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Abiti d’artista:

una collezione sui generis

 

Nel cuore della Calabria si trova il castello normanno di Rende, insospettabile scrigno dell’unica collezione permanente d’arte contemporanea della regione. Il museo Roberto Bilotti Ruggi D’Aragona, che prende il nome dal suo fondatore, ospita più di trecento opere del XX e XXI secolo, derivanti in larga parte dalla collezione di famiglia e da donazioni private di artisti e collezionisti. Il museo nasce con l’intento di omaggiare le figure di origine calabrese che si sono distinte all’interno del sistema internazionale dell’arte contemporanea. Tra queste spiccano la storica direttrice della GNAM di Roma,  Palma Bucarelli e gli artisti: Umberto Boccioni, Mario Ceroli, Vettor Pisani, Piero Dorazio, Gino Severini, Mimmo Rotella, Simona Weller e molti altri. Il museo si è poi aperto alle ricerche più attuali, dedicando intere sale agli artisti italiani emergenti e mid-career, tra i quali Pietro Ruffo, Maurizio Savini, Guendalina Salini e Chiara Dynys.

La vera sorpresa di questa collezione è la sezione dedicata agli abiti d’artista, una raccolta unica in Italia sia per numero di esemplari che per l’arco temporale che questi coprono. Nel maggio 1914 Giacomo Balla firma il Manifesto del vestito maschile futurista, in cui si afferma che nuove stoffe geometriche, caratterizzate da tagli spigolosi e colori audaci, avrebbero espresso libertà e dinamismo; come dimostrano Giacca e Vestito antineutrali presenti in collezione.

Andy Warhol con Souper dress (1960) ci mostra come moda, arte e industria possano fondersi in un’unica immagine. Si tratta di un abito dalla linea dritta in carta, cellulosa e cotone, raffigurante l’immagine in sequenza della nota lattina di zuppa Campbell’s.

 

Souper dress, 1960, Andy Warhol

 

L’abito concettuale di Vettor Pisani, realizzato in occasione della mostra Cibo interpretato (2018), ci parla di una psicopatologia alimentare. Una opulenta imbottitura in stoffa e gommapiuma simula il peso corporeo di una donna bulimica che, nella performance, tenta di liberarsene.

 

Performance Cibo interpretato, Vettor Pisani, 2018

 

Quella dell’abito è un’immagine ricorrente nella poetica pop di Giosetta Fioroni; in collezione Bilotti sono presenti due abiti contraddistinti dal suo alfabeto lirico, realizzati con stencil e bombolette spray. Il Terzo Paradiso di Michelangelo Pistoletto si declina nella forma di un mantello bianco ricoperto da una miriade di bottoni dai toni caldi.  L’artista identifica il bottone come elemento capace di unire e dividere i poli opposti del maschile e del femminile, risultando così perfettamente aderente al concetto di rinascita, alla base della sua poetica.

 

Pistoletto, mantello Terzo Paradiso indossato da Silvia Scaringella

 

Emilio Isgrò, cancellando tutte le parole di quello che era un testo, tratta l’abito come fosse tela bianca, trasformando le parole in macchie informi.

La parte più cospicua della collezione è dovuta alla donazione di Anna Paparatti. La donna, nata a Reggio Calabria, dopo aver frequentato Scenografia all’Accademia di Belle Arti di Roma con Toti Scialoja, scopre Fabio Sargentini attraverso Pino Pascali, suo caro amico. Tra gli anni Sessanta e Settanta, Paparatti e Sargentini, compagni di vita, vedranno nascere l’Attico. “Ho dipinto tanto, ho esposto poco e ho venduto niente”, afferma Anna, probabile anello mancante della pop art italiana. Ricoprendo il ruolo di grafica della galleria, non ottenne mai il riconoscimento pubblico che la sua arte avrebbe meritato. Suo principale mezzo d’espressione era il suo l’abbigliamento, tramite il quale poteva dare sfogo alla sua indole artistica. Anna Paparatti è stata musa ispiratrice di molti artisti che gravitarono intorno alla galleria, i quali spesso realizzarono abiti su misura per lei, rendendola un’opera d’arte vivente. La moda sarà strumento essenziale nei progetti performativi di una generazione di artisti che avrebbe segnato un’epoca. Luca Patella le dedica un abito, disegnando su una tunica del Rajasthan, la sua caratteristica dedica spiralica, poetica e multicolore. Anna nel 1966, durante l’inaugurazione della mostra personale di Jannis Kounellis alla Tartaruga, indossò l’abito dalla grande margherita nera che l’artista e sua moglie Efi avevano disegnato per lei.

