INTERVISTA AD ANGELO IODICE
di Vittoria La Russa
Angelo Iodice è artista e scienziato di Barletta; vive e lavora nelle Marche. Nella sua ricerca la scienza va a braccetto con l’arte, anzi, solo attraverso l’arte la scienza può indagare a fondo quell’ignoto di cui tutti, altrimenti, avremmo un po’ timore. La sua ricerca si distingue per l’originalità dei temi e dei materiali che utilizza, dando vita a dei lavori che rispecchiano a pieno le sue idee e i suoi mondi interiori. Noi di Balloon Project lo abbiamo intervistato per conoscere il suo modo di concepire l’arte.
Chi è Angelo Iodice? Descriviti in tre aggettivi.
Sono Angelo Iodice e sono nato a Barletta. Da ciò che mi ha raccontato mia madre era una caldissima giornata di luglio del 1980. Attualmente vivo nel capoluogo marchigiano. Mi definisco un inesauribile curioso che si cimenta ad analizzare continuamente episodi o fenomeni che gli si manifestano davanti. Grazie alla mia formazione scientifica preferisco mescolare e far reagire insieme tutto ciò che mi circonda. Tutto il reale, secondo me, è fenomenico ed è per questo che cerco, attraverso il mio lavoro, di far interagire tra loro sensazioni o episodi diversi, con lo scopo di creare nuove liquide realtà, più o meno facilmente scrutabili. Una traccia di musica elettronica ballata in un club o ascoltata alle cuffie in treno, deve fare i conti con l’ultima mostra di Gauguin alla fondazione Beyeler o con l’ultimo lavoro di Haris Epaminonda o addirittura con semplici e scoloriti ricordi del mio passato. Vengono fuori dei collage meravigliosi, apparentemente destrutturati, ma carichi di legami materiali. Solitamente non è facile parlare di sé, ma quando il pensiero degli altri si incastra con il tuo allora tutto diventa più semplice. Per rispondere alla tua domanda nel modo più oggettivo, quindi, vorrei riportarti quello che qualcuno tempo fa ha scritto su di me:
“Istrionico e coerente, mette la poesia nella vita e ricava ferite sanguinanti di pensieri.
Ansioso e terapeutico, trova quello che non cerca e vuole quello che non avrà mai.
Chi sei?
Vuoi dirci chi sei dicendo chi siamo Noi, attraverso immagini che non pensavamo esistessero e che abbiamo sempre perseguito attraverso una stanza che non esiste, illuminata dalle intuizioni recondite di un folle artificiere delle immagini”.
La tua non è una formazione artistica. In che modo ti sei avvicinato al mondo dell’arte?
In realtà la mia formazione scientifica, la laurea in chimica e la tesi sulle sintesi organiche, non ha subito preso forma nel mio percorso di studi. Solo ad un certo punto della mia vita, infatti, ho deciso di intraprendere studi scientifici, ma ero consapevole che molto presto le letture fatte in passato di Euripide o Sofocle, le tele di Giuseppe De Nittis viste da bambino insieme a mio padre o la visita agli scavi archeologici di Canne della Battaglia insieme a mio zio, sarebbero tornati nella mia mente, creando profondi legami e corrispondenze che, ancora oggi, cerco di far esaltare nel mio lavoro. Quello che si è creato in questi anni è, quindi, una fitta rete dove arte e scienza si intrecciano insieme. Non riuscirei più a separarle perché ormai costituiscono quello che è autenticamente il mio stile e la sua immediata riconoscibilità.
Come sei riuscito a sintetizzare la tua provenienza scientifica nei tuoi progetti artistici?
