ArtInterviews

 

Esperienze artistiche ecofemministe:

il viaggio di Penelope

 

Il viaggio di Penelope è un progetto artistico agro ecologico ideato da Claudia Villani e da me curato. Si tratta di un percorso itinerante attraverso i comuni della provincia di Trapani con dichiarata vocazione agricola, costituito dai diciannove comuni del biodistretto “Terre degli Elimi”. La sua principale finalità è quella di coinvolgere donne e giovani per diffondere una visione che metta al centro la sacralità della vita, della terra e del cibo per la creazione di comunità. Il progetto vuole essere attivatore di processi di sviluppo culturali, sociali ed economici, atti a diffondere una pratica ecologica di sviluppo attraverso trasformazioni concrete. Durante una serie di workshop, verrà gradualmente costruita una tenda berbera con tessuto tessile di riciclo delle stesse partecipanti. Sotto questa tenda, luogo protetto, verranno organizzati una serie di dialoghi e confronti guidati da artiste italiane che indagano temi come la violenza sulle donne, la valorizzazione del femminile, la valorizzazione del territorio e delle realtà agro ecologiche, la cultura della pace e del rispetto dei diritti valorizzando le differenze. Il viaggio di Penelope punto zero è iniziato a Gibellina a ottobre 2023 con Filo conduttore, una mostra collettiva svolta presso il Museo delle Trame del Mediterraneo. Ricucire strappi e mediare conflitti sono parte delle conoscenze ancestrali delle donne, oggi più che mai necessarie per la salvaguardia dei nostri territori. Utilizzando l’arte tessile come forma simbolica di espressione femminile che unisce passato e presente, il lavoro porta a riflettere su come le tradizioni agricole siano state tramandate attraverso le donne. Il fine è sostenere le comunità femminili nella riscoperta del ruolo di attivatrici sociali, e di stimolare cambiamenti permanenti nei territori che abitano.

 

Ritratto di Claudia Villani. Ph L. Coppola.

 

Intervista a Claudia Villani 

La tua pratica artistica assume di volta in volta forme diverse: installazioni, fotografie, grafica e disegni, quello che la contraddistingue però è l’impronta performativa e teatrale. Potresti riassumerci cosa oggi orienta la tua ricerca?

 “Ogni cosa che faccio, mira a una trasformazione concreta”, questa affermazione di Joseph Beuys ha sempre guidato il mio lavoro. Il mio interesse e la mia ricerca, sono per così dire pre-artistici, non nascono cioè da una motivazione estetica, ma da una necessità pratica che percepisco urgente o dolorosa e a cui cerco di dare un contributo, di pensiero prima, di azione poi in un ambito culturale, e in parte forse anche politico (nel senso antico del termine). Parto dalla passione e dallo studio dei sistemi complessi e la mia prassi e il mio linguaggio, sono quelli dell’arte. La mia motivazione ha una forte base teorica, la ricerca antropologica legata al significato originario dell’azione e del fare artistico con scopo trasformativo e di cura. La cura è forse il centro della mia ricerca. Cerco di capire come l’arte possa innescare processi di cura a livello personale, di relazioni e di ambiente. L’ipotesi che muove la mia ricerca, è che l’arte non sia una disciplina, ma una metodologia, opposta e complementare a quella scientifica, come sistema di conoscenza per la trasformazione del reale. La perdita di questo tipo di consapevolezza che mi sembra possa risalire al seicento con la nascita del razionalismo in relazione allo sviluppo del  capitalismo e la marginalizzazione del pensiero ecologico e femminile, come spiega Carolyn Merchant nel libro, “La morte della natura”, che mette in luce come tra il 500 e il 700 il mondo si sia rivolto verso quell’idea di progresso che ci ha indirizzato poi, fino ai giorni nostri, verso valori di progresso efficienza e sfruttamento della terra,  negando le parti di esperienze e conoscenze che non fossero in linea con questa nuova prospettiva. Anche l’arte a mio avviso, ha cominciato a essere relegata sempre più a un ambito puramente estetico, allontanandosi dalla vita dalle persone e dalle esigenze reali. La mia ricerca estetica arriva dopo queste riflessioni, cercando il piacere e la gioia del fare che permette di superare il trauma (inteso come scissione) utilizzando spesso più che la bellezza, l’estetica del sublime, che secondo gli studi neuroscientifici, è in grado di attivare aree più profonde, emotive e di pensiero, producendo un nuovo contenuto cognitivo. Nel mio lavoro c’è, anche per questo motivo, una parte  di ricerca scientifica che conduco in collaborazione con Monica Sapio, medico anestesista esperta di medicina narrativa, e di volta in volta altri professionisti nel tentativo di ricostruire questi legami interrotti tra aspetto razionale e aspetto profondo della vita, perché sono convinta che l’arte sia una metodologia intrinsecamente transdisciplinare, in grado di riconnettere ambiti molto diversi della vita, superando così la parcellizzazione derivata dallo sviluppo delle specializzazioni. Per questo motivo, sono molto attratta dall’arte rupestre delle origini, che considero come definito da Manuel Anati, origine e archetipo del pensiero e della concettualità dell’arte e della religiosità a cui guardare per comprendere, riscoprendo nuove possibilità di sviluppo; come anche dalla filosofia della scienza e dallo studio dell’intelligenza artificiale, che considero un’urgenza assoluta, per un utilizzo intenzionale e collaborativo degli strumenti integrati in una visione poetica, senza la quale non vedo futuro. Sono molto ispirata dalla poetica di donne come Marizia Migliora e Maria Lai e provo un grande interesse per il lavoro di Andrea Cusumano, per la sua visione articolata e complessa, antropologica ma anche estetica, inserita in una visione teorica strutturata e di grande pregnanza.

