L’autoproduzione di “edizioni” che fanno capo a progetti curatoriali o espositivi, a gruppi di artisti, fotografi, curatori, addetti ai lavori mette nero su bianco l’attuale condizione della produzione culturale italiana e straniera. Questo scritto analizza i diversi approcci al “farsi un libro” che sia capace non solo di raccontare un percorso artistico ma che sia esso stesso un prodotto artistico.
La diffusione del mezzo tecnologico di stampa da un lato e il ritorno alla copia numerata hanno dato origine a nuovo sistema editoriale alternativo con codici stilistici e contenuti innovativi e fortemente sperimentali.
Valentina Lucia Barbagallo e Giuseppe Mendolia Calella
FETISH TO FLOW
di Zoe De Luca*
Il termine magazine deriva dall’arabo e significa magazzino, in quanto contenitore di informazioni sotto forma di testi ed immagini.
Il termine fanzine nasce dall’unione delle parole fan e magazine e venne coniato nel 1940 da Russell Chauvenet, campione di scacchi e fondatore del Science Fiction Fandom; nel 1949 il vocabolo compariva nell’Oxford English Dictionary ed era già di uso comune.
L’ulteriore abbreviazione zine invece, venne introdotta alla fine degli anni ’60, qualificando a pieno titolo le edizioni di produzione amatoriale e diffusione a corto raggio nello slang giovanile.
Nonostante sia complesso dare una precisa definizione al termine fanzine, dato il problema di collocazione in uno specifico contesto storico al di sopra del quale esso si trova, lo possiamo genericamente circoscrivere a pubblicazione non ufficiale, dilettantesca e politicamente consapevole, in grado di formare un network comunicativo per il sapere alternativo, ondeggiando tra cause ed effetti, assodato e supposto, masse e minoranze, cultura e controcultura. Come disse Janice Cari Goldberg, le zine sono “tutto ciò che è pubblicato su basi non commerciali; ognuno può pubblicarne una, e questa è la sua principale attrattiva.”[1] Le fanzines sono una forma di comunicazione spontanea, che trova posto nella storia della comunicazione e del giornalismo, dell’arte e della cultura popolare: sono un’ininterrotta documentazione della storia sociale incorniciata in contesti politici, economici e sociali. Esistono in quanto genuine voci al di fuori della manipolazione di massa, e meritano di essere ascoltate.[2]
Contemporaneamente alla pubblicazione di questo testo ricorre il primo centenario del Dadaismo, movimento avanguardista fondato al Cabaret Voltaire, piccola e fumosa taverna in Spiegelstraße a Zurigo. Fondato da Hugo Ball e Emmy Hennings nel febbraio 1916, il Cabaret Voltaire divenne ben presto il ritrovo di artisti ed intellettuali rifugiati nella Svizzera neutrale in attesa della fine della Prima Guerra Mondiale; una serie di personalità forti e diverse vi teneva banco ogni sera, discutendo le necessità, gli obbiettivi ed il potenziale dell’arte in un momento di incertezza mondiale, dove ogni cosa stava per essere messa in discussione.
Nonostante il sistema dell’editoria sia stato costantemente alimentato da iniziative minori, sotterranee e dichiaratamente clandestine, è probabilmente all’inizio del Novecento che queste iniziarono ad apparire con minore inibizione e con maggiore regolarità sulla carta stampata – o quantomeno, questo è ciò che è possibile evincere, vista la peculiarità delle pubblicazioni non istituzionali di circolare nelle nicchie, sfuggendo così a diverse panoramiche del fenomeno. Inoltre, a partire dal ventesimo secolo, una combinazione di nuovi approcci teorici e mezzi tecnologici generò una proliferazione di documenti di ogni sorta: furono proprio questi a fomentare quel turbolento movimento chiamato Modernismo. In quel primo quarto di secolo erano molte, infatti, le minoranze culturali in cerca di uno spazio di libera manifestazione, fosse essa artistica, politica o sociale: nel caso dei Dadaisti, le pubblicazioni Cabaret Voltaire, Dada, Der Dada, 391, The Blind Man, Rongwrong, New York Dada, Bulletin Dada, Dadaphone e Le Cannibale, servirono a delineare il manifesto che man mano si espandeva, fedele specchio dei rispettivi contesti sociali e culturali. Divennero piattaforma di scambio, discussione e sperimentazione, definendo un immaginario e la sua conseguente stilizzazione; un medium per esplorare le relazioni tra testo, immagine e grafica, fornendo all’evoluzione di questi movimenti una documentazione esaustiva.