Credo fortemente nell’idea che Scienza e Arte abbiano uno scopo comune. Entrambe mirano a decifrare l’ignoto. Orfeo scende negli inferi, si introduce fisicamente nell’ignoto, ma perde per sempre la sua Euridice, perché vinto dal suo raziocinio. Questa storia è la dimostrazione che non si può esplorare l’inconoscibile solo attraverso la scienza, ma è necessaria anche l’arte. C’è effettivamente una parte della realtà non scientificamente conoscibile, come definiva Heisenberg con il suo principio di indeterminazione. Proprio questa piccola parte, in cui risiede l’ignoto, è raggiungibile attraverso l’arte e le sue forme. In questa visione i miei studi scientifici mi hanno portato a pensare che le formule fisiche, le costanti matematiche o le funzioni d’onda da sole non mi permetterebbero di sbirciare questo “ignoto” in maniera completa. Al contrario, senza l’attrazione che ho sempre avuto per il bello e l’armonico, queste sarebbero risultate carenti o inconsistenti. Solo se combinate insieme, arte e scienza conducono a un’estasi sia spirituale che fisiologica. Da qui nasce la mia forte convinzione che l’arte indaga quello che la scienza da sola cercherebbe di esorcizzare: l’ignoto.
Da quali elementi o personaggi la tua ricerca di “artista-scienziato” prende maggiormente spunto?
Il mio lavoro è una sinergia addomesticata e calibrata di scienziati e artisti. Mi piace studiare il pensiero altrui, farlo aderire al mio e poi staccarmi per vedere cosa accade. Trovo interessante incastrare il concetto di funzione d’onda PSI di Erwin Schrödinger al pensiero di Giulio Paolini che, a sua volta, prende spunto dalla mitologia greca. Oppure partire dall’alchimia medioevale e risalire attraverso la “scogliera” dell’artista Vettor Pisani, o ancora, trascinarmi dietro tutto il mondo lynchiano fatto di doppelgänger e di realtà parallele e ritrovarmi, senza volerlo, a vagare nel fitto mare della fisica quantistica. Non saprei darti il nome di un unico mentore ma sicuramente mi piace pensare a un insieme di riferimenti, a una matassa di esperienze diverse.
Parlaci della tua ultima personale, Paraclausithyron. Come mai la scelta di questo titolo?
La cultura greca antica e la ritualità pagana caratterizzano continuamente il mio lavoro. Il titolo Paraclausithyron indica letteralmente “pianto davanti a una porta chiusa”. É il mio primo lavoro itinerante perché, per la sua riuscita, è stato necessario e funzionale lo spostamento in luoghi differenti. Il sito archeologico diventa un luogo in cui ristabilire un contatto, uno spazio dove celebrare un’antica incubazione che necessita della nostra presenza e ci obbliga a restare lì. L’unico modo per ristabilire questo contatto è servirsi della figura del dio Ermes. Egli svolge una doppia funzione: da un lato quella di psicopompo che conduce al mondo dei morti accompagnando le anime verso il campo degli asfodeli; dall’altro quella di oniropompo perché avvia al sogno. Da questa idea deriva un lavoro fatto di immagini livide e oniriche proprio per accentuare l’idea che sogno e morte sono della stessa materia.
Della mostra mi ha entusiasmato la corrispondenza tra alcuni siti archeologici italiani e la costellazione della Lira. Come è nata? Quale relazione c’è, secondo te, tra elementi dell’antichità e stelle?
Ho cominciato fotografando le rovine del parco archeologico di Helvia Recina, vicino Macerata, e poi quelle di Roma. Dato che torno spesso in Puglia non potevano mancare i resti archeologici di Canne della Battaglia (a me molto cara) e di Canosa, entrambe vicine a Barletta, mia città natale e, infine, il Parco Archeologico di Paestum ed Egnazia. A chiudere questo cerchio sono stati gli scavi archeologici di Herdonia, ultimo luogo da me visitato. A poco a poco notavo che qualcosa stava prendendo forma sia a livello visivo che alchemico. Ho cominciato, cosi, ad analizzare questi episodi e ho deciso di elencare e tracciare tutti i luoghi visitati sulla cartina dell’Italia. Magicamente si stava configurando qualcosa che assomigliava sempre di più ad una forma ben definita, simile a un trapezio con un prolungamento. Era la traccia della costellazione della Lira, strumento musicale sacro ad Ermes, nonché leitmotiv dell’intera mostra. Nel frattempo, avevo ritrovato, tra le mie cose, un’antica moneta su cui erano riportati proprio una Lira insieme a una raffigurazione di Apollo. Questa moneta è diventata un anello che porto fisso al mio dito, sciogliendo un monile in oro appartenuto a mio padre. Proprio lui è la persona a cui dedico tutto il mio lavoro. Che sia l’anello, alla fine, il sigillo che apre la porta chiusa? Credo molto negli eventi, nella loro fenomenologia e la riuscita di Paraclausithyron si nutre proprio di queste nitide coincidenze.
