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Intervista a Federico De Leonardis

 

Chi è Federico De Leonardis?

Bah? Uno che non sa vivere, che se non si rintana tutti i giorni in un certo posto chiamato studio (di che?), abbastanza lontano da casa perché sua moglie e i suoi figli non gli rompano le scatole, ma non troppo per poter tornare la sera a romopere lui le scatole agli altri, dà di matto. Il detto oraziano “Non coelum sed animum mutat” calza a pennello con la sua psicologia: il secondo è più o meno sempre nero, ma gli consiglia di non muoversi a cercare altrove l’azzurro del primo. Odia il turismo, da lui considerato un cancro epocale: non ha torto, perché oggi trovi lattine di cocacola perfino nel più remoto e profondo Sahara. Non ce l’ha con la famosa bevanda ma col bipede che la beve, il famoso discendente dell’uomo di Cro-Magnon, che nel giro di pochi anni ha estinto il suo consimile di Neanderthal (sarà un caso? Non continua a cannibalare i propri simili?). Contuttociò tutti i giorni arranca faticosamente sulle due ruote mosse dalle sue gambe per raggiungere il posto di cui sopra, arrivato nel quale viene subito preso dalla voglia di tornare indietro: che ci faccio qui? Poi si stende su una branda e guarda il soffitto: l’ozio, definito il padre dei vizi, stranamente per lui è produttivo.

 

Ci parli della sua ricerca.

Sul soffitto di cui sopra scopre, a volte dei geroglifici strani e crede di vedere le parole di Picasso: “Io non cerco, trovo”, piuttosto che quelle di Duchamp: “In arte non esistono problemi, ma soluzioni”. Tutti e due se la sono cavata facilmente, è indiscutibile, ma anche lui non è da meno: frugandosi in tasca ha trovato una bustina di quelle con cui zuccheriamo il caffé; c’era scritto: “solo i migliori fanno progressi, gli artisti fanno capolavori”. Allora si è alzato e ne ha fatto anche lui uno (con permesso parlando): l’ha chiamato “Tagliatella” (o meglio, glielo ha affibiato quella peste di sua moglie e lui lo ha adottato: l’arte con la A maiuscola non gli piace proprio). Soprattutto non gli piace chiaccherarne. Della propria poi!

 

C’è stato un evento che ha segnato una svolta nella tua ricerca?

Maiuscolo, per favore, Sua e non tua: l’italiano, pratica nella quale lui ama definirsi – non essendo il suo mestiere, pensa, a torto, di poterselo concedere – un maestro, vuole una certa coerenza: caro Giuseppe, se usi il sua per tutta l’intervista, perché improvvisamente mi sento dare del tu? Sono molto irritato, non per il tu, ma per l’italiano. Non voglio esagerare per un refuso: è per passare al tu, con il quale è più facile mandarsi a fare un culo. Comunque per non eludere la domanda devo riferire un’episodio increscioso:

Un giorno, accompagnando mia mamma non mi ricordo dove, stavo molto attento a quanto diceva (Mamà aveva un certo carisma per me, al punto che quando è morta -giovane- sono caduto in depressione e per cinque anni mi sono dovuto stendere su un lettino (dietro ci stava una tizia), che poi ho sostituito con quello personale del mio studio). Troppo attento: improvvisamente ho sbattuto la testa contro una sporgenza di ferro atta a sostenere una qualche tenda. Naturalmente ho visto le stelle, giuro, e in mezzo alle stelle un vuoto infinito, Il Vuoto: Dio mi ha messo un dito sulla testa: era quello che diceva sempre lei!

 

Incasso il colpo e torno a darle del “lei”. Giocare con il linguaggio, alternando il “tu” al “lei” voleva essere un modo per parlare di linguaggio, tematica affrontata all’interno della collettiva “Attraverso Parole” che verrà inaugurata il prossimo 19 giugno presso la Fondazione La Verde La Malfa – Parco dell’Arte. Prima però di parlare della mostra, vorrei farle un domanda sul suo modus operandi. Come “definirebbe” il suo lavoro?

Definire il proprio lavoro è la cosa più stupida che possa fare un artista. Vuoi farmi uno sgambetto? E’ vero, io non mi definisco tale (ci mancherebbe!) e quindi se non fosse una cosa molto pericolosa anche per un manovale potrei risponderealla domanda. Lo vuoi proprio sapere? Il mio lavoro e quello del manovale, ma della mano sinistra.

 

Cosa ne pensa del panorama artistico italiano?

