Corpo, Reazioni e Relazioni
Dare voce ai non detti: un dialogo con Chiara Ventura
Indagando il panorama nazionale contemporaneo alla scoperta di artiste/i che lavorano sulle pratiche performative, troviamo Chiara Ventura (Verona, 1997), artista visiva e performer. Il suo lavoro dal carattere esistenziale in cui la biografia diventa cifra, si muove tra diversi medium: le pitture, sempre al limite tra figura e astrazione, incarnano i macrotemi delle opere plastiche, concettuali e performative. L’analisi sul corpo, sulle relazioni e reazioni che questo ha con psiche, emotività e l’Altro, è stata il punto di partenza per gli sviluppi di una pratica, dove il punto scomodo, non protetto, per chi fa e per chi guarda, è al centro dell’attenzione. Ventura indaga e denuncia gli aspetti più subdoli delle forme di violenza presenti nella contemporaneità ed è interessata agli aspetti politici del comportamento umano. Ha realizzato performance ed esposto presso diversi musei, fondazioni, gallerie e spazi indipendenti tra cui Mart – Galleria Civica di Trento (Trento), Fondazione Bevilacqua La Masa (Venezia) Viafarini (Milano).
È ora in mostra a Lucca presso la Tenuta dello Scompiglio fino al 13 aprile con Le maniglie dell’amore a cura di Angel Moya Garcia, e a Narni Scalo al Thèposito Art Space con la personale Even When I’m Not Here, curata da Lorenzo Rubini, prorogata fino al 31 gennaio.
Sei un’artista che fin dall’inizio della sua ricerca, lavora molto sul e con il corpo; che ruolo ha questo nelle tue performance e nelle tue opere?
Il corpo è sempre il punto di partenza per ogni gesto. Ogni mio ragionamento deriva da un’urgenza che è sempre fisica: tutto il lavoro parte dalle reazioni che il mio corpo ha rispetto alle cose, alle persone, agli incontri. Di conseguenza, il corpo è sempre centrale nel mio immaginario, che sia il mio, quello del mio partner, che sia un corpo vivo o un corpo morto.
Qual è il focus del tuo lavoro in questo momento?
Guardo ai rapporti di coppia, alla tossicità nelle relazioni amorose, alle dinamiche che sviluppano una dipendenza affettiva o gesti estremi di violenza. Una delle mie ultime mostre, Le maniglie dell’amore, denuncia queste complessità. Il lavoro vede 110 maniglie per porta installate a parete, una per ogni femminicidio registrato in Italia nell’arco di un anno. Nella stanza sono affissi sulle pareti nome e cognome di ogni donna, età e il luogo in cui è avvenuto l’omicidio, con un breve testo di cronaca che descrive freddamente il femminicidio. Mi interessa l’elemento della maniglia per porta perché è un oggetto che vediamo tutti i giorni, che tutti abbiamo in casa, e che segna un punto limite tra dentro e fuori, tra una situazione che ci sembra esterna, e una situazione che dovrebbe essere intima e quotidiana e quindi sicura. Il titolo “Le maniglie dell’amore” richiama ad un elemento fisico del corpo femminile, a qualcosa di erotico e sinuoso, mentre dal punto di vista visivo le maniglie esposte ricordano dei loculi, e così si crea un cortocircuito, perché il tema non è l’amore, ma come gli uomini esercitano il possesso sui corpi delle donne.
Nelle tue opere lavori spesso con oggetti dal significato metaforico. Questo lo vediamo nelle performance come A mare, Apnea e Condensazione (dopo l’Apnea) e molte altre. Insieme ad essi, lavori molto sulla verbalizzazione, tramite i titoli e statement delle tue opere…
Indago i non detti, quello che vorremmo provare a dire ma non sappiamo come, perché abbiamo paura che le nostre emozioni non vengano riconosciute.
Gli oggetti performativi hanno una forte valenza simbolica per me e a volte riescono a diventare opere autonome. Ad esempio, Even when I’m not here, esposta ora a Thèposito Art Space è la sacca che ho usato durante Apnea a Villa Rondinelli lo scorso novembre. È sia quello che resta dalla performance che un lavoro indipendente. Una sacca idrica svuotata con all’interno una foto che ho scattato al mio compagno after sex, dove le coperte blu richiamano per forma e colore l’immagine di un’onda. Qui mi concentro sul tema della fiducia, sull’equilibrio dinamico che necessita una relazione. La frase presente sull’oggetto “Anche quando non sono qui” è un attivatore di concetti: mi piace che sia il fruitore a completarla con il suo vissuto personale, e mi piace far percepire l’idea di una forma di presenza anche nell’assenza.
Anche la pittura ha un ruolo fondamentale. Hai sempre lavorato nella fluidità dell’astrattismo e negli ultimi anni la tua produzione si è concentrata su una specifica gamma cromatica. Vuoi raccontarci perché?
Il mio approccio alla pittura va di pari passo a quello di tutte le altre tecniche, ma c’è una forma di astrazione, di aniconicità, che riflette in altri termini quello che non può essere definito dalla rigidità delle mie parole e dalla secchezza con cui utilizzo gli altri metodi espressivi. I miei ultimi quadri sono blu, come anche il colore predominante degli altri miei lavori, perché in questo momento della mia vita non potrei dipingere con nessun altro colore, non ne vedo il motivo, è più una questione di coerenza (in termini emotivi, non intellettuali). Negli ultimi anni mi sono interessata al mare, una soluzione composta da acqua e sale; l’ho immaginato sia come quello che piangi in una relazione, che quello che sudi durante un rapporto: c’è emozione e fisicità insieme. Inoltre, mi faceva sorridere che culturalmente, poeticamente, il mare è spesso qualcosa di estremamente romantico e quindi crea una dissonanza tra l’immaginario comune, addolcito, e il contenuto scomodo del mio lavoro.
Comunque, la pittura è anche quella parte del mio lavoro dove sono più libera, è come un momento di pausa. Sento il bisogno di costruire delle immagini più oniriche, che lasciano spazio a interpretazioni libere. Tutti gli ultimi dipinti sono raggruppati in una serie intitolata Figure e fanno riferimento a Frammenti di un discorso amoroso di Roland Barthes. Immaginandoli insieme (ne produco sempre tanti in contemporanea) li vedevo proprio come dei frammenti didascalici del mio di discorso amoroso, raccontando uno scuotimento. Sono tutti gesti e trame di un turbinio mentale.
Parallelamente alla tua ricerca personale, stai lavorando anche a plurale, un’altra realtà artistica. Ci spiegheresti in cosa consiste?
plurale è prima di tutto un concetto, noi lo definiamo collettivo osmotico, cui attivatori di base in questo momento siamo Leonardo Avesani e io. Con plurale il focus è sempre sul corpo, ma il taglio è meno poetico e più attivista. Osserviamo la sessualità e il piacere come spazi politici e cerchiamo di analizzare tutte quelle forme subdole di violenza e di manifestazioni patriarcali che avvengono nel nostro quotidiano. Cerchiamo di capire come il corpo maschile cis, etero e bianco, sta nel mondo oggi: che cosa subisce, che cosa fa subire ma soprattutto ne vogliamo capire il perché. Nelle nostre performance ci sono delle forme rituali che propongono un atto di consapevolezza e una spinta per trovare delle possibili soluzioni a comportamenti problematici legati alla mascolinità tossica. Ci interessiamo inoltre alla cultura giovanile, in particolar modo studiamo il fenomeno trap in Italia. Lavoriamo in una sinergia tra creazione di atti performativi, installazioni, video, musica e fanzine.