Matteo Messori: in dialogo con l’artista
Quasi un anno fa – in occasione della mostra Boro – abbiamo avuto modo di aprire un dialogo con Matteo Messori, dal quale è scaturita l’intervista che proponiamo e un interessante spunto di riflessione, verso la ricerca dell’artista, da parte di Rossella Farinotti, che ne ha curato il testo critico.
Nell’aprile 2022, Matteo Messori espone un’evoluzione importante e significativa per il suo lavoro e la sua ricerca. Attiva un dialogo tra arti e materiali che si traduce in sensazioni multiple e aperte a interpretazioni varie e scolastiche, profonde e meramente materiche; una concessione, un lasciapassare nel mondo dell’artista, nella sua poetica, nella sua visione… blu. Il denim prende vita, le forme emergono e prendono posto nell’immediato intorno, o nella quiescenza, con l’intento di restare parte tangibile di quello che, di primo acchito, è un invito a scavare tra strati pensosi e filosofici di una contorta natura sociale, presente nell’immediato intorno, o nella quiescenza.
Il titolo della mostra, dalla quale è partito il lungo dialogo con l’artista Matteo Messori, è Boro – dal nome di un’antica tecnica di rammendo praticata dalle popolazioni rurali povere del Giappone – consistente nell’assemblaggio di pezzi di tessuto ancora utilizzabili, utile a creare nuovi indumenti rappezzati di un tipico colore blu indaco.
La mostra è stata allestita nello spazio Miori Showroom, organizzata e promossa da State Of – spazio espositivo fondato da Manuela Nobile – in collaborazione con Galleria Ramo e Atelier Florania ed è stata accompagnata dal testo critico di Rossella Farinotti.
A distanza di quasi un anno, abbiamo visitato lo studio di Matteo Messori; durante la visita ci ha spiegato come la sua ricerca continua verso le forme tridimensionali, proposte durante la mostra dell’aprile 2022, e ha posto ancora di più l’accento sul materiale che cresce, si modifica e prende posizione viziando e viziato dalle basi concettuali del volere dell’artista.
In questa intervista abbiamo chiesto a Matteo Messori e Rossella Farinotti di parlarci del progetto espositivo Boro.
Boro è un percorso quasi autobiografico che trova attuazione nella convivenza di elementi, caratteristici e non, del linguaggio pittorico. Come si sviluppa l’idea di usare mezzi differenti come il tessuto, le plastiche e il video e che ruolo hanno nella tua ricerca?
Boro è una probabile soluzione fisica per definire ciò̀ che è invisibile. Gli elementi, che appartengono alla pittura, attuano un esercizio fisico attraverso la memoria delle anatomie e la loro multidisciplinarietà. È proprio per questo che abbiamo voluto portare in mostra diverse metodologie per illustrare il concetto espositivo in atto. Partendo dall’utilizzo del Denim, per la realizzazione delle sculture indossabili, al video che ci ha permesso di mostrare l’utilizzo e la praticabilità̀ di alcune delle opere in mostra. Boro voleva essere una presentazione scenografica del “superamento” e della “militanza”, azioni che l’uomo esercita ogni giorno nell’andare oltre a uno stadio determinato della nostra vita, ovvero la “crisi”. Il ruolo dei materiali nella mia ricerca mi permette di attivare collaborazioni sempre più̀ intense con nuove realtà̀. Come nel caso di Atelier Floriana con la quale ho realizzato le opere Ruck e Tush, attraverso la tecnica “boro”, che dà il nome alla mostra. È proprio da questa collaborazione che ha preso vita tutto il progetto: i materiali diventano un intermediario per conoscere nuove personalità anche all’interno della propria ricerca, scandagliando sempre più rami e possibilità di cosa l’artista è capace di fare.
La relazione con il luogo scelto per la mostra da cosa nasce?
Io e Manuela Nobile, fondatrice del progetto nomade State Of, cercavamo uno spazio non ignaro al mondo della moda. L’idea di uno showroom era la più adatta alla presentazione del progetto. Era necessario inoltre trovare un luogo che avesse più̀ stanze così da poter dividere l’allestimento delle opere da quello del video. Trovare lo spazio di Miori Showroom è stata una vera fortuna perchè́ aveva tutto quello di cui avevamo bisogno, in più̀ gli appendiabiti in metallo già̀ presenti nelle stanze ci hanno permesso di alternare l’esposizione a parete, rendendo l’allestimento più dinamico. Il progetto Boro guardava molto al mondo della moda, gli approcci che mi hanno coinvolto nella preparazione del tutto erano simili a quelli che si hanno mentre si crea una linea di abbigliamento; dalle armature dei samurai al mondo degli anime, le reference sono state tante. La più determinante è stata quella delle processualità̀ legate al mondo della moda, e in fase di allestimento l’intento non era tanto quello di vendere un prototipo finito, ma il suo trascorso attraverso i contenuti teorici del progetto Boro.