Volendo tracciare un parallelismo storico tra ‘editorie generazionali’, le pubblicazioni d’avanguardia dell’inizio del ventesimo secolo sono, con ogni probabilità, quanto di più simile alla concezione contemporanea di editoria indipendente, e nello specifico della pubblicazione DIY. Nico Ordway definisce i giornali autoprodotti da artisti Dada come le prime proto fanzines, pubblicate per il piacere dei creatori e per la provocazione dei lettori, ignorando o criticando ironicamente ogni canone o standard giornalistico precostituito.[3] Tra le pubblicazioni più rilevanti in questa sede c’è sicuramente Cabaret Voltaire: fondata da Ball nel 1916, fu la prima pubblicazione direttamente associata al movimento Dada. Chiamata come l’omonimo ritrovo, la rivista conteneva materiale di giovani artisti dada, futuristi e cubisti di Zurigo. Testi di Tzara, collage di Hennings, disegni di Janco e un arazzo di Täuber vennero stampati in un quadernino di appena trenta pagine, accompagnato da un’edizione limitata di incisioni colorate a mano. Quando la taverna fu costretta a chiudere, gran parte della sua clientela abituale migrò verso una galleria in Bahnhofstraße, abbandonando anche il progetto editoriale, immediatamente dopo la sua prima uscita. Ma vi furono altre edizioni a passarsi il testimone del movimento nel corso degli anni; nel 1917 Tzara fondò DADA, una ‘Miscellanea di Arte e Letteratura’ che raccoglieva contributi di artisti ed intellettuali provenienti da tutta Europa come De Chirico, Delaunay, Kandinsky. Fu la volontà di Tzara di promulgare in ogni modo la corrente Dada che lo spinse a raccogliere l’eredità di Ball, nel frattempo emigrato dalla Svizzera. Ball non era l’unico ad aver abbandonato l’Europa: anche Duchamp e Picabia si erano da tempo spostati a New York. Qui Alfred Stieglitz dirigeva 291, una galleria la cui programmazione era accompagnata dall’omonimo magazine al quale collaboravano Marius de Zayas, Paul Haviland e Agnes Ernest Meyer. Fu proprio a questa pubblicazione che Picabia si isprirò provocatoriamente per fondare 391; in questo magazine raccolse scritti di Max Jacob, dipinti di Laurencin e Ribemont-Dessaignes e contributi di Edgar Varese, dando il via al magazine dadaista più longevo del suo tempo. Negli stessi anni Duchamp entrò a far parte della Society of Independent Artists, che lo avrebbe portato alla creazione del progetto editoriale che forse meglio rispecchia lo spirito di quest’epoca. Il pensiero sul quale si basava l’attività della società, fondata a New York nel 1916 da Katherine Sophie Dreier e un gruppo di giovani artisti, era la volontà di creare una scena artistica fatta di mostre senza giurie ne’ premi; Duchamp ne venne a tal punto influenzato da creare The Blind Man, una rivista alla quale tutti potessero partecipare, mandando ogni tipo di materiale senza timore di vederlo respinto o censurato; la copertina del primo numero recitava “The second number of The Blind Man will appear as soon as YOU have sent sufficient material for it“[4]. E anche se nell’impeto creativo Duchamp aveva dimenticato di stampare all’interno del giornale un indirizzo a cui i lettori potessero spedire le loro candidature, una stampa last minute di adesivi minimizzò la svista. The Blind Man non fu mai catalogato come magazine Dada, ma venne da subito considerato il primo giornale del movimento nella sua sede newyorchese. La sua fine arrivò nel 1917 con una partita a scacchi: premesso che a New York non c’era spazio per due riviste Dada, Duchamp sfidò a scacchi Picabia: il vincitore avrebbe assunto a pieno titolo l’esclusiva editoriale dadaista. Fu Picabia a vincere, assicurando a 391 altri sei anni di vita.
