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This Is The End:

una mostra fotografica che ridefinisce la morte

 

Cortona On The Move arriva alla sua quattordicesima edizione, presentando quest’anno il tema Body of Evidence (corpo del reato). Il festival propone ventidue progetti espositivi – quattro collettive e diciotto mostre individuali – distribuiti in sei location suggestive, tutti incentrati sulla fotografia. Attraverso un approccio documentario e di ricerca visiva, il tema del corpo viene esplorato in molteplici declinazioni, coinvolgendo artisti italiani e internazionali. Il festival si svolge nella pittoresca città medievale di Cortona (AR) con un format di mostra diffusa, che guida i visitatori alla scoperta dei linguaggi fotografici contemporanei attraverso un percorso a piedi ricco di sorprese, sia all’interno del centro storico che oltre. In particolari ci siamo soffermati sulla mostra This Is The End: un viaggio visivo attraverso la morte e la sua rappresentazione, con opere che variano dal documentario al concettuale, mettendo in discussione la percezione e il significato del fine vita.

 

Linguaggi visivi e tematiche alla Fortezza del Grifalco

Nel punto più alto della città di Cortona, ben 650 metri di altitudine, partendo dall’estremità di Via Santa Margherita e percorrendo a piedi tutta la Via Crucis si arriva alla Fortezza del Grifalco dove, dal 12 luglio al 3 novembre, ospita diverse esposizioni fotografiche che fanno parte del Festival.

Giunti alla Fortezza e varcato l’ingresso, si possono visitare ben 5 mostre: Paweł Jaszczuk, con il suo progetto ¥€$U$ trasforma l’iconologia sacra di Gesù Cristo in un’indagine visiva sulla cultura pop che si è creata attorno al Messia: il suo volto è in gadget di ogni tipo, puzzle, biancheria intima e giocattoli trasformandolo in un’icona di consumo.

Entrando in un altro spazio dell’antica fortezza, ecco il progetto di Myriam Boulos, fotografa libanese che con Sexual Fantasies mette in discussione le modalità rappresentative con cui sono raffigurate le donne arabe nella cultura coloniale e patriarcale, facendo parlare in prima persona le loro fantasie erotiche senza nessuno sguardo maschile in supervisione del  loro pensiero o del loro corpo. Entrando nel cortile dell’edificio più grande della fortezza, notiamo Corpi Celesti, mostra curata dalla coppia Chiara Tagliaferri e Nicola Lagioia sviluppata in più capitoli dove, attraverso il lavoro svolto in collaborazione con gli Archivi Alinari di Firenze, hanno portato alla luce antiche fotografie indagando profondamente il dialogo del corpo con la fotografia d’archivio. Entrando nell’edificio troviamo la prima mostra collettiva Cronache d’Acqua con il collettivo Cesura, con progetti realizzati ad hoc da Arianna Arcara, Chiara Fossati, Giacomo Liverani, Marco Zanella e Alex Zoboli commissionati da Gallerie d’Italia di Intesa Sanpaolo dove il collettivo “[…] intreccia dieci racconti che dipingono un viaggio ideale del ciclo dellacqua, analizzando le diverse forme nelle quali si manifesta: dalla sorgente alla foce, passando per lo sfruttamento agricolo, industriale e ricreativo.” Qui l’elemento acqua prende forma attraverso il corpus di creazione o distruzione “[…] tra la Terra e lessere umano, una connessione intrinseca tra lumanità e il mondo che questa abita, nel quale il corpo umano si colloca come un ospite che interagisce con lambiente, più o meno consapevolmente.”

 

This Is The End

La mostra su cui ci soffermeremo in questo articolo si trova al piano successivo della struttura sita all’interno della Fortezza del Grifalco. Il progetto curatoriale è titolato This Is The End ed è curato da Paolo Woods e Irene Opezzo, la collettiva si articola in 19 mostre al suo interno. Il tema, come ben espresso dal titolo, si collega per l’appunto al concetto di fine vita che fa da filo conduttore in tutto il percorso espositivo. È interessante come il tema della morte, interpretato dai vari fotografi in esposizione, non solo tocchi il piano documentaristico della rappresentazione visiva, ma metta in discussione anche il processo stesso e il linguaggio fotografico ad esso associato.

