As if the world had no West
Antichi paesaggi, nuovi punti di vista
Cosa succederebbe se smettessimo di osservare il mondo che ci circonda attraverso un punto di vista strettamente occidentale ed eurocentrico? Mónica de Miranda esplora le infinite possibilità che scaturiscono da quest’interrogativo attraverso una serie di fotografie e un filmato proiettato su tre schermi che compongono la sua mostra As if the world had no West, allestita negli spazi del Polo del ‘900 di Torino, aperta dal 2 maggio al 2 giugno e realizzata in occasione di EXPOSED Torino Foto festival. L’artista è stata la vincitrice della prima edizione dell’EXPOSED Grant for Contemporary Photography, un bando di progetto su invito, grazie al quale si è aggiudicata un premio in denaro la possibilità di realizzare una mostra per EXPOSED.
La narrazione di una storia.
Mónica de Miranda utilizza la fotografia e il video per raccontare una storia che ha luogo in una parte del deserto del Namib in Angola, nell’Africa meridionale. La protagonista, vestita come un’esploratrice in un tempo sospeso tra presente e futuro, va alla scoperta di questo territorio accompagnata da un taccuino sul quale registra le proprie impressioni e degli schizzi veloci dei paesaggi e della flora che ha modo di osservare di prima persona. Nel corso del suo viaggio la protagonista entra in contatto con una serie di altri personaggi appartenenti a un passato non ben determinato che le trasmettono un sapere e una saggezza ancestrale che le permette di riconnettersi alle proprie radici.
La natura come espressione di un tempo circolare
Questa nuova consapevolezza di sé e della propria storia passa attraverso un rapporto con la natura estraneo ai canoni occidentali: questa viene vista non come un oggetto da sfruttare ma come un soggetto con il quale instaurare un rapporto dialogico e paritario. Il paesaggio conserva le tracce del passato ma porta in sé anche le potenzialità del futuro. È molto interessante come, da un punto di vista formale, le fotografie sembrano quasi richiamare alla memoria i famosi quadri romantici di Caspar David Friedrich, per il caratteristico contrasto tra la minuscola figura umana e lo sterminato paesaggio naturale. Tuttavia, in questo caso la differenza proporzionale tra essere umano e natura non serve a sottolineare l’insignificanza del primo quanto a qualificarlo come una piccola parte della seconda, in costante dialogo con essa. Tra i principali riferimenti dell’artista non si possono non nominare le ricerche dell’antropologo Augusto Zita, relative al deserto del Namib, interpretato come un complesso vivo e animato ma anche la cosmologia e le tradizioni bantu, nello specifico l’idea di un tempo circolare, senza inizio né fine. In questo senso la pianta della Welwitschia mirabilis, ricorrente più volte nel film ma anche protagonista di uno degli scatti più memorabili della mostra, è una vera e propria metafora della concezione della natura espressa dall’artista. Questa pianta esiste solo in questa parte del deserto del Namib e, crescendo circa due millimetri l’anno, arriva a vivere fino a tremila anni. La Welwitschia, dunque, è una testimone di quei processi storici di lunga durata come il colonialismo e la decolonizzazione, sui quali si concentra l’attenzione dell’artista.
Architetture abitate dalla natura
“Il tempo è la distanza più grande tra due luoghi” è il titolo di una serie di fotografie esposte, a prima vista alquanto enigmatiche. Queste rappresentano degli orologi abbandonati dai colonizzatori portoghesi, ritrovati dall’artista in un negozio in Angola. Il titolo risulta particolarmente efficace soprattutto se messo in relazione alle fotografie esposte nella parete di fronte, rappresentanti delle architetture coloniali ormai abbandonate e decadenti, apparentemente in contrasto con la natura circostante, che, tuttavia, penetra all’interno di questi luoghi, se ne riappropria, contaminandoli e alterandone significativamente l’aspetto.
L’allestimento
La mostra è articolata in due piani. Al piano terra, in un’ampia sala viene proiettato un video da tre schermi adiacenti, mentre nel sotterraneo le tre piccole sale della Galleria Voltoni ospitano le fotografie. Quest’ultime, stampate su d-bond, sembrano fluttuare nello spazio e contribuiscono, dunque, a connotare l’atmosfera contemplativa e apparentemente atemporale della mostra. Tuttavia, allo stesso tempo, questa scelta espositiva appiattisce i colori, rendendoli quasi muti e penalizza alquanto l’impatto estetico delle fotografie.
Con “As if the world had no West”, Mónica de Miranda provoca lo spettatore, invitandolo ad abbandonare i propri pregiudizi per poter adottare uno sguardo nuovo e più inclusivo, adeguato ad abbracciare la complessità del reale.
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