Ti ringrazio per questa domanda: mi inviti a nozze. Senonché, a pensarci bene è un po’ difficile rispondere e rimando al mio blog, che tengo da più di cinque anni (un paio di post al mese, un lavoraccio!). Si chiama “Fuori dai denti” e lo si può trovare su internet (www.deleonardistudio.com sotto publications, sotto tumblr). Nell’ultimo, anzi nel penultimo (si chiama Giovanni Anselmo alla Manica lunga di Rivoli -Torino) sintetizzo il mio pensiero in proposito. Non posso ripetermi qui, ci sono i diritti d’autore, i miei, e quindi d’Autore. Si sappia solo che ho avuto il commento felice dell’interessato: si era divertito. Voi forse meno, perché non la mando a dire a nessuno.

 

Il prossimo 19 giugno s’inaugurerà presso la Fondazione La Verde La Malfa – Parco dell’arte la collettiva co-organizzata dalla Galleria Michela Rizzo, a cura di Giuseppina Radice, “Attraverso Parole” cui lei parteciperà esponendo i suoi lavori insieme a quelli di Fabio Mauri e Aldo Runfola. Ci parli di questa mostra e di questa collaborazione con l’istituzione siciliana presieduta dal prof. Alfredo La Malfa.

Qui devo essere serio (finalmente!), sono in casa d’altri:

Fibrillo, sono emozionato: in cotale compagnia! Veramente il secondo lo conosco poco e quindi di lui non posso parlare (ma mi fido di Michela Rizzo). Del primo vorrei, ma anche qui devo deludere chi mi legge: ho già scritto su di lui, sempre in Fuori dai denti, un post in occasione della sua grande personale a Palazzo Reale di Milano: una bomba fatta scoppiare da un grande artista con l’aiuto del fratello Achille (lui era già morto, poveretto, e non ne ha potuto vedere l’effetto): quello su di me lo potete trovare cliccando su Archive (in rosso), è del     del… Quindi ci sono tutte le premesse perché la mostra riesca come si deve. Almeno io ce la metto tutta.

Per non deludere completamente sia l’intervistatore che coloro che mi hanno seguito fin qui, dirò che in campo visivo per me la parola vale solo se cancellata, accennata, “charadata”, chiamatela come volete (parlo del linguaggio visivo, sia ben chiaro, perché come avrete potuto constatare, nel letterario mi concedo di sproloquiare!). In quello che passa, prima, a mezzo della luce, subordinato cioè al sacrosanto “colpo d’occhio”, essendo che l’arte deve essere liberazione (sia pur dopo l’asciata di Kafka nel mare di ghiaccio nel nostro foro interiore), bisogna stare molto attenti: c’è troppa letteratura oggi in giro: la pratica è stata inaugurata cent’anni fa dai surrealisti e dai dada e allora fece anche del bene. Oggi, dopo cent’anni, contribuisce a soffocarci. Ancora vorrei rimandare al mio blog, dove spesso me la prendo col fatto che si è perso il concetto di specificità e di autonomia del linguaggio, ma non voglio lasciare a boccasciutta nessuno (sono un provocatore, lo avrete capito). Siccome il discorso è complicato e quanto affermo perentoriamente può procurarmi le ire di molti intellettuali, metto le mani avanti e dirò subito che considero Vincenzo Agnetti uno dei più grandi artisti del Novecento. Lui usava le parole, giocava con le parole, ma aveva un’altissimo rispetto per gli occhi: in sintesi, ha portato il cervello, che spesso viene cortocircuitato dal verbo, a una distanza veramente infinitesimale dall’organo principe dei nostri sensi e non lo prevarica mai. A quella distanza si sente battere il tempo, un tempo lungo, di eoni, o quello brevissimo del ritmo di un metronomo. Non dico altro. Per evitare il tranello.

 

Ha già qualche nuovo impegno per i prossimi mesi? A cosa sta lavorando?

Dopo l’inaugurazione alla Fondazione mi trasferirò a Gibellina, dove sono richiesto per un piccolo intervento in loco presso il gigantesco Cretto. Anch’io (sono uno scultore) ho in mente di scolpire, incidere: la terra, la tremenda madre terra. Il mio lavoro rimarrà lì e non teme terremoti.

 

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(Copertina) Federico De Leonardis, “Tagliatella” (courtesy Galleria Continua)

(2) Federico De Leonardis, “Tampone Rien ne va plus”

(3) Federico De Leonardis, “Ossa di S. da Rilke (VI Elegia duinese)”