 

 

Tra i fotografi che hanno preso parte al progetto curatoriale troviamo gli Archivi Alinari, Nausicaa Giulia Bianchi, Klaus Bo, Richard Drew, Ken Gonzales-Day, Henry Hargreaves, Marc Hutten, Sergey Karpukhin, Paul Koudounaris, Duane Michals, Antip Obushtarov, Mohammed Salem, Massimo Sestini, NYC Municipal Archives-NYPD & Criminal Prosecution, Virginie Rebetez, Armando Rotoletti, Walter Schels and Beate Lakotta, Regula Tschumi, Franco Zecchin. Questa vasta selezione offre una molteplicità di interpretazioni e studi sul campo riguardanti il tema della morte.

 

 

Appena entrati in mostra, si rimane subito colpiti da dieci fotografie, tutte in formato quadrato, raffiguranti dei volti ravvicinati in bianco e nero. Osservando più da vicino, si nota che queste dieci immagini sono concepite a coppie e raffigurano lo stesso volto, situato l’uno accanto all’altro. I volti alla nostra destra hanno gli occhi aperti, mentre i volti sulla sinistra hanno lo sguardo delicatamente abbassato, quasi socchiuso e raffermo: sono le foto della loro morte. I fotografi Walter Schels & Beate Lakotta, con il loro progetto Life Before Death hanno trascorso oltre un anno negli hospice della Germania del Nord, realizzando ritratti di persone che hanno dato il loro consenso a farsi fotografare prima e dopo la loro morte.

 

27 Jahre. Geboren am 21. Februar 1978. Erstes Porträt am 8. April 2005. Gestorben am 14. Juni 2005. Hamburg Leuchtfeuer Hospiz.

 

Un progetto cruciale, che mette in discussione vari livelli di mortalità, non solo quella individuale: la fotografia, arma che per prima nasce per far morire un istante, qui è rappresentata nell’indice più rappresentativo: il momento morto – tipico della fotografia – raffigura un corpo morto. Due tempi paralleli terminano il loro percorso di vita.

 

vista dell’allestimento di “This Is the End”.

 

Nella stessa sala espositiva troviamo le immagini di Antip Obushtarov. Il lavoro di questo fotografo, attivo in Bulgaria nei primi decenni del Novecento, è stato a lungo dimenticato. Solo nel 2021 il fotografo bulgaro Alexander Ivanov lo ha riscoperto, rinvenendo un tesoro di lastre di vetro dimenticate in un piccolo museo del paesino di Shipka. Obushtarov (1888 – 1942) è stato editore, artista, fotografo e falegname e ha documentato la vita del suo villaggio dal 1906 al 1931 regalandoci una panoramica piuttosto rara della vita e cultura paesana dell’epoca. In esposizione troviamo i lavori in cui ha documentato i funerali nel villaggio, cerimonie che si svolgevano sempre alla presenza di un sacerdote e di un fotografo.

 

Antip Obushtarov, funerale.

 

Quest’ultimo ritraeva la famiglia mentre salutava degnamente il defunto, offrendoci uno sguardo su un autentico rituale di passaggio dalla vita alla morte. Le foto, trovate decine di anni dopo, si mostrano in un avanzato stato di deterioramento dato dal posto umido in cui sono state dimenticate per anni aggiungendo ulteriore significato: la foto ci appare decomposta. È stato il tempo — insieme alla natura — a completare l’immagine, rendendo fragile l’antico materiale fotografico che, lentamente, si è fuso con l’ambiente naturale in cui è stato ritrovato.

 

vista dell’allestimento di “This Is the End”.

