Cassarà e l’invisibile quasi svelato
Profondamente pensante, orientata filosoficamente, acuta e visionaria, dotata di una saggezza temperata e una natura introspettiva, eppure, al contempo, testarda e in conflitto. Nell’esperienza immersiva, affascinante e stimolante della recente mostra intitolata Bones of Light di Marco Cassarà, curata da Giusi Diana negli spazi de L’Ascensore a Palermo, si potrebbero trovare molte parole per raccontarla, mentre l’opera stessa si trasforma, crescendo in complessità, vitalità e fascino, portando con sé un’intensa energia e un profondo significato. Un’aura eterea e misteriosa permea l’ambiente, evocando emozioni profonde, e quei segni che solcano la superficie zincata sembrano impegnarsi nella lotta contro le proprie contraddizioni e sfidare, con coraggio, il mondo esterno.
Carlo Corona: Partirei chiedendoti il motivo del titolo “Bones of Light”, ovvero “Ossa di Luce”, un titolo evocativo di per sé, profondamente radicato al corpo, legato a qualcosa d’intrinseco alla nostra struttura interna come esseri umani, al retaggio scheletrico, come se la luminescenza della luce rivelasse i misteri più profondi del nostro essere.
Marco Cassarà: Quando ho cominciato ad immaginare “Bones of Light” era notte fonda e non riuscivo a prendere sonno. Ero in preda al delirio di un flusso di associazioni spontanee e visionarie così energiche che quasi mi scuotevano le ossa. Tra queste, infatti, c’era la “visione” di uno scheletro di luce, seguito da tutte le immagini che si animano nella poesia presente in mostra. Ho cominciato a placarmi scrivendo di getto questa poesia e interagendo fantasiosamente con questi oggetti. Proiettavo questo scheletro di luce dentro di me fino a farlo aderire al mio scheletro, poi lo rapportavo alle costellazioni, proiettandolo su scale siderali. Pensavo agli asterismi delle costellazioni, anch’essi come scheletri di luce. Quella notte ho compreso i misteri più profondi del nostro essere e li ho scritti in quella poesia. Ecco perché l’ho celata con l’alfabeto Braille (risata). Scherzi a parte, è un lavoro molto sentito interiormente.
CC: Scherzo o meno, l’aspetto visionario e persino rivelatorio dei misteri del mondo è, credo, una caratteristica profondamente tua. Quella che potremmo definire una visione mistica coincide con l’idea di intuizione, intesa come comprensione diretta e immediata della realtà divina e dell’universo spirituale, suggerendo, in linea con la mistica ebraica, che le connessioni intuitive siano intrinsecamente legate al divino e alla verità cosmica.
MC: La ricerca artistica può condurre all’illuminazione spirituale e può essere una via molto visionaria se battuta in solitudine. Quando lavoro, sono di certo in “ascolto”, anche se durante ascolto molta Techno.
CC: Prima di procedere, però, facciamo un passo indietro e ritorniamo alla fase precedente all’apertura della mostra, quando ancora lavoravi all’interno de L’Ascensore e ti occupavi della realizzazione dell’installazione appositamente concepita per lo spazio. Ricordo che, tra gli strumenti e i materiali di lavoro, si trovavano anche oggetti, forse ancor più preziosi, i libri, e in particolare mi viene in mente di averne visti tre, tra cui uno su Nietzsche, uno su Giordano Bruno e un altro sull’alchimia e la kabbalah. Ho sempre pensato che i libri costituiscano un modello culturale e un luogo di conoscenza altrettanto prezioso quanto l’opera di un artista. Vorrei, infatti, soffermarmi un momento sull’influenza che questi libri hanno avuto sulla tua opera e sul tuo lavoro di artista.
