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Agire il monumento

Anna (LU) e Aurora (TO)

 

Che cosa vuol dire monumento? Etimologicamente deriva dal latino monere, cioè “trattenere”. Nella seconda accezione di significato, il verbo regge come complemento oggetto “un ricordo”. Per (e)reggere la memoria gli artisti hanno costruito nei secoli sculture dalle dimensioni imponenti, in materiale massiccio. Il peso della memoria, così rappresentato, comporta però la controindicazione di un senso di rigidità in chi li guarda, derivati da un tipo di comunicazione verticale e impositiva.

Anna – Monumento all’attenzione, prodotto e realizzato dalla Soprintendenza Archeologica, Belle Arti e Paesaggio per le province di Lucca e Massa Carrara, nell’ambito del Piano per l’Arte Contemporanea 2016 del MIC, ricorda la strage nazifascista avvenuta la notte del 12 agosto 1944 a Sant’Anna di Stazzema (LU).

L’artista Gianni Moretti risponde alla domanda “come vorresti fosse un monumento?” con la metafora di un ponte che tende una corda tra l’allora e l’adesso. Il monumento dovrebbe essere in grado di cambiare il proprio statuto, accompagnando il fruitore da una posizione di osservazione a una di attenzione.

L’attenzione – spiega l’artista – è un processo cognitivo che richiede alcune condizioni specifiche, tra le quali il fatto che il soggetto viva uno stato di prossimità e di misurabilità con l’oggetto cui presta attenzione, senza che questo venga percepito come distante, pericoloso o fuori dalla propria scala.
Quando penso a un monumento immagino una forma mobile, un organismo vivo e, come tale, soggetto al passaggio del tempo, al cambiamento e al deperimento. Penso a una forma in grado di flettersi a diverse letture, età e forme di pensiero. Penso al monumento come a un luogo di costruzione, luogo di passaggio e di cambiamento dell’angolo di illuminazione.

Il monumento abitualmente occupa molto spazio e si lascia guardare. Lo sguardo dell’osservatore però si stanca facilmente, trasformando lo stupore e l’attenzione iniziale in assuefazione e abitudine.
Il monumento dovrebbe vivere in una dimensione di limite tra ciò che si palesa alla vista e ciò che invece va cercato e scoperto, creando un costante inciampo nel quotidiano. Qualcosa che desti l’attenzione, che brilli fortissimo per un attimo, per poi scomparire e riapparire di nuovo, come un lampo o una lama
o, nel caso di Anna – Monumento all’attenzione, di un chiodo metallico, a forma di cardo, dalla testa dorata.

Nell’azione di far riemergere la testa del singolo fiore, spostando col piede le foglie che lo vanno ricoprendo col passare delle stagioni, vi è tutta la potenza del riportare alla luce il ricordo, un ricordo spinoso ma vitale. Anna Pardini è la più giovane vittima della strage di Sant’Anna di Stazzema. È stata uccisa a soli venti giorni di vita. I nazisti arrivarono da valle al paese montano, considerato protetto per la sua difficile accessibilità, attraverso quattro strade scoscese, dette “mulattiere”. Non trovando gli uomini, che si erano ritirati sulle montagne per sfuggire al rastrellamento forzato, i soldati tedeschi uccisero 560 persone tra anziani, donne e bambini.

Quando, nel 2016, Gianni Moretti ha cominciato a pensare al lavoro, ha constatato che sei anni soltanto dividevano la morte della neonata dalla nascita del proprio padre che aveva rischiato di morire pochi anni prima. Questa riflessione ha innescato un processo di assimilazione personale dell’evento da parte dell’artista, che ha deciso di piantarvi le fondamenta del progetto.

Dal giorno dell’eccidio al giorno della sua inaugurazione, 25 aprile 2018, sono trascorsi 26.919 giorni.