 

 

Textus: il viaggio di Penelope, è il titolo del progetto itinerante e collettivo che stai portando in alcuni comuni del biodistretto Terre degli Elimi, nel tentativo di coinvolgere soprattutto donne che hanno subito violenza. Pensi sia possibile che l’arte diventi un processo di cura?

Per il progetto ho chiesto il patrocinio dell’Associazione Co. TU. Levi, che si occupa di violenza contro le donne, ma il mio lavoro, in contrasto alla cultura della violenza, riguarda soprattutto un aspetto legato alla prevenzione e non coinvolge direttamente donne che hanno subito violenza, cosa che necessiterebbe altre professionalità e competenze. Il progetto nasce con la collaborazione del Comune di Calatafimi e del Parco di Segesta all’interno della rassegna Segesta Teatro Festival, con il patrocinio del biodistretto Terre degli Elimi, e l’associazione CO. Tu. Levi, che parteciperanno a tutte le tappe che si realizzeranno. L’idea alla base è creare una rete di donne, che possano diventare un riferimento, per accogliere anche donne con situazioni difficili. Sono convinta che l’arte sia una metodologia trasformativa del reale, e come tale possa funzionare come enzima per attivare processi di cura. Da alcuni anni inoltre lavoro a un progetto di ricerca in collaborazione con la dottoressa Monica Sapio e l’associazione di pazienti fibromialgici Pharmakon, l’arte che cura, che ha lo scopo di validare l’esperienza artistica, non arte terapica, come strumento all’interno di una terapia multimodale. Stiamo lavorando ad alcuni studi per verificare la relazione che può esserci tra l’arte, e le trasformazioni non solo psicologiche, ma biologiche seguendo la visione della psico neuro endocrino immunologia. Esistono studi sugli effetti della musica e dell’arte visiva sul dolore, e in Italia il microbiologo Carlo Ventura, porta avanti studi molto interessanti su come le onde sonore possano influenzare le cellule staminali. Attualmente è in corso la prima tappa del Viaggio di Penelope, iniziato a Gibellina con la tappa 0 al Museo delle Trame Mediterranee all’interno di una mostra collettiva, con una installazione realizzata da me con il contributo tessile delle donne della mia comunità nel 2023. In questo momento stiamo realizzando un laboratorio a cui hanno aderito circa 20 donne del comune di Calatafimi Segesta, con la collaborazione del Parco di Segesta, verrà  poi presentata l’installazione composta di tessuti riciclati con un’azione performativa, all’interno dell’Eco Art Festival di Calatafimi.

 

 

I tuoi workshop iniziano con la lettura di Fare pace con la terra, un estratto del Manifesto Eco-femminista di Diverse Women for Diversity. In che modo ritieni che il pensiero e la pratica dell’attivista e ambientalista Vandana Shiva sia in relazione con il viaggio di Penelope?

La violenza contro le donne ha per Vandana Shiva la stessa natura della violenza contro i territori, perché entrambe nascono dalla stessa cultura, quella patriarcale capitalista di sfruttamento delle risorse che ha cancellato il ruolo e il patrimonio di conoscenze femminili legate alla natura ai suoi cicli in un’ottica rigenerativa. Il viaggio di Penelope, ha l’intento di ripartire dal valore del femminile e dalla forza dei legami che creano comunità. Aumentare la consapevolezza, attraverso il dialogo, il confronto e il lavoro in gruppo, evidenziando l’importanza che queste antiche conoscenze rivestono per affrontare le crisi che oggi viviamo. Lavorando a un’azione simbolica “riparativa” delle ferite e della marginalità che spesso le donne vivono, per riappropriarsi del proprio potere e della propria responsabilità di curare, proteggere e trasformare i territori che abitiamo. Per questo motivo, scopo finale del progetto, è la costituzione di una consulta delle donne, che possa lavorare nel comune per promuovere l’agro ecologia. Non è casuale se Carolyn Merchant considera il movimento femminista e quello ecologista come i due soli movimenti che possono oggi portare ad un cambiamento reale di rotta, mettendo in discussione i paradigmi fondamentali che hanno portato a questo tipo di sviluppo.

 

 

L’arte preistorica sciamanica di Josef Beuys, i linguaggi primordiali, l’intelligenza artificiale e le esperienze agro-artistiche, tue fonti ispiratrici, hanno alla base un comun denominatore?

Sicuramente sì, e in parte sto ancora esplorando queste connessioni, alla ricerca di una visione unitaria che sento ma che ancora non ho esplicitato del tutto. Mi sento molto vicina a una visione antropologica dell’arte, ma vedo una differenza tra l’oggetto culturale e l’oggetto estetico, attribuendo a quest’ultimo un valore trasformativo non solo in senso culturale, ma biologico; per questo motivo lo sciamanesimo è per me un riferimento importante e penso che oggi debba essere riconsiderato in relazione alle nuove tecnologie. Penso che col tempo cambino gli strumenti e linguaggi, ma non la funzione dell’arte, e mi interessa sviluppare una ricerca sui nuovi linguaggi in una funzione sciamanica e trasformativa. Forse è questo il comune denominatore: la possibilità di trasformare la realtà attraverso azioni di cura, anche se questo tipo di azioni sono oggi molto difficili da mettere in atto in contesti cittadini. Penso ai territori considerati marginali, come i piccoli comuni agricoli o la campagna, come i luoghi da cui potrà generarsi una soluzione alla crisi attuale. La visione della nicchia, di cui parlano Deleuze e Latouche, micro-esperienze artistiche radicate nei bisogni fondamentali legati al cibo e all’agricoltura, a nuove pratiche e sperimentazioni non solo culturali ma anche economiche che possano dialogare e fecondare il deserto circostante.

 

In copertina foto di gruppo. Ph L. Coppola.