MC: Ho portato a L’Ascensore alcuni oggetti che costituiscono il mio studio, tra quei libri anche un bastone da passeggio che mi aiuta a scaricare le tensioni nei momenti di riflessione. È un’estensione del mio braccio quando lavoro, un oggetto numinoso. Non ho mai sfiorato quei libri durante il lavoro a L’Ascensore, ma di certo hanno toccato me, sono delle presenze. La Nascita della Tragedia di Nietzsche, sull’artista in preda alla tensione tra l’Apollineo e il Dionisiaco; L’Ombra delle Idee di Giordano Bruno, un trattato concettuale di mnemotecnica che guarda all’Iperuranio (tutti gli artisti dovrebbero leggerlo!); Alchimia e Kabbalah di Sholem, l’ho portato d’istinto. C’era anche L’Avventura di Giorgio Agamben (ringrazio Stefania Artusi per avermelo regalato), questo piccolissimo saggio ne vale cinque “presenze”, quelle di cui parla: Il Daimon, Tyche, Ananke ed Eros, e “Madama Avventura” che, in prospettiva junghiana, rappresenta l’Anima che ci conduce al Sé attraverso i sentieri tortuosi dell’inconscio.
CC: Andiamo avanti. L’installazione, con i suoi tre pannelli verticali di lamiera zincata, avvolge l’intero spazio, come se lo vestisse, tracciando una scansione che richiama la struttura di un trittico. È un elemento che ci invita a riflettere non su una tradizione religiosa, ma su una cultura religiosa, o forse su qualcosa di ancor più antico.
MC: Direi qualcosa di profondamente arcaico. Immaginando di realizzare un lavoro site-specific a L’Ascensore, ho subito pensato a una caverna. Mi piaceva l’idea di rapportarmi a quest’opera con gli stessi istinti primordiali degli artisti del paleolitico mentre incidevano le grotte, immedesimarmi in essi mentre sperimentavano il significato intrinseco del segno. Volevo essere guidato dalla stessa purezza per portare alla luce forme e immagini da una dimensione interiore, come quella di un cavallo che irrompe direttamente dall’inconscio. L’uso delle smerigliatrici elettriche per incidere ha amplificato questo sentire.
Mi capita comunque di passare anche di notte da L’Ascensore e di raccogliermi davanti all’opera con un non so che di religioso. È un’opera realizzata in totale automatismo, una cappella laica, ha una forte risonanza.
CC: Soprattutto nel pannello centrale e anche in quello sinistro, il blu si distende con un movimento dinamico e magnetico, persino attraente, riverberando una fascinazione intellettuale e un’iniziazione oscura e misteriosa, essendo un colore che cattura lo sguardo come il più sublime, il colore del cielo e del firmamento, il colore che innalza lo spirito. Partendo dal presupposto che il colore blu aggiunga un elemento sensoriale all’esperienza dell’installazione, qual è il suo significato per te? Perché proprio il blu, che si porta dietro una storia, se vogliamo, secolare?
MC: Di Bones of Light sapevo da subito che sarebbe stato un lavoro “blu”. Quando inizio a pensare a un’opera, parto da una sensazione cromatica che si forma al momento, una specie di visione. Quella famosa notte, tra il delirio, ero pervaso da una sensazione blu davvero intensa, da un’aura blu. Ho fatto un lavoro di profonda immaginazione, intercalandomi già da quel momento negli spazi de L’Ascensore, proiettando su quelle pareti quella sensazione interiore di blu, un blu archetipico. Da lì sono scaturite quelle associazioni di cui parlavo prima.
Dei passi di Derek Jarman da Croma: Nel pandemonio dell’immagine / Vi offro il blu universale / Blu una porta aperta nell’anima / Una possibilità infinita / Che diventa sensibile.
CC: Bones of Light esplora una narrazione che intreccia corpi, menti, paesaggi e percezioni in un universo di segni, colori, forme e materia, rivelando come l’abrasione su un supporto metallico possa fungere da metafora per dare forma alla materia attraverso un processo, una modalità che, come ha magistralmente spiegato Maurizio Calvesi in “Duchamp Invisibile” (1975), rientra nelle sottili chiavi interpretative dell’alchimia.
Quanto ti interessa l’alchimia, vista come un modo di immaginare la realtà, e in che misura pensi che quel processo di abrasione su un supporto metallico appena menzionato, e quindi la materia fisica trasmutata, si proietti sull’installazione?
