Intervista ad Anna Raimondo
di Valentina Lucia Barbagallo
Chi è Anna Raimondo? Raccontaci brevemente di te.
Per rispondere a questa domanda, potrei ispirarmi alla mia performance dove a ogni tentativo di auto-definizione (sono artista, sono napoletana, sono italiana, sono mediterranea, sono femminista, etc) uno sconosciuto mi getta dell’acqua addosso. Definirmi è sempre un’impresa che oscilla tra il serio e il ridicolo, per questo preferisco parlarti del percorso che mi ha portato dove sono ora, piuttosto di dirti chi sono.
Laureata in giornalismo a Bologna, ho dedicato alcuni anni della mia vita al giornalismo culturale soprattutto in radio. Una volta a Madrid, – dove ho realizzato un programma di musica con una prospettiva di genere e diverse rubriche radiofoniche d’arte contemporanea – ho cominciato a confrontarmi con la traduzione e le sue problematiche. Non volendo abbandonare la radio, ho cominciato a lavorare sui paesaggi sonori e sulle composizioni sonore dove la lingua non era più un ostacolo semantico, piuttosto materiale sonoro da comporre.
Dal giornalismo sono passata all’arte radiofonica, dove sulla scorta degli stessi ingredienti (parole, silenzio, musica e suoni) non comunicavo più contenuti ma esprimevo intenzioni attraverso narrative alternative.
Dopo aver seguito un corso di composizione elettroacustica a Marsiglia con Lucie Prod’Homme ed aver concluso una nuova avventura radiofonica a Radio Grenouille (il programma Jusqu’ici tout va bien, in cui ho sperimentato una scrittura interattiva utilizzando lo spazio radiofonico come spazio d’intimità tra me e l’ascoltatore in una specie di terapia sonora), mi sono ritrasferita nel 2012 a Londra. Qui ho terminato un master in arte sonora alla London College Communication.
Quest’anno è stato molto importante perché dall’arte radiofonica “mi sono espansa” allo spazio pubblico. In fondo ho sempre trattato lo spazio radiofonico come sfera pubblica (Habermas), ma a partire dal 2012 ho cominciato ad incorporare la mia voce, ad espormi in carne ed ossa ai passanti che sono diventati il mio pubblico in diverse parti di Londra, riappropriandomi della città e trasformandola in spazio espositivo e di dialogo.
Oggi se proprio devo definirmi, direi che sono artista. Un‘artista che lavora con l’ascolto inteso come esperienza estetica e politica, un’artista che lavora principalmente col suono e la performance come dispositivi per costruire spazio pubblico.
Sei un’artista italiana (napoletana) che vive all’estero (Londra, Berlino, Francia, Belgio, Marocco, ecc) ormai da diversi anni. Differenze e analogie tra l’Italia e l’estero? Mediti mai di tornare a lavorare stabilmente in Italia? Perché si o perché no?
Da 10 anni vivo all’estero in una condizione di nomadismo (tra Madrid, Marsiglia, Londra, Bruxelles, Casablanca) e negli ultimi due sento la necessità, il desiderio, la voglia di ristabilire le mie radici in Italia. Di riappacificarmi con il posto e la cultura da dove vengo, metaforicamente e praticamente. Questo non significa che sogno di tornare stabilmente a vivere in Italia, cosa che tra l’altro sarebbe impossibile vista la scarsa offerta di lavoro in campo artistico e culturale. Ciò che desidero è manifestarmi anche in Italia, realizzare dei progetti sul territorio italiano e con gente che vive in Italia. Mi piacerebbe vivere tra l’Italia e il resto del mondo perché ho voglia di partecipare e prendermi cura della situazione delicata che stiamo vivendo ma allo stesso tempo desidero curare quello che stava diventando una fuga personale.
Ora (Maggio) sono in residenza a Villa Romana con l’artista franco–marocchino Younes Baba Ali su invito della curatrice Alya Sebti per un progetto di ricerca il cui risultato confluirà in una pubblicazione che verrà presentata alla Biennale di Marrakesh il prossimo febbraio. A Giugno in residenza in Irpinia con la fondazione Aurelio Petroni per una ricerca su suono e spazio pubblico in zone rurali. Nel frattempo sto tessendo relazioni con Radio Papesse (Firenze), le curatrici del programma d’arte radiofonico Bip Bop (Bologna) e con diverse curatrici di cui stimo molto il lavoro (Lucia Farinati, Cecilia Guida, Lucrezia Cippitelli, Elisa del Prete, Leandro Pisano, etc). Non meno importanti le relazioni con gli artisti locali (Giancarlo Norese, Lisa Batacchi, Luigi Negro, Gabriella Cianciamino, Silvia Renda, Valentina Miorandi, etc).
