Attraverso l’opera
L’esperienza immersiva nella Piccola città italiana di Arnold Gross
Nell’ambito della mostra allestita presso la GAM di Catania 1968–2023. Tra figurazione e segno. Incisione e incisori dell’Accademia di Belle Arti di Catania è inserita l’opera digitale e immersiva di Giulio Interlandi e Gabriel Ardini che permette di “attraversare” – visori alla mano – l’acquaforte del 1968 di Arnold Gross dal titolo Piccola città italiana: una prospettiva quadrimensionale, una promenade estetica ed extrasensoriale.
Scrivo questo testo con intenzione poetica. Un solo foglio, un solo paesaggio, un tranche de vie in due dimensioni, una grande visione.
Poi, come per incanto un’altra, seconda e più potente: la Olasz ksvàros (Piccola città italiana, 1968) acquaforte di Arnold Gross (1929-2015) è stata ‘attraversata’ digitalmente da Giulio Interlandi e Gabriel Ardini (VR design), sonorizzata da Stefano Zorzanello (sound design), con la consulenza di Lorenzo Di Silvestro e Ambra Stazzone (creative advisor) in seno alla mostra allestita preso la GAM di Catania, dal titolo: 1968–2023. Tra figurazione e segno. Incisione e incisori dell’Accademia di belle arti di Catania, a cura di Laura Ragusa.
Non mi soffermo sui contenuti dell’esposizione, sul progetto da cui essa discende, tutte questioni ampiamente presentate al pubblico e ai lettori nelle scorse settimane. Se la musa mi assiste, parlerò della visione.
Il paesaggio urbano di Gross è estremamente affollato. Da una parte si ha l’impressione di una misura vitruviana della città europea, ma senza le solitudini siderali della prospettiva metafisica; dall’altra, in modo icastico, estremamente minuto e lenticolare, l’ungherese staglia la folla dentro e fuori le case, nei locali pubblici, sulle piazze e per le vie, lasciandosi assorbire dalle voci di fuori e dalle ‘voci di dentro’. Il suo punto di osservazione non è un artificio; per quanto mentalizzati possano apparire i suoi paesaggi e le sue vedute, educate alla pratica incisoria della scuola mitteleuropea, in realtà egli vede la gente davanti a sé, la ‘vede’ nell’accezione semantica di colui che osserva e distingue. La distinzione è talmente precisa da cogliere anche i sentimenti delle persone che, per quanto distanti, gli rivelano, ci rivelano, i propri desideri, riconducendo il lemma alla radice indoeuropea del sanscrito vid, che è anche e soprattutto il ‘vedere con la mente’.
Su questo groviglio di verbi potenti vorrei soffermarmi. Amore, desiderio e visione sono dovunque nell’opera di Gross, non solo perché lo skyline è percorso di cuori nel modo più infantile che si possa, ma perché tutto respira di uno scambievole erotismo, negli sguardi, nelle conversazioni, nelle attese alla finestra, e, soprattutto, nei voli pindarici di angeliche figure che pervadono l’aere. Parrebbe un’ordalia di cupidi ma non è: l’angelo, quell’animula che si libra verso l’alto e vaga nei cieli di Gross, è al più la mia passione, la tua, il desiderio (kama), della gente come me e te; un pensiero dunque per la persona amata, per la polis, per l’idea, più che un’incombente figura escatologica e dottrinaria. Il tutto si staglia sul bianco latteo del foglio d’incisione: una minuta pagina di 340 x 408 mm entro cui si dipana l’universo di una mattina in città. Gross, seduto al balcone del palazzo di fronte, con fogli e bozzetti appena trattenuti, non compare, il suo occhio è il mio occhio, l’occhio di chi osserva con la sigaretta in bocca, l’occhio lento delle visioni paratattiche, l’occhio acuto dei pittori all’alba dell’età moderna.
Quel medesimo occhio è trasposto da Interlandi e Ardini su di un altro piano. In uno spazio dedicato all’interno della mostra, visori alla mano è possibile entrare nel mondo lattiginoso e trasognato di Gross da una prospettiva quadrimensionale, una promenade estetica ed extrasensoriale al contempo. Etrusco Auro Metello (Michelangelo Pistoletto, 1976), con la mano avanzi fino a toccare “la brilla e i fanghilosi travi”[1] e oltre, inaspettatamente, trovi. Il balcone è lo stesso, puoi perfino sporgerti, nel bianco assoluto dei fondali vedere dispiegarsi i paramenti architettonici della Piccola città italiana col suo ritmo pulsante. Da quel privilegiato punto d’osservazione ti senti un poco indiscreto. Un uomo e una donna alla finestra conversano bisbigliando, muti; tu lo sai, di li a poco si apparteranno, lei chiuderà gli scuri della finestra lasciando all’immaginazione il resto; ma prima di farlo si volterà verso di te e ti saluterà con un lieve sorriso; il suo profilo filante ti sembrerà una scia. In ogni casa pulsa la vita, i dialoghi tra l’uomo e la donna, tra la donna e il suo gatto, le scene familiari nel fitto di una vegetazione urbana fatta di balconi fioriti e siepi in vaso. Un’altra donna si lascia cogliere dal tuo sguardo mentre altezzosa, nuda, si stiracchia le membra senza pudore. Un’altra ancora, dal corpo olimpico e tizianesco, vola ad ali spiegate di qua e di la; i suoi volteggi sono materia-memoria amorosa della madre, dell’amante, dell’amica, sono per il tuo eterno femmineo, perché no, anche quello volendo.
Ora vedi, caro lettore, cara lettrice, la vivace esperienza immersiva che ti racconto potrebbe apparire come un gioco tra i tanti; nei musei contemporanei è di moda animare la scena. Par quasi che l’opera non ci parli più se non attraverso le forme ologrammatiche che surrogano l’immaginazione. Ma alla GAM di Catania accade qualcosa di più profondo che un semplice divertissement; il lirismo che gli autori hanno saputo imprimere alla vita quotidiana di cui sarai reso partecipe, sconfina oltre lo sguardo: alzi gli occhi e i cori angelici, e gli aeroplani, e gli uccelli, tutto ti si libra innanzi sotto la cupola di un ‘cielo’ mentalizzato che iscrive la tua esperienza tra le memorabili imprese del sogno, con i suoi sfondamenti, attraversamenti, abbacinamenti, spaesamenti e stupori. È il bianco omnipervasivo e straniante di un Senza titolo alla Dough Wheeler (1969), è la Luce, luce luce di Claudio Parmeggiani (1968). Allora vedi meglio: una seconda matrice risalta, espressionista come negli Apartment Houses, Paris di Jean Dubuffet (1946) ma trasposta alla generazione successiva, vent’anni dopo la guerra. La visione sottilmente hippy, fiorita e fiammeggiante di quel 1968, sotto la lente della storia a venire, con il suo strascico dolorosissimo di ideali traditi, oggi ci appare come una laica visione paradisiaca.
1968–2023 Tra figurazione e segno.
Incisione e incisori dell’Accademia di belle arti di Catania
a cura di Laura Ragusa
Catania, GAM – Galleria d’Arte Moderna
fino al 17 marzo 2024
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[1] L. Carrol, Alice nel paese delle meraviglie e Attraverso lo specchio, a cura di M.V. Malvano, Einaudi, Torino 1978, p. 135.