Proserpere. Presente indicativo
L’intreccio si fa forte delle proprie fessure
Durante Art City, tra la sede dell’Associazione culturale Artierranti e la Biblioteca Amilcar Cabral, a Bologna si è svolta la mostra personale di Noemi Mirata (Mineo, 1995) e il workshop ad essa connesso. Il mito di Proserpina e i concetti di ferita e confine costituiscono l’intreccio fondamentale del progetto.
L’erbaccia è una pianta spontanea che tanto violentemente viene presa di mira dall’essere umano quanto sfacciatamente ricresce là dove viene sradicata.
Negli ultimi anni questa pianta infestante si è insidiata anche nei pensieri di Laura Brambilla e Giorgia Casadei, curatrici dell’Associazione culturale Artierranti di Bologna. Quest’idea radicante – racconta Brambilla – si è andata a sommare ad un altro spunto di riflessione ricorrente: il mito siculo di Proserpina, rapita al mondo dei vivi per diventare sposa di Ade e regina del regno dei morti. Casadei ha notato un momento particolare di trasformazione identitaria nella storia della protagonista che, dopo il rapimento e l’accettazione del patto semestrale, passa dall’essere definita come “fanciulla” (kore) ad acquisire il nome proprio di Proserpina. Proserpere è un verbo latino che significa “uscire strisciando” e quindi riemergere.
In occasione di Art city 2023, in via Sant’Isaia 56, a Bologna, si apre uno spazio in penombra, illuminato innanzitutto dallo strato di sale che copre il pavimento della sala. Tutto l’ambiente si coglie in blocco come una foresta nascente dal ghiaccio, eppure il suo tepore, il prorompere dei germogli verdissimi dalle rette colonne di velo contraddicono la luce fredda dei neon e della superficie. Sulla sinistra, in forma di codice da maneggiare e interpretare con delicatezza, scorre tra le pagine la valle del Belìce. Si assiste, in particolare, al dialogo tra il fiume che attraversa la valle e il giglio di mare che la abita. La simbologia di purezza di cui è stata investita la pianta pare si scontri con la sua alta tossicità. Eppure è proprio grazie a questa caratteristica che riesce a crescere, nonostante la salinità del territorio. Questa duplicità è ribadita nel riscontro tra descrizione paesaggistica e biografia dell’artista e fa da coerente cappello di ingresso alla mostra.
L’artista Noemi Mirata (Mineo, 1995), molto tempo prima che la parola fosse abusata, ha fatto della resilienza un perno concettuale e formale in stretta correlazione – e collaborazione – con il mondo vegetale. Durante la preparazione della mostra, la scelta dell’artista è stata sempre più confermata dai riscontri che il mito fosse legato non solo alla ricerca ma anche alla biografia dell’artista siciliana.
Mangiare il melograno è il suggello del patto oltretombale e Mirata nel 2019 aveva girato il video – esposto in mostra al piano inferiore dello spazio – in cui, leggiadra, in mezzo a un paesaggio rigoglioso, divora con efferatezza lo stesso frutto sacro, che le sanguina sul vestito immacolato, in un rito arcaico affamato di vita. Nella promessa di Ade, inserita nel testo curatoriale, lui vantava alla sposa un giardino rigoglioso in cui, tra le varie meraviglie vegetali enumerate spiccava un “albero dalle fronde verde metallo” che nel 2021 Mirata ha realizzato. In fondo al nostro sguardo emerge quella che sembra l’ombra di un albero antico e, che avvicinandosi, si rivela essere un arbusto smilzo ma ferreo. Si tratta della Salicornia, pianta antichissima, facente parte della famiglia delle Amaranthaceae. Questa specie riesce a crescere in ambienti aridi e persino desertici solo grazie al rispetto e alla collaborazione con la sua colonia, la rete che costituiscono tra le radici. L’intreccio solidale è un altro tema fondamentale del progetto espositivo.
