Al padiglione del tè ritorna l’Oriente
di Maria Giovanna Virga
Se si è passata tutta la mattina girando tra Hyde Park e Kensington Gardens, magari cercando nel frattempo la statua di Peter Pan (il personaggio che ha reso famoso lo scrittore James Barrie), quando si arriverà alla Serpentine Gallery, sarà come raggiungere una piccola oasi fatta di pace e aria condizionata.
L’edificio riprende gli storici padiglioni da tè Vittoriani ed ospita al suo interno da ormai quarantadue anni mostre d’arte moderna e contemporanea. Per il London Festival 2012, la direttrice Julia Peyton-Jones insieme ad Hans Ulrich Obriest, co-direttore dal 2006, hanno scelto di presentare una retrospettiva dedicata all’artista giapponese Yoko Ono, dal titolo To the Light e visibile fino al 9 di Settembre.
Divenuta popolare grazie al suo legame con il leader dei Beatles, John Lennon, la stampa inglese non si è mai risparmiata nel riservarle attenzioni, collezionando così nel tempo diversi soprannomi. Da quello datole da Lennon nel 1971 al Dick Cavett Show, quando la definì “the most famous unkown-artist” (la più famosa artista sconosciuta), a quello datole dalla stampa scandalistica, che in modo provocatorio l’aveva soprannominata come la carismatica imperatrice cinese Tzu-hsi, “the Dragon Lady”.
Se il grande pubblico la ricorda principalmente come la donna che fece separare i Beatles, la critica internazionale, sembra ormai unanime nel riconoscerle dei meriti per la sua carriera artistica, tanto da conferirle diversi premi quali l’International Association of Art Critics USA nel 2001, il Leone d’oro alla Carriera dalla Biennale di Venezia nel 2009 ed il recentissimo Kokoschka Art Prize vinto a marzo di quest’anno.
Queste premesse sono probabilmente le ragioni per cui coloro che visitano la retrospettiva alla Serpentine Gallery formano un pubblico eterogeneo, composto da persone di settore, appassionati ed un numero considerevole di “gente comune”.
Prima retrospettiva dopo almeno un decennio in un’ istituzione pubblica di Londra, To the Light si articola tra le sale interne della galleria ed il giardino circostante, sviluppando un percorso ben definito che raccoglie opere differenti per scelte formali e periodo di produzione, ma che rendono esplicita la continuità delle tematiche affrontate dall’artista.
Entrando si viene subito accolti dai lavori che si sono distinti per impegno politico e sociale come Helmets (2001), Three Mounds (1999) e anche se logoro, pur sempre riconoscibile, il famosissimo manifesto War is Over (1969). Realizzato insieme a John Lennon contro la guerra nel Vietnam, venne affisso in diversi paesi e tradotto nelle rispettive lingue, diventando uno dei manifesti pacifisti più famosi all’inizio degli anni 70. Nelle altre sale si alternano video come Film no.4 (Bottom) (1966), eredità delle sperimentazioni compiute durante la collaborazione con il gruppo Fluxus, installazioni come AMAZE (1971), in plexiglass trasparente, ed opere autobiografiche come A Family Album (Blood Objects) (1993) e Vertical Memory (1997).
L’opera per cui bisogna spendere qualche parola in più, è sicuramente Cut Piece, performance in cui l’artista invitava il pubblico a tagliare i suoi vestiti con delle forbici. In mostra, una di fronte all’altra, le registrazioni della performance del 1965 a New York e la sua replica nel 2003 a Parigi. Impossibile non notare come i significati dell’opera e gli elementi che lo compongono siano mutati con il trascorrere del tempo. Nel 1965 al Carnegie Recital Hall di New York tutto sembra genuino. Le riprese traballanti documentano ciò che avviene in scena e non sembrano seguire istruzioni precise; nel mentre l’artista siede inginocchiata sul palcoscenico. Composta ed immobile, viene tradita solo dal respiro, che palesa il timore per l’imprevedibilità delle azioni a cui si espone. Persino l’atteggiamento serio e metodico con cui partecipa il pubblico appare naturale. Si assiste così ad un’azione simbolica di violazione, a tratti decisa ed invadente, su una giovane donna che privata dalla protezione e dal riserbo dei vestiti si mostra nella sua nudità. Nel 2003, invece, al teatro di Ranelagh di Parigi la popolarità dell’autrice impone che tutto sia pianificato. L’artista non indossa più abiti d’uso comune, ma siede su una sedia con un elegante completo a gonna lunga, adatto ad accontentare il maggior numero di spettatori in sala e soprattutto a prolungare la durata della performance. Dimostrazione che il pubblico ha imparato la lezione, sono gli atteggiamenti complici e disinvolti sul corpo dell’artista. Non riuscendo forse a vedere la donna matura che gli siede innanzi, ma solo la figura dell’artista, per lo spettatore che partecipa attivamente il gesto simbolico scompare a favore di quello fisico che deve compiere per avere un “feticcio” di quest’ultima.
To the Light non è la prima retrospettiva che viene dedicata a Yoko Ono e tra le tante non è quella che può vantare gli spazi più grandi, ma sicuramente si è dimostrata capace di guidare lo spettatore a comprendere i molteplici aspetti di un artista molto spesso fraintesa e sottovalutata. Probabilmente è stata questa l’eredità, nonché il fardello, più grande lasciatole da Lennon: una grande popolarità molto spesso controversa.
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(1) Installation view, Yoko Ono- TO THE LIGHT; ‘Play it with trust’ (1966) Serpentine Gallery, London © 2012 Jerry Hardman
(2) Installation view, Yoko Ono- Three Mounds (1999) & War is Over (1969) Serpentine Gallery, London © 2012 Jerry Hardman
(3) Installation view, Yoko Ono- AMAZE (1971) Serpentine Gallery, London © 2012 Jerry Hardman
(4) Installation view, Yoko Ono- A Family Album (Blood Objects) (1993) & Vertical Memory (1997) Serpentine Gallery, London © 2012 Jerry Hardman
(5) Installation view, Yoko Ono- Cut Piece (1965) & (2003) Serpentine Gallery, London © 2012 Jerry Hardman
Serpentine Gallery
London Yoko Ono – To the Light
dal 19 Giugno al 9 Settembre 2012
www.serpentinegallery.org
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