 

È di Ken Gonzalez-Day il terzo lavoro fotografico su cui ci vogliamo soffermare. A prima occhiata, Erased Lynching sembra una catalogazione di vecchie foto d’archivio di matrice sociale. Se approfondiamo la storia, ci rendiamo conto che le foto parlano di questioni coloniali estremamente violente.

La storia dei linciaggi negli Stati Uniti ha molte forme oscure di censura culturale: non ci è dato sapere troppo rispetto a queste violenze perpetrate al popolo latino-americano, nativo e asiatico nel territorio americano. Gonzalez-Day, con l’aiuto di diversi studiosi della storia del linciaggio nel territorio americano, ha dato via a questo progetto evocativo: “Nessuna opera d’arte può affrontare l’orrore del linciaggio negli Stati Uniti” scrive nell’overview del lavoro ”né il trauma duraturo del linciaggio sugli afroamericani e sulle loro famiglie. Il mio progetto è stato creato in solidarietà con una serie di nuove ricerche che stavano emergendo sul linciaggio dai primi anni 2000.”

Raccogliendo fotografie d’archivio e cartoline di linciaggi, l’artista elimina il corpo delle vittime, spostando l’attenzione dalla spettacolarizzazione della morte e di chi l’ha subita al pubblico responsabile di tali atti. L’inquietante assenza del corpo diventa così un chiaro richiamo alla coscienza di chi ha inflitto sofferenza e traumi ai popoli nativi degli Stati Uniti. Rimuovere il corpo per cui la fotografia è stata scattata altera la morfologia stessa dell’immagine, poiché eliminare un elemento significa anche cancellare una parte della storia. Queste fotografie, oltre al loro contesto, si configurano come paesaggi sociali segnati da un’assenza che racchiude un significato storico profondo.

 

vista dell’allestimento di “This Is the End”.


 

Intervista a Irene Opezzo

This Is The End è un progetto curatoriale molto forte, che emozioni avete provato durante la ricerca per la realizzazione di questa mostra? Ci sono dei progetti che ti hanno scosso più di altri a livello emotivo?

Alcuni lavori presenti in mostra sono di natura antropologica, fotogiornalistica, tratti da archivi storici, e hanno un approccio diverso rispetto ai progetti più intimi e personali. Tuttavia, anche questi lavori hanno una motivazione profonda e un forte impatto emotivo, sia per il pubblico che per noi curatori durante la fase di ricerca.

La serie Erased Lynching” di Ken Gonzalez-Day, artista californiano che ha lavorato sulle foto storiche dei linciaggi avvenuti tra la fine dell’800 e gli anni Cinquanta negli Stati Uniti, è particolarmente significativa. Per evidenziare il ruolo delle cartoline fotografiche nel dare forma a questa storia raccapricciante, abbiamo mostrato anche il retro delle stesse, con scritte come Questo è quello che facciamo a questa gente qui da noi”. Pensare che queste pratiche di terrorismo siano esistite fino a meno di un secolo fa, fa rabbrividire e riflettere sull’eredità razzista dellAmerica di oggi. Altra modalità di lavoro è quella della ricerca fotografica Death is a photograph” di Nausicaa Giulia Bianchi, che nasce da una riflessione sulla fine della vita in seguito al suicidio di una persona vicina all’artista. Dallelaborazione personale del lutto, la ricerca si estende al campo degli studi sulla morte, offrendo un approccio visivo e artistico sul tema. Il progetto affronta vari tipi di esperienze che intrecciano vita e morte: dagli incidenti mortali ai trapianti, dalle esperienze di pre-morte alla tassidermia, dai medium ai becchini, fino ai cacciatori di fantasmi. L’autrice sfida stereotipi e pregiudizi legati alla morte per favorire una comprensione più profonda della nostra esistenza.

 

vista dell’allestimento di “This Is the End”.

 

Fotografia e morte sono estremamente collegati: il linguaggio stesso del medium ha a che fare con qualcosa che finisce imprescindibilmente. Essendo l’immagine una rappresentazione, pensi che la fotografia sia in grado di educare il pubblico rendendolo più vulnerabile attraverso le foto di violenza o temi così forti?