MC: A dire il vero, non avevo contemplato nessun tipo di metafora o speculazione filosofica, ma non posso negare di essere affascinato dall’idea di “Oro Filosofico” degli alchimisti, e che mi capita di proiettare questa suggestione nel mio lavoro. I processi creativi di un artista hanno molto in comune con l’Opus Alchemico, nella misura in cui si proietta il pensiero sulla materia e lo si manipola con essa, dunque la trasmutazione più significativa si avvera sul piano psichico. Nel mio lavoro il processo di abrasione è un puro atto performativo affidato totalmente all’automatismo. È in questa gestualità che di fatto si intrecciano, o “solve et coagula” mente, corpo e opera; materia, segno e colore. La realizzazione di Bones of Light – chissà, forse anche per la suggestione indotta dal metallo – é stata qualcosa di straordinario, forse addirittura una palingenesi. Di certo il metallo è stato un catalizzatore, e la luce riflessa nelle abrasioni una rivelazione.
CC: Nel testo di presentazione della mostra, la curatrice, Giusi Diana, scrive che «l’opera ambientale e immersiva accoglie un flusso di segni, graffi e incisioni che […] formano l’alfabeto luminoso […] di una narrazione siderale che ci parla di processi interiori e dell’emersione dell’Imago, come figura archetipica». Vorrei approfondire con te questo aspetto dell’alfabeto, che mi interessa particolarmente, il cui retaggio affonda in molte esperienze del primo e del secondo Novecento, anche se, volendo, possiamo risalire ai primordi della pittura. Ecco che i tuoi segni, allora, enigmatici, richiamano immagini ancestrali, simili a grafemi, scritture cuneiformi oppure persino asemiche.
MC: Devo partire dai primordi di questo linguaggio segnico, com’è cominciato e dove. Vengo dalla pittura figurativa, e la trasfigurazione di questa è stata fisiologica, all’unisono con la maturazione della mia concezione cromatica. Ho raggiunto un momento importante di consapevolezza sul colore lavorando su Solar Plexus, un libro d’artista relativamente piccolo (aperto 16 x 20 cm), di circa duecento pagine ritmate da monocromi pittorici piuttosto psichedelici. Circa un anno di lavoro, tra velature, tempi tecnici e sperimentazione, durante il quale ho elaborato molto anche sulla spazialità e sulla forma. La realizzazione di questo ha scatenato una profonda crisi: qualsiasi cosa disegnavo o pensavo mi dava nausea, come se il colore la rigettasse. L’elemento da valicare era la rappresentazione, in funzione di qualcosa di puro e sentito che vestisse il colore, ormai protagonista della mia indagine.
Tornando al segno e all’alfabeto, l’insight è venuto sott’acqua, a mare. Osservando il fondale con una maschera da sub, mi sono ritrovato assorto in una sorta di meditazione contemplativa davvero profonda. Così, ho scorto nel fondo una pietra con delle venature molto interessanti. Avevo trovato la mia Aleph (da lì, ancora oggi, quando vado al mare, scruto le pietre in maniera convulsiva). Dunque, è stato un immergermi nel linguaggio della natura; ero ispirato dalla sua processualità talvolta lentissima, come ad esempio il processo metamorfico millenario della compattazione di una pietra e il disegnarsi delle sue venature. La veridicità e la forza di questi segni mi dicevano qualcosa. Ho iniziato a esplorarli, a catalogarli e a proiettarli su superfici per poi ricalcarli; volevo qualcosa di vero. A dare forza al mio linguaggio e farlo diventare automatico è stato l’uso delle smerigliatrici elettriche, che l’hanno portato anche su un livello performativo. Il primo segno è stato casuale, su un cuoio che avevo appeso in studio da mesi, su cui non sapevo proprio cosa fare; sarebbe stato troppo banale disegnarci o dipingerci, ero all’apice di quella crisi. Così, per caso, mi cadono gli occhi sulla smerigliatrice ed è partito il colpo: un segno che sembrava un ologramma fluttuante dentro e fuori da quella pelle, una rivelazione.
