Dare Lucciole per lanterne
MAC Studi d’Artista: a Padova nuove narrazioni visive e sonore
Dare lucciole per lanterne è il titolo del progetto conclusivo della residenza artistica MAC Studi d’Artista 2023/2024, curato da Caterina Benvegnù e Stefania Schiavon. Il progetto espositivo, caratterizzato da una ricca narrazione visiva e sonora, ha offerto al pubblico l’opportunità di esplorare i risultati della residenza iniziata a novembre. Abbiamo intervistato i 7 artisti protagonisti di questa edizione.
Dare lucciole per lanterne, è il progetto di fine residenza di MAC Studi d’artista 2023/2024 da poco concluso, a cura di Caterina Benvegnù e Stefania Schiavon. Questa mostra inaugurata in occasione del solstizio d’estate, nasce con l’intendo di rendere fruibili i lavori realizzati dalle e dagli artisti durante i sei mesi di residenza che hanno avuto avvio lo scorso novembre. In occasione del solstizio d’estate, giorno in cui è lecito godere di un luminoso tempo sospeso, sono stati condivisi con la collettività i frutti di lunghe e talvolta intricate riflessioni, ricerche e scambi sempre mutevoli e imprevedibili con la comunità che abita la zona antistante la stazione ferroviaria di Padova. Il numero 13 di Piazza De Gasperi si è letteralmente trasformato nel quartiere generale di giovani artisti desiderosi di dare sfogo alla loro creatività in dialogo con il contesto che li ha accolti. “Prendere lucciole per lanterne” è un’espressione idiomatica della lingua italiana che significa “confondere una cosa con un’altra”, si riferisce a scambiare due cose vagamente simili, quindi prendere un abbaglio. L’esposizione finale di Ipercubo, Marie Fratacci, Guido Sciarroni, Alessandro Gambato, Ambra Grassi, Michela del Longo e Marta Magini si articola attraverso una narrazione visiva e sonora caratterizza da memorie, moniti, ibridazioni, oscillazioni e ribaltamenti prospettici. Il 31 luglio è stato chiuso il bando di MAC per l’edizione 2024/2025; di seguito riporto l’intervista ai sette artist* sulle loro ricerche portate avanti durante il periodo di residenza intrapreso durante l’edizione 2023/2024 di MAC.
Con il vostro Book-Cross-Croos-Breed avete ricevuto generose donazioni di libri che, con lavoro certosino, vi siete occupati di smembrare e riassemblare. Avete creato cento copie uniche e totalmente randomiche, il risultato ottenuto è all’altezza delle vostre aspettative? Come siete arrivati alla creazione di questo libro?
Ipercubo: La genesi di un nuovo libro è sempre complessa: nel caso di Book-Cross | Cross-Breed alcune delle primissime esperienze fatte come collettivo ci avevano già portato a riflettere su come unire e contrapporre punti di vista diversi all’interno del medesimo libro. Da questi primi progetti è sorto spontaneo chiedersi se e come si potesse creare un libro collettivo, che racchiudesse un pezzo della libreria di tutte le persone di passaggio per la residenza. Questa pubblicazione è la risposta a questa domanda. Di fronte a una marea di pagine da riordinare, non eravamo certi di come il libro potesse essere fino all’ultimo passaggio, la rilegatura. A quel punto la copertina, il nostro unico intervento evidente all’interno della pubblicazione, ha unito le diverse pagine in una forma compatta e sfogliabile: un libro.
Con le tue fotografie in bianco e nero mescoli i tuoi ricordi personali a quelli di molte altre persone di cui non conosci l’identità. Mi hai confessato che molte persone si sono immedesimate in queste antiche narrazioni al punto da riconoscervi parte della propria storia familiare. Il tuo intento, nel caso specifico della mostra Dare lucciole per lanterne è quello di ricostruire l’Italia attraverso dei punti di connessione comuni?