Oggi con la fruizione continua delle immagini attraverso Instagram e altri social media è fortemente necessaria uneducazione visiva che aiuti il pubblico a essere più consapevole e preparato. Per This is the end abbiamo creato un quotidiano che gli spettatori possono sfogliare, composto da prime pagine di quotidiani di tutto il mondo che hanno pubblicato la fotografia del corpo senza vita di Aylan Kurdi – il bambino siriano di 2 anni trovato morto sulla spiaggia di Bodrum, in Turchia, il 2 Settembre 2015, a causa del naufragio dellimbarcazione sulla quale si trovava con la sua famiglia, nel tentativo di raggiungere l’isola di Kos, in Grecia, durante una delle grandi ondate migratorie che hanno segnato la crisi nel Mediterraneo. In quegli anni ero photo editor al quotidiano La Stampa e ricordo bene il dibattito cha avevamo avuto in redazione: era giusto pubblicare quella fotografia? Cosa si può e si deve mostrare? Quali sono le conseguenze della censura del corpo morto? Fino a quel momento il giornale aveva fatto battaglie perchè nella cronaca ci fosse un limite chiaro e invalicabile dettato dal rispetto degli esseri umani” scriveva allora Mario Calabresi, direttore della Stampa. Nascondere questa immagine, avrebbe significato girare la testa dallaltra parte, far finta di niente, che qualunque altra scelta era come prenderci in giro, serviva solo a garantirci un altro giorno di tranquilla inconsapevolezza.” È raro che i principali quotidiani pubblichino immagini di bambini morti o feriti. Non c’è niente di più devastante dell’immagine di un bambino la cui vita è stata stroncata da una violenza insensata. Le norme consolidate sono di mostrare tali immagini con parsimonia, se non del tutto. Sono passati quasi dieci anni dalla pubblicazione di quella fotografia, i media tradizionali non hanno più bisogno di diffondere un’immagine perché venga vista. I social media ci bombardano con un flusso di immagini brutali, come dai conflitti a Gaza e in Ucraina. Una delle parti più difficili del giornalismo è assistere agli orrori e poi cercare, con parole, suoni e immagini, di trasmettere quel dolore al mondo intero. Molte persone possono voler distogliere lo sguardo, vedere il mondo come preferiscono vederlo. Ma cosa dovremmo vedere quando vediamo la guerra? Data la mia esperienza, e avendo visto ogni giorno foto di morte da moltissimi conflitti, è raro che un’immagine violenta mi sconvolga. Ma credo che quella di Aylan sia una fotografia che richiede di essere vista.

 

Duane Michals, Self-Portrait as if I were Dead, 1968. © Duane Michals, courtesy Admira, Milano.

 

Attraversata la soglia che ci porta nella stanza centrale dell’esposizione, si nota una fotografia stampata in grande formato con un autoritratto di un grande maestro della fotografia del secondo novecento, a me carissimo durante i miei studi universitari: Duane Michals ritrae sé stesso mentre osserva l’altro sé stesso morto, adagiato su un lettino grazie alla tecnica della doppia esposizione. “Self Portrait As If I Were Dead” mi colpisce profondamente poiché ci mette davanti a tempi lontani ma che ci appaiono assolutamente ravvicinati. La presenza di più linee temporali all’interno di questa immagine fa da cornice insieme alle braccia conserte del Duane vivo, che osserva stoicamente il suo altro sé stesso senza vita. È forse attraverso la morte che potremo riconoscere, o quantomeno essere coscienti di noi stessi e degli altri? Non ci è dato saperlo con sicurezza, ma questo lavoro di Duane Michals mi sembra assolutamente convincente.

 

Vista dell’allestimento. Duane Michals, Self-Portrait as if I were Dead, 1968.

 

All images courtesy of Matteo Losurdo, Kublaiklan Collective
In copertina: Regula Tschumi dalla serie Figurative Coffins of Ghana © Regula Tschumi