Forse in quest’ultimo decennio non abbiamo ancora assistito alla nascita di movimenti paragonabili al Dadaismo, ma di certo l’attuale generazione di artisti e addetti ai lavori ha un grande, inevitabile argomento sul quale attuare una speculazione corale: il 2.0[5]. Nell’ambito dell’editoria, anche se il progresso tecnologico ha contestato l’egemonia della carta stampata – al punto di averne inizialmente minacciato il declino – ci sono più aspetti da considerare: la digitalizzazione ha certamente confutato la posizione del medium, ma lo ha anche portato ad una svolta comunicativa. Come l’introduzione della stampa a caratteri mobili portò la rivoluzione gutenberghiana, ampliando la diffusione di manoscritti ad un pubblico più vasto, anche la frontiera della pubblicazione online ha portato innegabili vantaggi nell’universo delle pubblicazioni indipendenti.
Dopo cinquecento anni di monopolio tecnico nel processo editoriale, l’abbattimento dei costi di stampa, dei tempi di spedizione e del dilemma dello stoccaggio hanno dato inizio ad un’era in cui i modelli del sistema economico sono stati nuovamente messi in discussione. Da una parte i vari network hanno evoluto il concetto stesso di pubblicazione, attribuendovi parametri piú complessi di autorialitá ed esposizione; dall’altra hanno moltiplicato all’ennesima potenza le possibilitá promozione, archiviazione e diffusione. Superfluo quindi ricordare che, mentre il signor Charkin passa quattro quinti del suo tempo a preoccuparsi della tecnologia[6], l’assenza delle risorse sopraelencate avrebbe reso la ricerca a monte di questo testo un’impresa utopica nei tempi di un’open call.
L’evoluzione tecnologica degli ultimi anni non ha solo influenzato la quotidianità con la digitalizzazione, ma anche attraverso la democratizzazione dei processi produttivi: oggi chiunque può avere accesso a servizi di stampa e legatoria e a software di vario tipo gratuiti, economici o hackerabili. Quindi la disponibilità di dati ha permesso la diffusione di diverse pratiche artistiche, mentre quella dei metodi necessari a crearle ha conferito alla sperimentazione individuale un potenziale inedito; la graduale smaterializzazione del supporto[7] è così andata di pari passo con una feticizzazione delle varianti in cui questo può venire rappresentato. Questa tendenza antinomica ha tracciato un link più solido e fecondo tra editoria e design, a volte anche a discapito dell’efficienza e della praticità che quest’epoca insegue con tanto affanno; l’industria musicale, con l’ormai simultanea produzione di mp3 e vinili, é un lampante esempio di questo paradosso. Come sosteneva Alison Piepmeier in un articolo sulla matericità delle zines e del loro iter di creazione: “le zines d’artista sono fondamentalmente oggetti d’arte, e in una cultura che celebra l’immediatezza, i produttori di zines scelgono di prendere parte ad un processo deliberatamente disordinato, inefficiente, ed intenso; scelgono di prendere parte di un processo artistico“[8].
Ma chi é oggi il cosiddetto ‘artista’ che prende parte a questo processo?