Marie Fratacci: Sì, esattamente. È un modo, per me, di costruire un ponte tra gli uomini e le donne delle generazioni del passato (scomparsi e dimenticati) e gli uomini e le donne di oggi. Non so se l’Italia sia al centro di questo progetto, ma per me “l’archiverie” è un’idea universale. In questa versione, come presentata al MAC, ovviamente, raffiguro cose familiari agli italiani. Nel puzzle, ad esempio, si tratta di momenti e luoghi che tutti gli italiani possono conoscere, riconoscere o capire. Sono quelli che si possono chiamare i punti di connessione comuni.
Tra tutti, probabilmente il tuo progetto è il più audace perché si spinge oltre le mura di MAC e invade letteralmente lo spazio pubblico di Piazza De Gasperi. Puoi raccontarci il processo creativo che ti ha portato alla creazione di Atti pubblici in luoghi osceni e come secondo te è stato accolto dalla collettività?
Guido Sciarroni: Insieme a Marie Fratacci, compagna di viaggio di MAC, abbiamo pensato che mettere in dialogo la mostra fotografica con un luogo pubblico di passaggio, come i portici di Piazza De Gasperi, potesse essere l’operazione più efficace. Il processo creativo è stata una scommessa: l’ho voluto condividere con altre persone, qui il contrasto fra gli elementi visivi e il grottesco sono grimaldelli per innescare reazioni e domande nel pubblico. Tutto è partito da incontri preliminari in cui le realtà si sono conosciute; dopo la presentazione del progetto, la fotografa/o e la persona ritratta hanno avuto la possibilità di proporre luoghi, modalità ed estetiche desiderate. Mi sono dato il compito di guidarli, fornendo loro gli strumenti per sviluppare queste suggestioni. Esistono la regia e la drammaturgia fotografica? Credo che sia la definizione più corretta del mio ruolo. Il contrasto tra il luogo e la soggettività è stato ricercato affinché l’uno facesse risaltare l’altro, in un dialogo contrastivo che possa stimolare ipotesi di convivenza. Riguardo alla risposta cittadina è ancora presto per tirare le somme; la mostra è stata danneggiata, ma è difficile dire per quali motivi. Mi sento solo di dire che sono foto che danno fastidio, perché le soggettività che ho scelto appartengono quasi tutte a minoranze invisibili. Penso che quando si alza la voce per affermare la propria presenza nello spazio e nella società si compia un atto pubblico e chi osserva non riesce a ignorarlo. Vogliamo, insomma, riappropriarci di questi luoghi con originalità e non-conformità. In un mondo di convenzioni normative, vogliamo essere fuori luogo. Perché la fotografia? Da performer, fare il curatore è una sfida che mi mette in una posizione fuori luogo e per me è sempre stimolante. Mio padre, nei suoi ultimi anni di vita, aveva coltivato l’hobby della fotografia e questo ci aveva rimesso in comunicazione dopo anni di conflitti. Per motivi pratici ed emotivi non riesco a scattare, perciò questo avvicinarmi alla fotografia è stato un atto per rivendicare uno strumento che mi è molto caro, ma precluso.
Ho molto apprezzato la tua idea sostenibile insita in entrambe le installazioni sonore che hai realizzato per la mostra finale della residenza. Lo sviluppo orizzontale di 30cx8ch e Studio6ch fa auspicare ad una diffusione più accessibile ed inclusiva della musica elettronica. Attraverso le performance partecipative basate sulla musica sperimentale pensi sia possibile intercettare pubblici più eterogenei e non restare di nicchia?