Leggendo il portfolio dei tuoi lavori mi ha molto colpito l’idea per cui il vuoto non coincide con il nulla, ma è l’approdo ad infinite possibilità. Questo è il fondamento della mostra del 2015, Sant’Agata e Persefone. Parlaci di questo progetto. Da chi o da cosa hai tratto ispirazione per quest’ idea?
Sant’Agata e Persefone è figlia del suo tempo. Quello è un lavoro che irrompe sul reale, dilaniandolo per cercare vie d’uscita. Ecco, dunque che gli antiluoghi precipitano nel baratro alla ricerca di qualcuno o qualcosa che mi era stato strappato via. La morte di qualcuno non è altro che la sua privazione, il suo allontanamento fisico e ciò può essere difficile da accettare perché quel qualcuno continua ad esistere nella mente, nella memoria e nel DNA di chi ha subito la sua perdita. Questo è Sant’Agata e Persefone: un gioco di lastre cromatiche che attivano delle clessidre antiche, degli gnomoni. Non cancello per nascondere qualcosa, ma per sentire l’esigenza di qualcosa di cui si ha bisogno. Per riuscire in questo mio intento ho preso spunto dalla casa del tè giapponese e dalla rappresentazione del teatro Nō come esempi perfetti di luoghi rappresentativi del vuoto e dell’inatteso. In seguito, mi sono accostato al pensiero occidentale di Martin Heidegger secondo il quale: «Il vuoto è quel momento di tempo che precede la creazione, in cui tutto è possibile». Il silenzio palpabile delle reliquie salentine fungeva da via d’accesso su quel vuoto, le stradine in penombra restituivano raffigurazioni senza tempo e tutto questo era pregno sia di paure che di coraggio nei confronti dell’ignoto. Le lastre cromatiche, da un lato scuotono e inquietano perché inverosimili, dall’altro rassicurano perché esorcizzano il vuoto, riempiendolo. Persefone si affaccia e scende verso il vuoto, ne rimane ingannata e intrappolata, ma poi risale. Magari aiutata da Sant’Agata?
Stai lavorando a nuovi progetti per il futuro?
A breve si schiuderanno due importanti momenti espositivi per il mio percorso. Ho terminato da poco la documentazione relativa al mio ultimo lavoro, Pietra Liquida. Verrà presentato in anteprima con una personale curata da Alberto Ceresoli al Vaku Project Space di Bergamo, durante la settimana di The Blank ArtDate, nel mese di novembre. Il lavoro vuole elogiare il capovolgimento degli eventi scrutabili attraverso la doppiezza dell’anagramma, ripercorribile su di un Nastro di Moebius. Ho scelto di riprendere il racconto mitico secondo cui, dal capo di serpenti di Medusa, reciso da Perseo e caduto in mare, nascevano eterni coralli. L’obiettivo è quello di creare un set art i cui protagonisti sono gli stessi coralli posti di fronte ad un antico specchio al mercurio, dunque intrappolati nella loro stessa immagine speculare. In questo lavoro ho voluto provare ad esorcizzare la dimenticanza, mia più grande paura. In questo mese di ottobre, invece, presenterò un lavoro dal titolo Del tempo e degli specchi al Tomav (Torre Moresco Centro Arti Visive) di Moresco (FM), sotto la curatela di Milena Becci. Il lavoro si sviluppa su tutti e quattro i piani della torre eptagonale ed è un generatore di doppelgänger che distorce la dimensione del reale.