Quest’albero spoglio ma resistente è introdotto allo sguardo del visitatore dalla già anticipata opera site-specific per la mostra: la serie di piantagioni verticali di lenticchia – pianta resiliente per eccellenza – esplose di vita nella semioscurità dello spazio. Una delle germogliate colonne di velo anticipa il collegamento tra l’ambiente in superficie e quello sotterraneo, attraverso un foro nel pavimento. Lungo una scalinata si discende infatti in un ambiente buio, illuminato solo dal video e dalla scultura in vetro della Sigillaria, pianta estinta ormai circa 383 milioni di anni fa, la cui forma è stata ricavata da alcune tracce fossili e dalla loro ricostruzione grafica in 3D. Dimenticata sino a poco tempo fa, il paradosso è che ogni foglia lasciava, alla sua caduta, un segno visibile sul tronco. Il legame tra ferita e memoria è un altro tema del progetto.
Parallelamente alla leggenda, le curatrici – in coerenza al loro statuto che le vede erranti – hanno messo in dialogo l’artista con la Biblioteca Amilcar Cabral di Bologna, specializzata in letteratura indiana, africana e sudamericana. La biblioteca ha collaborato al progetto studiando una bibliografia di sessanta volumi tra i quali artista e curatrici ne hanno individuati venti. La bibliografia riguardava due direzioni. La prima indagava, da un lato, le piante “violente” che, in quanto “viaggiatrici”, tendono a colonizzare i territori che non appartengono loro; mentre dall’altro intendeva studiare tutte le varie forme di resilienza vegetale. Il secondo indirizzo di ricerca verteva invece il concetto di “confine”, intendendo la storia di Proserpina come quella di una migrante che si trova ad attraversare da una parte all’altra, senza posa, un varco imposto, che la costringe a vivere in un limbo eterno. Paradossalmente questa linea di passaggio è l’unico territorio che le è proprio. Negli Inferi è infatti sposa del re, mentre in superficie è figlia di Cerere, che governa la natura. La sua prossimità alle due potenze la rende paradossalmente loro suddita, mentre nel momento del passaggio è padrona effettiva del proprio agire.
Un testo in particolare ha accompagnato le curatrici e l’artista nella parte della produzione vera e propria, quello di Gloria Anzaldúa, una scrittrice femminista queer chicana, che descrive il confine come un “territorio opaco”, come una ferita i cui lembi corrispondono a due mondi che si incontrano. Una coincidenza interessante è stata rinvenire forti somiglianze tra Proserpina e la dea della fertilità che però – come tutte le divinità femminili estremamente potenti della mitologia azteca – è sprofondata nell’oscurità con l’arrivo della dominazione spagnola. Una sola, Coatlapeuh, è stata riabilitata dagli spagnoli ed è riemersa dall’oblio trasformandosi nella Virgen de Guadalupe, per assonanza. In lei si fondono i confini della violenza e della resilienza perché è sia simbolo della dominazione spagnola ma anche della resistenza azteca.
Ciò ha portato a dividere il progetto tra due luoghi: la mostra presso la sede di Artierranti, e il workshop tra i volumi della Biblioteca Cabral. Parte della ricerca di Mirata consiste nel condurre laboratori aperti al pubblico che hanno come scopo la realizzazione di installazioni collettive. In occasione di Art City, il worskhop proposto consisteva nella realizzazione di abiti che facessero sentire le partecipanti in comunione con la natura. La premessa era partire dal concetto di violenza in senso lato, per poi indagare quello di difesa attraverso la realizzazione collettiva di vestimenti attraverso l’intreccio delle foglie di sparto, un’“erbaccia” dalla quale una delle partecipanti veniva tenuta lontana dalla nonna sicula perché tagliente. Rivendicare quella vicinanza, manipolare e lasciarsi guidare dalla pianta stessa per vestirsi poi delle sue foglie è stata una vera e propria riappropriazione, esemplare di tutto il laboratorio. Come la pianta di sparto si lascia manipolare, alle sue condizioni – altrimenti ferisce – così Proserpina accetta la violenza, appropriandosene. Entrambe si lasciano piegare; non per lasciarsi distruggere ma per trasformarsi, facendo divenire i lembi delle proprie ferite degli argini di nuova linfa. Così, vestendosi degli intrecci creati, le tessitrici vegetali si sono tramutate in una versione rafforzata di sé stesse, a partire dai propri traumi.