Se già negli anni ‘60 il boom delle zine aveva stemperato il confine tra autori e lettori, la democratizzazione dei mezzi avvenuta negli ultimi vent’anni ha portato ad un’ulteriore ibridazione e ad un’autentica leva di prosumer; ora non esistono più categorie ben distinte, e l’iniziale considerazione di Janice Cari Goldberg è straordinariamente attuale. Il numero di produttori di contenuti è aumentato, mentre la possibilità di visionare e confrontare tutto, ed in qualsiasi momento, ha portato questa ormai affollata categoria a livelli di ‘critica popolare’ mai raggiunti prima: sfogliando un magazine o leggendo un post possiamo assistere a come i loro creatori vedano attraverso l’operazione ideologica stessa, praticando un criticismo culturale e vernacolare[9]. Una volta metabolizzato il fatto che i supporti fisici e digitali sono due entitá autonome e non commutabili, questa nuova generazione di tuttologi le ha portate ad alti livelli di sperimentazione, rendendole realtà complementari e in dialogo. La regolare pubblicazione di materiale su entrambi i canali ha poi offerto all’editoria – indipendente e non – una notevole visibilità, scrollandole parzialmente di dosso l’etichetta di interesse di nicchia. Fiere, festival, workshop, tavole rotonde, e veri e propri indirizzi di studio proliferano, mettendo quasi in discussione il concetto underground per via di questa improvvisa popolarità. Oggi l’editoria DIY gode di un grande seguito e parla ad un pubblico molto piú ampio; le proposte creative sono cresciute sia in quantitá che in varietà, anche lontano dai maggiori poli culturali, riempiendo le bacheche di Facebook di presentazioni editoriali e le case di poster stampati in risograph.
Quindi, dopo una fase di stallo e riassetto verificatosi negli anni zero, durante il primo vis-á-vis tra usomano e pixel, la stampa indipendente si é riaffermata come viva appendice artistica e sociale. Dalla musica sperimentale al graphic design purista, ogni ambiente creativo negli ultimi dieci anni ha generato una sorprendente quantitá di documenti, testimoniando il proprio operato e influenzandolo al tempo stesso.
Come il mitologico Ouroboros si ingoia la coda, cosí emergono tendenze e nascono estetiche; così l’autore sceglie il suo percorso, plasma il suo lavoro ponendosi come il fruitore rappresentante di una comunità e diventa infine un’iperfruitore, che interpreta a nome di un pubblico designato[10]. Gli autori di magazines e zines sono quindi i primi individui ad esprimere la curiosità e la necessità che affrontano poi sulle pagine, producendo materiale di cultura.
In tema di arte contemporanea – e quindi di creazione di tendenze – la stratificazione di elementi, tecniche e linguaggi è spesso veicolata da più parti: raramente accade che un artista pubblichi del materiale editoriale in autonomia, mentre è frequente vedere collaborazioni tra artisti e case editrici indipendenti, project space, studi creativi. Questo non comporta solamente maggiore complessità e qualità come conseguenze del lavoro di squadra, ma anche una contaminazione nel prodotto finale. Se in altre circostanze il processo creativo rischiava con più facilità di essere chiuso ed autoreferenziale, ora tende a replicare le dinamiche che il networking ha ci ha insegnato: le interazioni si moltiplicano, il confronto porta all’azione.
Sono infatti molti gli spazi indipendenti che affiancano giovani creativi per diffonderne il lavoro o per realizzare nuovi progetti: a Milano c’è stata Kallat, serie di zine monotematiche pubblicate da Angelica Bazzana e Valentina Suma di galleria Fluxia[11] tra il 2009 e il 2010. Gli otto numeri di Kallat hanno accompagnato le mostre dello spazio e approfondito il lavoro degli artisti esposti in quell’arco di tempo, come Daniela Baldelli, Andrea De Stefani, Benjamin Valenza e Jessica Warboys, documentando una delle realtà più interessanti del circuito artistico milanese e italiano. Analogamente, a Parigi ci sono ancora le exo publications: stampate tra le 30 e le 100 copie, queste edizioni raccolgono il lavoro di artisti che gravitano attorno alla vita e alla programmazione dello spazio Exo Exo[12], come Antoine Donzeaud (che ne é curatore insieme a Elisa Rigoulet), Ghislain Amar, Pauline Beaudemont e Juliette Bonneviot. Spesso le pubblicazioni sono composte da contenuti inediti ed accompagnate da stampe, serigrafie o sticker. Un’altro esempio è Every Whisper Anthology, raccolta pubblicata nel 2014 da Arcadia Missa[13] per documentare Every Whisper is A Crash on my Ears, programma di mostre e produzioni che lo spazio londinese ha ospitato nel corso del 2013. Il volume rappresenta un vasto archivio di conversazioni, saggi, immagini e grafiche che testimoniano una serie di relazioni intraprese da artisti e curatori nel corso di un anno di progetti, e include i contributi di oltre quaranta persone, tra i quali Eloïse Bonneviot, Alex Mackin Dolan, Huw Lemmey, Hito Steyerl, Vera Tollmann e Amalia Ulman. Esattamente come le zine Dada cento anni fa, questi prodotti sono “utilizzabili come fotogrammi di momenti della carriera dei rispettivi autori e del loro intento di realizzazione, o come canali alternativi di promozione del loro lavoro”[14], e traggono buona parte del loro potere dalla risonanza che canali digitali come DIS[15], K-HOLE[16], e-flux[17], Rhizome[18], Aqnb[19] e Ofluxo[20] danno ai loro contenuti.