 

Anna Paparatti indossa creazione di Jannis Kounellis ed Efi, 1966

 

“Dovevo semplicemente indossarlo e girare tutta la sera per il vernissage, un po’ come se il fiore fosse uscito, si fosse staccato dalla parete, da un suo quadro e si fosse posato sul mio vestito. Ero praticamente un quadro vivente di Kounellis.” (Arte-vita a Roma negli anni ’60 e ’70 Anna Paparatti, la pitturessa 2015 pag. 110) Hidetoshi Nagasawa, rievocando l’installazione realizzata negli anni Settanta all’Attico, le dedica cinque abiti bianchi e neri, sui quali lastre di rame si intersecano e si sovrappongono ai tessuti. La materia metallica perde massa e levita in sospensione sul tessuto, divenendo così opera di body art, sulla scia dell’esperienza Gutai.

Luigi Ontani le dedica due abiti in seta indiana trapuntata. Il primo, composto da tre grandi foglie, impone una nuova ritmica spirituale dei colori: verde alchemico, giallo solare e viola mistico. Del tutto avulso da ogni riferimento occidentale, appare anche il secondo abito che si compone di tre scudi allineati, cui si sovrappone l’occhio egizio di Horus, simbolo di chiaroveggenza.

Della Scuola Romana, Giancarlo Limoni dedica ad Anna un abito che si compone di materia densa e grumosa: un mantello affastellato di rami di rose e dissonanze di segni.

Bruno Ceccobelli dipinge il simbolo dei mandala, centrali nella poetica di Paparatti, ricoprendo la veste con stampe fossili. Altra sua creazione è una stella di guanti realizzata con federe da cuscino, su cui, cuciti, prendono forma i sogni.

Ultimo abito è Anna dei coralli, creazione di Pizzi Cannella, un lungo abito bianco su cui corrono file di coralli rossi. I vestiti sono centrali nella poetica dell’artista, spesso riferiti all’identità muliebre delle protagoniste che si cela tra le loro pieghe.

La storia artistica della Paparatti è stata improvvisamente rianimata nel 2021 da Alessio de’ Navasques con la mostra “Il Grande Gioco”, realizzata presso lo Spazio Eddart di Roma. In questa occasione Maria Grazia Chiuri, direttrice creativa di Dior, ha scoperto e poi coinvolto l’artista per dare forma alla spettacolare scenografia della collezione Primavera-Estate 2022 della maison. Paparatti ha scelto d’ispirarsi alla dimensione ludica del gioco da tavola. La passerella si sviluppava in un percorso spiraliforme e caotico, costituito da novantasette caselle che riprendevano il famoso Gioco dell’Oca, qui declinato in una logica dichiaratamente Pop.

 

Collezione primavera-estate 2022 Dior

 

Un interrogativo sorge spontaneo: la creazione del setting per una sfilata può essere definita una committenza culturale oppure risulta una semplice appropriazione a scopo commerciale? Probabilmente entrambe le cose, reciproci sono i vantaggi per l’artista e la casa di moda.

Da quando nel 2016 Chiuri è diventata direttrice artistica di Dior, l’arte contemporanea è stata spesso protagonista nelle sue sfilate; lo testimonia la collezione primavera-estate del 2018, ispirata al Giardino dei Tarocchi di Niki De Saint-Phalle.