CC: Rimaniamo ancora su questo aspetto dell’alfabeto, che si rivela come una forma di scrittura tra l’alfa e l’omega, situandosi al di là dei confini dell’alfabeto convenzionale, in un territorio primordiale o successivo alla parola, dove significato e simbolo si fondono in una dimensione elusiva. È un tipo di scrittura che, al suo nucleo, disegna e non enuncia, servendosi di simboli e pittogrammi piuttosto che parole. Ritieni che questa forma di decostruzione del linguaggio porti con sé l’intrinseca capacità di trasmettere significato attraverso i suoi segni?
MC: Mi viene in mente il mito di Teuth di Platone. Il mito racconta del dio Teuth che propone al re Thamus, allora sovrano d’Egitto, l’invenzione della scrittura come farmaco della memoria e della sapienza. Il re sostiene che la scrittura possa scaturire l’effetto contrario: «[…] la scoperta della scrittura avrà per effetto di produrre la dimenticanza nelle anime di coloro che la impareranno, perché fidandosi della scrittura si abitueranno a ricordare dal di fuori mediante segni estranei, e non dal di dentro e da se medesimi: dunque, tu hai trovato non il farmaco della memoria, del richiamare alla memoria. Della sapienza, poi, tu procuri ai tuoi discepoli l’apparenza e non la verità».
Nella Grecia omerica si usava cominciare un discorso dicendo «ch’io possa dire esattamente cosa ho nel petto». Nel libro di Giordano Bruno che citavo prima, si parla spesso di «scrittura interiore in ognuno di noi». Posso immaginare che sia qualcosa che sta tra la parola e l’immagine, forse anche nella voce, ma non nella semantica. Credo che Giordano Bruno si riferisse a una «verità interiore», che tutti possiamo sentire, troppo complessa e astratta da padroneggiare concettualmente, e che dunque potrebbe essere interpretata attraverso un’immagine. Come qualcosa di ctonio, vivente dentro di noi, da catturare e intrappolare nell’immediatezza del segno. Mi vengono in mente gli ultimi lavori di Klee, delle grandi tele bianche con un solo esile segno a grafite, drammatico quanto l’immagine di un crocifisso, ma a differenza di questo, quieto e bellissimo. La sintesi perfetta di un grande artista come Paul Klee.
CC: Veniamo ora a un altro nodo della mostra, quello del pannello destro, dove emerge la figura di un cavallo, richiamando, a mio avviso, la dualità dei corpi celesti e il paganesimo dell’antichità, dalle riflessioni astrologiche alle rappresentazioni delle costellazioni. Può la figura, l’immagine o il simbolo del cavallo contenere una complessa rete di significati e valori, emanando un nucleo di profonda importanza e molteplici interpretazioni? Cosa incarna esattamente questo elemento che sembra illuminare visioni interiori, come se il cavallo, simbolo intramontabile, fosse un messaggero di mondi oltre il visibile?
MC: Quel cavallo era già lì, dentro la lamiera. Non pensavo che avrei avuto il coraggio di realizzarlo, ma quando ho dato il primo fondo piatto con la terra verde, era già ben visibile tutto il posteriore, con il sedere, la coda e la zampa sinistra. È emerso nella mia sfera onirica, irrompendo anche nell’astrazione del mio lavoro. Questo Imago, così primitivo e ancestrale, con la testa su una dimensione superiore, è anche intrecciato a una serie di eventi sincronici, come la scoperta della presenza della costellazione del Pegaso al di là del pannello. Come illustrato nel progetto grafico, durante tutto il periodo di produzione a L’Ascensore, è stato affiancato da un allineamento planetario che si è perfezionato tra il 4 e il 5 aprile, il giorno dell’inaugurazione, ed è stato molto suggestivo per me. Mi sembra il lavoro più astratto che ho realizzato fino ad oggi, appare così fantasmatico come lo era nei miei sogni. Ho realizzato un grande desiderio, quello di intrappolare un’immagine onirica e poterla osservare ad occhi aperti.