L’editoria indipendente é un mezzo democratico imprescindibile, che offre forum accessibili, incoraggia alla partecipazione, suggerisce la riflessione. Perpetuare questa pratica secolare intrecciandola a quella dell’attivismo digitale significa determinare la cultura, dal micro al macro.
D.I.Y., that means do it yourself
I don’t sit around waitin’ for someone’s help
I don’t sit back and say “Good enough”
I keep on striving, reinventing, keepin’ it off the cuff
So I kick the level up cahoot-ified
Mackadocius vibes, positively fortified[21]
Note
[1] Janice Cari Goldberg, in Tom Trusky, Some Zines 2: Alternative and Underground Artists’ and Eccentric Magazines and Micropresses, Boise, Cold-Drill Books, 1996
[2] Fredric Wertham in Sadie Plant,The Most Radical Gesture: The Situationist International in a Postmodern Age, Routledge, 1992
[3] Nico Ordway, A History of Zines, Zines! Vol. 1, San Francisco V. Vale, 1996
[4] http://www.toutfait.com/issues/issue_3/Collections/girst/Blindman/1.jpg
[6] Richard Charkin, The Future of the Printed Page, The Observer, 24 Gennaio 2006
[7] http://www.e-flux.com/journal/neo-materialism-part-one-the-commodity-and-the-exhibition/
[8] Alison Piepmeier, Why Zines Matter: Materiality and the Creation of Embodied Community, American Periodicals; A Journal of History, Criticism, and Bibliography 18, n.2, 2008
[9] Thomas McLaughlin, Streets Smarts and Critical Theory: Listening to the Vernacular, The University of Wisconsin Press, 1996
[10] Cadioli A., Decleva E., Spinazzola V. (a cura di), La mediazione editoriale, Mondadori, 1999
[11] http://www.fluxiagallery.com/
[13] http://www.arcadiamissa.com/
[14] Walter Brand in Philip E. Aaron e Andrew Roth, In Numbers: Serial Publications by Artists since 1955, PPP Editions, 2012
[21] Beastie Boys, The Scoop, III Communication, Capitol Records, 1994
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Biografia dell’Autore
*Zoe De Luca è una giovane curatrice di base a Milano. Dal 2011 dirige Diorama Magazine, un progetto editoriale multidisciplinare che include la pubblicazione di un magazine omonimo e di altre pubblicazione e la curatela di workshop, mostre ed eventi. Dal 2014 è curatrice ed editor presso Siliqoon, art label dedita alla produzione e alla promozione di arte contemporanea, e ricercatrice presso Boiler Corporation, studio creativo. La sua attività si focalizza prevalentemente sulla contaminazione tra avanguardia e storia, mainstream e underground, analizzando dualismi estetici e concettuali attraverso il potenziale delle loro divergenze. Spesso scrive e collabora con altri progetti editoriali ed artistici.
dioramamag.com | www.siliqoon.com | boilercorporation.com
B-RESEARCH – di Balloon Contemporary Art, Research, communication, Curating Art &Publishing Project
ballooncontemporaryart@gmail.com
Catania
Un progetto di ricerca a cura di
Valentina Lucia Barbagallo
Giuseppe Mendolia Calella
Gruppo di selezione
Valentina Lucia Barbagallo
Giuseppe Mendolia Calella
Cristina Costanzo
Maria Giovanna Virga