Alessandro Gambato: Sì, penso sia possibile, o meglio penso che per raggiungere un pubblico davvero eterogeneo sia necessario abbassare il grado di “sperimentalità” della musica proposta. L’utilizzo degli smartphone può e potrà sempre di più essere un elemento importante nell’allargamento del pubblico della musica elettronica di ricerca e non. Per esempio al di fuori dei circuiti specializzati qualcosa esiste già: https://smartphoneorchestra.com/ è un’azienda (con tanto di profilo LinkedIn) che si occupa di organizzare eventi basati sulla partecipazione smartphone-based. Chiaramente la musica proposta è studiata per essere di consumo e per arrivare a tutti in maniera trasversale. Questo si traduce in musica tonale pienamente in linea con la tradizione occidentale. La mia direzione è completamente diversa: l’idea di raggiungere un pubblico vasto ed eterogeneo con musica che non risulta interessante a me per primo non entusiasma. Punto piuttosto, e forse in maniera un po’ utopica, a raggiungere con la mia musica un pubblico non limitato alla nostra ristretta cerchia di occidentali. La musica elettronica di ricerca è un campo che per motivazioni tecniche è appannaggio solo dei paesi più ricchi: in teoria non si può fare musica elettronica senza speaker, mixer, amplificatori e computer all’avanguardia, e il tutto ha un peso economico. La direzione della mia ricerca, e in essa il ricorso a performance partecipative e agli smartphone, punta allo scardinamento di questa esclusività, verso una musica elettronica che possa essere universale. L’effettiva messa in pratica delle possibilità non esclusive della musica elettronica partecipativa avverrà per me il prossimo luglio, periodo in cui sarò in residenza presso Space A, una piccola galleria a Kathmandu, Nepal. Lì mi aspetto di poter sperimentare quanto teorizzato finora, e di poter intercettare un pubblico che con altre pratiche, proprie della musica elettronica, sarebbe altrimenti impossibile da raggiungere.
Pensi che quello che hai realizzato durante la residenza di MAC sia il tuo lavoro più riuscito in termini di partecipazione collettiva? Qual è il nesso che lega la Morte arlecchina e beffarda, il Libro dei mostri, contenente diversi cadaveri squisiti, le trenta statuette in ceramica e i due quadri a olio che hai realizzato per la mostra finale?
Ambra Grassi: Quando si tratta di partecipazione collettiva, è difficile avere dei parametri di riuscita non essendo l’unica testimone del processo. Ho deciso di attivare un dialogo con il quartiere a tutti gli individui che sono passati negli spazi di Mac proponendo il gioco dei ‘Cadavre Exquis’; c’è una forza nel fare, nell’azione che scavalca la semplicità dell’atto e attiva dialoghi sottili con il partecipante; il disegno collettivo che si compone in un unicum formato da più mani è stato molto importante, una pratica (quella del disegno) che è integrata nella mia creazione artistica può presentarsi come un blocco o un ostacolo da scavalcare per chi non è abituato a farlo. In cinque mesi sono stati raccolti più di 100 disegni (ognuno dei quali composto da quattro partecipanti): essere riuscita a connettere tante mani attraverso questo gioco surrealista è per me sinonimo di intento riuscito. Tutto il processo che ho chiamato MERAVIGLIOSI MOSTRI parte dal gioco, i risultati sono stati archiviati in un libro d’artista, il Libro dei mostri, da cui ho attinto per trovare forme al di fuori di me e creare i lavori esposti. L’esperienza fatta in residenza si è suddivisa naturalmente in due strade, nella prima i lavori esposti sono frutto diretto delle riflessioni grafiche e semantiche emerse dalle indagini sui ‘Cadaveri squisiti’, la seconda, la ricerca libera in atelier, mi ha portata a sperimentare la pittura a olio. Venendo dal mondo della grafica d’arte e della stampa, la pittura mi ha fatto ‘ripartire da zero’ ed è così che immagini sedimentate nel profondo e rielaborate sono tornate sulla tela. Nasce quindi il primo quadro Morte arlecchina e beffarda, iconografia macabra e presagio livellatore, contenuto cupo in un significante innocuo che si collega giocosamente alla parola cadavere. La serie di ceramiche Articulata e il dittico a olio Les exquis nel giardino I e II sono risultati diretti del progetto; le Articulata rappresentano gli ibridi delle creature che si manifestano nei quadri, esistono in uno stato di potenziale e continua trasformazione, hanno fattezze che possono sembrare animali, ma nel loro processo di articolazione mutano, diventando qualcosa di indefinibile e i non appropriabile, proprio come i disegni ottenuti dalle partecipanti; Les Exquis nel giardino I e II sono sinfonie visive nelle quali, attraverso un processo di selezione e ricombinazione dei disegni archiviati, sono emerse delle figure oniriche che invitano lo spettatore a entrare in un mondo di interconnessioni. I lavori in mostra riflettono la complessità e la bellezza del punto di incontro tra immaginazione collettiva e creatività individuale, offrendo una visione luminosa di figure indefinibili emerse dalla combinazione del caso.