Credo molto nelle reti ed è attraverso una serie di relazioni che vedo il mio dolce rientro spirituale ed artistico in Italia.
Grazie a questi incontri comincio a credere che anche in Italia sia possibile un discorso di networking.
Anna, ti occupi di sound art e di radio art sia come curatrice che come artista. Mi parli di questi due aspetti del tuo lavoro? Ti reputi più un’artista o una curatrice?
Per me la curatela è parte integrante della mia ricerca artistica incentrata sul suono e sull’ascolto intesi come collante sociale, come pretesto di trasgressione per rivelare i limiti invisibili legati allo spazio pubblico, come dispositivo di delocalizzazione e rilocalizzazione, come seconda architettura che in maniera effimera si impone a spazi familiari.
La parte di curatela mi consente di cercare e approfondire ricerche artistiche, analoghe alle mie, fatte da altri artisti il che significa aprire il mio lavoro a nuove possibilità di collaborazione. Significa creare degli spazi di dialogo e di conoscenza. Un buon esempio può essere il progetto che ho realizzato con Younes Baba Ali, Saout Radio. Si tratta di una piattaforma dedicata al sound e alla radio art, con un focus specifico su artisti arabi e africani (anche della diaspora). L’idea è quella di tradurre questo processo in una web-radio che funzioni da vetrina per gli artisti che partecipano accrescendo le possibilità di scambio sul piano internazionale.
Che musica ascolta una sound artist? Qual è l’ultimo libro che hai letto? Chi sono gli artisti che ami?
La mia playlist è molto eclettica, va dal flamenco alla musica contemporanea, dal jazzcore alla samba. Le mie ultime ossessioni sono Moondog e Bach. L’ultimo libro che ho letto è un libro editato da Brandon LaBelle che riguarda suono e spazi pubblici. Gli artisti che amo sono tanti, ma potrei citarti Adrian Piper, Hayley Newman, Younes Baba Ali, Ivan Argote, Alessandro Bosetti, Janet Cardiff, Brandon LaBelle, Jose Iges, Tim Bamber, Miranda July, etc….la lista è lunga.
C’è stato un evento o un incontro in particolare che ha segnato una svolta nella tua ricerca?
Anche in questo caso non potrei parlarti di un incontro o di un evento in particolare e preferirei utilizzare l’idea d’itinerario, di processo ricco di svolte e di rivelazioni. Senza dubbio una svolta è stata l’incontro con artisti come Younes Baba Ali e Maria Inigo Clavo, i pomeriggi trascorsi con Lucia Farinati o Miguel Alvarez Fernandez in passat. Il periodo in cui ho lavorato come mediatrice culturale al Matadero di Madrid e in cui ho collaborato con la piattaforma Soundres a Lecce, i diversi scambi che ho avuto con colleghi e i docenti durante il master. Potrei anche citare, come fonti d’ispirazione che hanno avuto un impatto sul mio lavoro, il disfunzionale controllo geometrico degli spazi pubblici di Londra, la curiosità del pubblico a Dakar, le lunghe conversazioni con mia nonna per capire perché votava Berlusconi, conversazioni telefoniche con le mie migliori amiche…
Progetti futuri?
A fine giungo, come dicevo, parteciperò al programma di residenza della Fondazione Aurelio Petroni con Younes Baba Ali e uscirà un nostro documentario radiofonico su Deutshland Radio Kultur a Berlino il 5 Luglio.
A fine Luglio partirò per il Canada dove presenterò un’installazione sonora per spazi pubblici al Centro Sporobole a Sherbrooke in Quebec. Lavoreremo sul sito di Saout Radio che dovrebbe uscire il prossimo ottobre. Un’agenda densa caratterizzata, ancora una volta, dal movimento e da una forma d’iper-attività che, per il momento, è quello che desidero.
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(1) arm wrestling 3 (a mand and a woman)
(2) Arm wrestling1_©, Benedetta Ubezio, 2012 – London
(3) Untitled (A stranger, the water and what I am) © Younes Baba Ali 2013_Dakar
(4)/(5) Arm wrestling – photo by Ana Escobar