Il monumento è stato originariamente composto da 26.919 punti luminosi, uno per ogni giorno rubato ad Anna. Il progetto prevede che l’inflorescenza memoriale si arricchisca di altri 365 elementi per ogni anno successivo, attraverso vari appuntamenti che hanno visto sinora coinvolti gli abitanti del paese, così come il pubblico della Casa della Memoria di Milano. L’artista vi ha portato i cardi invitando chiunque, senza alcuna distinzione di età, sesso, orientamento né genere a prenderli, con l’impegno di piantarli nel paese toscano entro un anno. La nebulosa che si dipana per chilometri, lungo l’unica mulattiera ancora accessibile, come una vita che si sviluppa, continuerà a crescere, grazie all’azione delle persone che hanno deciso di piantarli e dell’azienda che si è proposta di produrli, la Giovanardi S.p.a.

La forma del cardo è stata scelta per via della sua appartenenza alla montagna e per l’associazione del piantare un ricordo come un fiore che crescerà, morirà e poi rinascerà nel suolo e nella mente di chi lo riporterà alla luce. Un’antica leggenda tedesca racconta che nel luogo dove era stato commesso un omicidio ogni giorno a mezzogiorno sarebbe cresciuto un cardo dalla forma che ricordava una persona e, non appena il cardo ne avesse assunto la forma completa con braccia, gambe e dodici teste umane, sarebbe scomparso. Un giorno un pastore con un bastone passò a mezzogiorno nel luogo dove cresceva il cardo ed il suo bastone si carbonizzò ed il braccio che reggeva il bastone si paralizzò. La simbologia cui allude questo racconto fa assumere al cardo il significato del sole e al ricordo una vividezza incandescente.

L’artista Raffaele Cirianni invece, per definire la propria idea di arte pubblica, parte da una premessa storica: il concetto classico di “arte pubblica” nasce nella seconda metà del secolo scorso, seguendo principi fortemente influenzati dal clima di cambiamento politico, sociale e ideologico che ha caratterizzato quel periodo storico. L’oggetto trasla dai luoghi istituzionali dell’arte per mostrarsi nello spazio pubblico, sviluppando delle alterità concettuali e tecniche rispetto al monumento urbano classico. Il basamento scompare, a favore di un contatto diretto con il suolo o con una parete. Questo ritrovato contatto dell’oggetto con il luogo fisico in cui sussiste sottolinea la sua funzione “site-specific” per la quale l’opera è immaginata esattamente per quel dato luogo, introducendo di conseguenza un aspetto “comunicativo” del fare artistico, in netta contrapposizione con la funzione “celebrativa” della scultura pubblica classica che – sottolinea Raffaele – è connessa inesorabilmente ad una sfera di potere.

Se queste sono le premesse di quella che è stata una vera e propria rivoluzione in campo artistico e urbanistico nelle nostre città, sento però di rispondere alla domanda “che cosa è per me oggi l’arte pubblica?” declinandola in un quesito in divenire: come immagino l’arte pubblica del futuro?

L’artista sottolinea che, per quanto rivoluzionario sia stato il percorso appena descritto, si riferisce pur sempre a un manufatto che, per quanto possa mimetizzarsi con un ambiente urbano, conserva sempre una propria “presenza” e una propria “monumentalità”, qualunque sia la motivazione che l’ha posto in quel dato luogo. L’artista invita ad immaginare “l’arte pubblica” come un fenomeno performativo e non oggettuale.

Secondo la filosofa Judith Butler ogni corpo, per come si manifesta nello spazio pubblico, assume delle differenze di privilegio “performativo”. Il potersi muovere liberamente in uno spazio pubblico assume un determinato grado di “libertà performativa” in base a ciò che un dato soggetto rappresenta in quel luogo, così è ad esempio per le donne, i migranti, i transessuali, ma non solo. Questo concetto può essere valido per ogni essere umano presente sulla Terra. Dunque il nostro camminare è sempre stata un’azione “performativa” che ha acquisito ultimamente sempre più una rilevanza artistica. Dalla scultura monumentale “celebrativa”, siamo quindi passati all’installazione site-specific “comunicativa” e successivamente al movimento “performativo” del corpo nello spazio urbano. In sintesi, l’arte pubblica ha subito una smaterializzazione progressiva, giunta al suo più sottile grado di materialità e di rappresentazione. Personalmente, oggi, immagino l’arte pubblica del futuro come una costruzione di sistemi performativi che permettano un grado di libertà di “manifestazione” sempre maggiore. Nella mia ricerca cerco di mettere in luce questo processo, sondando e cooperando totalmente con le realtà materiali e immateriali di un luogo ma soprattutto con le persone, i veri ed unici MONUMENTI che costituiscono uno spazio urbano.

