagna la recente mostra di Campostabile a L’Ascensore, Il giardino delle farfalle, scrivi che, forse, vi si parla anche d’amore. Vorrei soffermarmi un istante su questa idea. In che modo la mostra affronta l’amore? L’amore di cui parli è un amore che muove, attende, esplora o interroga? Oppure è un amore che parla di incontri?


DB: Hai colto parecchie delle sfumature che in qualche modo sottintendevo. Il fatto che parlare d’amore in un progetto come questo possa risultare un po’ forte, che possa conferire al registro del discorso un sapore edulcorato o addirittura sdolcinato, deriva da una sorta di tabù formatosi, per tante ragioni, lungo il ‘900. Facciamo ancora fatica a liberarcene. In altri secoli era molto più naturale, parlando d’amore negli ambienti dell’arte (penso, tanto per fare un esempio tra i più eclatanti, alla Venezia cinquecentesca e ai Dialoghi d’amore di Leone Ebreo), comprendere immediatamente il riferimento all’eros secondo un’accezione filosofica ma anche alla dimensione dell’amicizia, oltre che, ovviamente, all’amore fisico etero e omosessuale.
Pensa al giardino filosofico di Epicuro (visto che, oltretutto, la mostra chiama in causa proprio il giardino e l’orto) e all’unione indissolubile, in quel contesto, di pensiero e amicizia…
La mostra parla dunque d’amore a tanti livelli, tanti quanti sono quelli affrontati. Vanno intuiti, vanno colti a partire da un costrutto astratto che si alimenta di una felice concretezza di materiali, di azioni e di rimandi simbolici.

 

CC: A voi, invece, chiederei di raccontare alcuni passaggi legati all’origine della vostra mostra Il giardino delle farfalle, tenutasi presso L’Ascensore e nata lo scorso luglio nell’orto di Casa Gand, sulle Madonie. Ricordo che in quel giorno d’estate, tra il caldo del sole e il fresco dei pensieri, si rifletteva su un vostro lavoro, una soft sculpture, come la definisce Daniela Bigi, collocata lungo il bordo di una porta, sulla quale avevate anche inserito una coppa che poggiava a sua volta sul “ricordo” di una mensolina, la cui rimozione aveva lasciato una sottile patina nera sul muro.


Campostabile: L’incontro di quest’estate in un’abitazione nella campagna di Polizzi, la casa di Gandolfo Pagano, architetto, designer e musicista, nasce come uno degli appuntamenti de l’Osservatorio A Tavola, uno spazio di confronto ideato da Toni Romanelli come momento di approfondimento sull’opera, sull’idea dell’opera, strettamente collegato al lavoro svolto per una quindicina di anni dall’Osservatorio Arti Visive. Un modo e un luogo in cui continuare a ridiscutere visioni e valori dell’arte. La casa di Gandolfo riflette la sua attitudine a lavorare e trasformare lo spazio che lo circonda, creando un ambiente vivo e in continua evoluzione.
Insieme ai Genuardi/Ruta, noi ci siamo inseriti in questo spazio con un approccio simbiotico. Lì abbiamo trovato un’apertura al lavoro nel rapporto sia con l’interno che con l’esterno. All’esterno, nell’orto, abbiamo inserito sculture contenitore che interagiscono con l’acqua e le piante. All’interno, ci siamo concentrati sulle cornici delle porte, che sono diventate il fulcro del nostro intervento. Il rapporto con la casa, con il giardino, gli orti è parte di noi e di come vogliamo stare al mondo.

 

Campostabile, Casa Gand, Polizzi Generosa (Parco delle Madonie, Palermo), 2024. PH Campostabile. Courtesy dell’artista.

 

CC: Come siete giunti a interrogarvi sul bordo, inteso come quel confine tra l’interno e l’esterno, un processo attraverso cui è possibile aggrapparsi ai margini di qualcosa che, per voi, ruota attorno a un’idea di pittura, seppur sospesa tra una situazione strutturale e una formale?


CS: Il lavoro nasce prima nella nostra casa/studio – in cui già si muoveva tra i passaggi e le porte – e ne prende anche le proporzioni. A Polizzi si apre a nuove domande e trova posto sostituendosi a una parte del telaio di una porta tra cucina e sala da pranzo, in un rapporto con una fenditura, causata fortuitamente, che lasciava intravedere la stanza successiva e in cui ci inseriamo con un segno pittorico ma fatto di tessuto e gomma piuma che delinea una parte, segna un confine e, al tempo stesso, un passaggio verso l’altro ambiente.