Come sei arrivata ad associare i dissuasori ornamentali ostili di Piazza De Gasperi ai ricordi d’infanzia più traumatici?
Michela del Longo: I dissuasori, in particolare i profili zincati di piazza A. De Gasperi, hanno una forma e una funzione che ho sempre trovato troppo semplicistica e dispettosa, quasi da cartone animato. Questo loro aspetto caricaturale mi ha ricordato una punizione inferta agli alunni della prima metà del ‘900, che prevedeva l’inginocchiarsi sui ceci. Ho scoperto che in alcune scuole i ceci, anziché essere disposti direttamente a terra, venivano rovesciati su una struttura di legno con caratteristiche funzionali (una maniglia per trasportarlo, una griglia per non disperdere i legumi) ma anche decorative. Molto spesso l’architettura ostile camuffa la sua intenzione respingente assumendo un aspetto ornamentale (non è il caso delle punte metalliche — fin troppo esplicite —, nonostante sia stata loro attribuita questa qualità dai giornali locali). I dissuasori e gli inginocchiatoi sono dispositivi con lo stesso scopo e le stesse modalità: allontanare soggetti indesiderati e forzarli ad assumere una posizione, che sia in piedi, su cartoni, sulle ginocchia.
Questo tuo studio sul dondolio ha assunto diverse forme, dalla performance, al video, all’installazione audio, fino ad arrivare all’illustrazione. Pensi che analizzare il tema da diversi punti di vista con l’ausilio di strumenti eterogenei e partecipativi ti abbia fatto esaurire le ricerche sul tema o continuerai ad approfondirlo anche in seguito?
Marta Magini: Ciò che accade nel mio lavoro è che l’indagine sul corpo, che ne è alla base, ha bisogno di volta in volta di esprimersi attraverso mezzi diversi. Ora la performance, ora il video, ora il disegno, ora il libro, ora altro: una necessità che deduco e non, viceversa, induco. Un po’ come quando entri in relazione con un’altra persona e succede che di giorno in giorno sarà necessario prendersi cura di ciò che serve a quel dialogo in quel preciso momento: oggi del mare, domani di una passeggiata, dopodomani del mercato, fra una settimana di un disco da ascoltare insieme. Mezzi diversi per alimentare e far evolvere un qualsiasi tipo di relazione. Per me è l’unico modo per procedere: non scegliere a priori il linguaggio, ma definirlo nel tempo presente dell’incontro. Ho la sensazione che quella aperta con il tema del dondolio (convenendo che questa mia verbalizzazione equivale a semplificare il discorso) abbia tutte le caratteristiche di una relazione umana: ci si rincontra, dandosi o meno appuntamento, e ci si chiede “come stai” e da lì si parte – si trascorre del tempo insieme. Il dondolio (e anche: l’oscillazione, l’ondeggiamento, il ciondolio…) è un marasma mobile di stati e condizioni del mondo che proprio nel rischiare di condurmi alla vertigine mi stimola curiosità: la pausa, la sospensione, il rilassamento, il piacere, il godimento, la ricreazione, la vita convivono e si confondono con l’attesa, la noia, la stanchezza, il disturbo, l’ossessione, l’esaurimento, la morte – dondola l’infante, dondola l’impiccato.