Un’applicazione di quanto affermato da Raffaele è riscontrabile nel lavoro site-specific per il quartiere Aurora di Torino Ogni Aurora sulla Terra è un pezzo di sera del Sole, che l’artista ha realizzato nell’ambito della residenza VIADELLAFUCINA16, presso il Condominio-Museo nel 2020. Il nome del quartiere va ricondotto a un’antica cascina, dove oggi sorge la cosiddetta “Casa Aurora”. L’edificio, che nelle carte topografiche ottocentesche risulta come “Cascina l’Aurora”, fu trasformato nel 1869 in un opificio tessile, per ospitare, nel secolo successivo, il Gruppo Finanziario Tessile (GFT), azienda produttrice di abiti prêt-à-porter. Il titolo è rubato da una poesia scritta nel 1976 da Guido Ceronetti, un poeta torinese reso famoso, più che dai suoi versi, per via del suo ultimo atteggiamento razzista nei confronti degli immigrati provenienti dai più vari paesi che negli anni Novanta hanno ripopolato il quartiere deserto, in seguito alla chiusura dello stabilimento della FIAT e del GFT. L’economia multietnica dei bazar ha quindi sostituito la grande industria nazionale consentendo così un inaspettato continuum storico legato al settore tessile. La tendenza a produrre i propri indumenti da parte dei gruppi etnici provenienti dal continente africano ha contribuito infatti all’insediamento nel quartiere di un grandissimo numero di sartorie e negozi di tessuti.

Ciò che interessava all’artista era appunto portare alla luce questo legame tra passato e presente per attivare una relazione umana e micro-economica tra i vari Bazar e i relativi professionisti di settore che abitano il quartiere, cercando di creare in qualche modo una vera e propria piccola catena di produzione autogestita che non appiattisse ma esaltasse la ricchezza delle culture partecipanti. Il piano orizzontale del progetto ha richiamato immediatamente, nella mente dell’artista, la dimensione magica, infantile ed esotica del tappeto. L’oggetto finale ha la forma del quartiere Aurora che, vista dall’alto, assomiglia all’ingresso di una moschea. I motivi che la compongono sono tratti dalla tradizione berbera, così come i tessuti, tipici degli abiti da cerimonia nordafricani. La tecnica di realizzazione del tappeto è invece sartoriale e si connette alla storia dell’abito confezionato italiano risalente agli anni Sessanta.

Il passato deve essere non solo vissuto ma agito nel presente come uno strumento di riflessione e di relazione. L’alternativa è guardare al passato – e all’arte – come a uno scrigno composto da specchi, bellissimo e misterioso. La tendenza è di ammirarlo esternamente, per paura che, aprendolo, non sapremmo cosa fare del suo contenuto. In effetti però la storia, così come l’arte, – riprendendo una citazione di Vladimir Majakovskij – non sono «uno specchio cui riflettere il mondo, ma un martello con cui scolpirlo».

 

 

Gianni Moretti

Anna. Monumento all’Attenzione

Responsabile del progetto: Luigi Ficacci

In collaborazione con: Parco Nazionale della Pace di Sant’Anna di Stazzema, Museo Storico di Sant’Anna di Stazzema, Associazione Martiri di Sant’Anna, Comune di Stazzema, Comune di Camaiore, Comune di Pietrasanta, Montrasio Arte Monza e Milano.
Supporto tecnico di Giovanardi s.p.a.
Documentazione fotografica di Fosca Piccinelli
Documentazione video di Patrizia Emma Scialpi