 

CC: Rimaniamo ancora un po’ sul bordo. A L’Ascensore, quel bordo lascia aperto uno spiraglio da cui si scorge un bagliore morbido, di colore giallo, velato di un respiro arcaico, che porta con sé la memoria dell’oro e di alcuni sfondi medievali, facendosi ponte verso un’antica Bisanzio, per usare una bella espressione di Jannis Kounellis. Che cos’è per voi la luce, e quale legame ha con quello che potrebbe essere un intreccio di segno, forma e colore nel vostro lavoro?


CS: A L’Ascensore decidiamo di ripartire da alcuni elementi e, se a Polizzi la luce era quella dell’ambiente della cucina, lì diventa forma e colore di un altrove astratto avvolto in un giallo che ci richiama anche l’oro. In questo lavoro, le cuciture sulla forma blu, prevalentemente piatta, creano sotto la luce una tridimensionalità e una dinamica della forma che per noi è pittorica. È una riflessione tra l’opera e l’ambiente domestico che si sviluppa in complessità attraverso vari ambienti e che continua a testarsi e porre nuovi quesiti cercando ancora ulteriori sviluppi con lo spazio, con i materiali e con la pittura.

 

CC: Gli oggetti-scultura poggiati a terra, disposti in linea a formare altre figure, condividono una relazione simbiotica, un’immagine che funge da fondamento per l’intera installazione, definendo un modo di stare al mondo. Diversi frammenti che sono, in realtà, un tutt’uno, dove un oggetto non può prescindere dall’altro, il cui significato sembra ormai perduto, pur rimanendo lì, forse provocandoci, in attesa di decodifica. Cosa sono queste forme, questi frammenti di linguaggi visivi che, pur precari, custodiscono un nodo di significati e valori?


CS: In sé sono sculture che creiamo da tempo, di materiali e forme su cui lavoriamo da sempre, per cui per noi sono molto concreti. La materia di cui sono fatti è un racconto del nostro lavoro e dell’amore di cui parla anche Daniela Bigi.

 

CC: Mi chiedevo quale connessione ci sia tra la coppa di carta esposta, sospesa al soffitto come un peso che sfida il blu del cielo nella grande «struttura-colore» in mostra, e il suo ruolo di sostegno immateriale, che sembra sorreggere l’aria pur nella sua leggerezza.


CS: Sì, la sfida al peso, con vari significati, è un intento che abbiamo avuto e che ci portiamo da sempre nel lavoro. La coppa al soffitto diventa anche come una clessidra, ribalta la mostra in una visione parallela del lavoro ed è un altro passaggio del racconto generale.

 

CC: Quello che mi colpisce in questa mostra è la sua essenza condensata, una sintesi che sembra prendere forma in una rivelazione graduale, come un segreto che si apre a poco a poco. Il vostro intento è forse più quello di suggerire, di evocare, piuttosto che di mostrare apertamente? È una sintesi di simboli, la vostra?


CS: Lo svelamento è un elemento importante in questo lavoro, anche se tutto gira su un grande punto focale; nella sintesi cerchiamo di non negare quello che chiameremmo più un percorso. Quello che ci interessa di più è parlare di pittura, di materiali, di cuciture, di spazio, di aggancio, di appoggio, di cose anche concrete e visibili, che sicuramente suggeriscono, hanno un valore evocativo, ma che innanzitutto sono lì.

 

CC: Nella sentimentalità di cui parla Bigi nel testo, ci leggo anche un rimando al modo in cui Lorena potrebbe insegnare a richiamare le farfalle, mentre ci occupiamo di un giardino che è al tempo stesso luogo e metafora. Quali sono le parole del poeta brasiliano? Cos’è, per voi, il giardino? E perché le farfalle?


CS: Se pensiamo alle farfalle, a Lorena viene in mente un atteggiamento, quello della cura del giardino che avevano i suoi genitori, un giardino folto e pieno di fiori in cui giocava da piccola e da cui le farfalle erano attirate. Minuziosità e delicatezza, bellezza e fragilità.
Il giardino è la rappresentazione dell’insieme dell’esperienza, di quello che reputiamo veramente nostro e personale. Il modo per richiamare le farfalle non è una scienza esatta, è un atteggiamento verso le cose. C’è una frase emblematica del poeta brasiliano Mario Quintana che dice: “Il segreto non è prendersi cura delle farfalle, ma prendersi cura del giardino, affinché le farfalle vengano da te”.