Il blu è un colore simbolico, per natura e per percezione. Hai voglia di spiegare l’utilizzo dei suoi toni nel tuo lavoro?
Beh per me il bilanciamento dei toni nei miei lavori non è solo importante, è vitale. Devi sapere che io guardo all’accostamento dei colori un pò come alla cucina, l’ho capito solo di recente. Quando ho a che fare con il mio piatto vedo un fondo di grigio avio, una prospettiva cerulea e infine servo un peso all’interno dello scenario, un oggetto fluido e profondo di una tonalità che va dal prussia al cobalto. In studio tengo una sorta di ricettacolo dove mi segno le composizioni che creo, quelle che stanno meglio e anche quelle che stanno peggio. L’obiettivo è arrivare a una sintesi, come quando ti dicono che per fare un buon piatto bastano pochi ingredienti. Il mio rapporto con il blu è di per sé un grande viaggio, ogniqualvolta mi pongono la domanda “perché il blu?” preferisco non saperlo neanche io il motivo. Il giorno in cui definirò questa mia ossessione sono certo che passerò a usare un altro colore. Guardando ai toni usati in mostra la prevalenza cromatica cade sull’Indaco. Interessante è stato scoprire che nelle risaie giapponesi le mondine erano solite indossare indumenti in denim proprio in color indaco. Questo allontanava i serpenti perché lo associavano ad un fiore velenoso. Trovo sia affascinante come le scoperte vengano fuori man mano che i progetti si sviluppino.
Ci vuoi spiegare come e quando arriva la necessità di portare oltre la pittura il tuo linguaggio e come per essa diventa essenziale la manifestazione in video, magari attraverso un excursus della tua ricerca?
La necessità di toccare più media per la mostra Boro è nata proprio perché avevamo molto materiale espositivo a disposizione. Ci siamo trovati a utilizzare molti media perché abbiamo iniziato a lavorare alla mostra con largo anticipo ed in ogni elemento c’era molta sintonia, cosi ci sembrava fondamentale per arricchire il progetto espositivo. Inoltre il video racchiudeva il senso della mostra non solo per la sua estetica ma anche nei suoi contenuti. Con la sola pittura non potevo mostrare tutto il lavoro fatto, la documentazione video di questo giocatore di rugby che si esercita indossando le opere, era la chiusura di un percorso espografico, accompagnato dal telo da pioggia steso a terra, alle sculture indossabili appese a parete e agli appendiabiti posti lungo tutto lo spazio espositivo. Nello specifico la mia esigenza era quella di creare un percorso tridimensionale, un itinerario dove i sensi si accendono e entrano in dialogo tra di loro. Ad esempio con le pitture a parete dal titolo Petricore ho permesso al fruitore di percepire una sensazione romantica come quella della pioggia che toccando il suolo crea una reazione chimica dando vita ad un odore percepibile solo dopo mesi di siccità. Come vedi tutti i media hanno il loro ruolo: il telo da pioggia ci ricorda di essere presenti in uno spazio, le sculture indossabili provocano un’assenza, le pitture a parete determinano un climax e il video crea un movimento fisico molto performativo. Anni fa guardavo molto più alla mera scultura, ora mi piace unire le forme dando così gioco alle installazioni pittoriche di prendere piede negli spazi in cui lavoro.
Quali progetti hai per il futuro?
Al momento i miei progetti guardano all’utilizzo del Denim; dopo svariati tentativi ho capito che questo è il mio materiale prediletto. Con esso riesco benissimo a dipingere ad olio e a stendere tutte le tipologie di colore, lavorando anche su grandi formati come gli arazzi. La cosa che più mi intriga però è la sua plasticità che mi permette di immaginare delle sculture rivestite in denim. Per le mie prossime produzioni appunto guarderò alla realizzazione di corpi ibridi senza una identificazione, tornando al concetto di Antiforma a me molto caro. Ho da poco concluso una residenza nel deserto della Bledowska in Polonia organizzata da Lios Labs. Un luogo complesso dove far ricerca, ma per me molto stimolante. Mi piace trovarmi in situazioni dove viene messa alla prova non solo la ricerca artistica ma anche quella fisica. Penso che le due cose siano correlate, dato che il corpo è un generatore e ha bisogno di essere stimolato a sua volta. Ciò permette in seguito di vedere il mutamento della propria ricerca in un luogo non consono ai canoni massificati della società. Come artista sono molto affezionato alla natura e ai suoi volti, una volta all’anno mi concedo un periodo dove mi ritiro e mi dedico totalmente ad essa. In questo periodo invece ho scelto di prendermi del tempo per concretizzare e mettere in ordine il lavoro fatto negli ultimi due anni. Sto iniziando a portare la mia arte più vicino al mondo scolastico, infatti verso fine settembre consegnerò al Comune di Reggio Emilia un’opera permanente concepita dopo un progetto con le scuole in collaborazione con i Musei Civici di Reggio Emilia. Da li in poi si vedrà. È nei miei piani prendere studio a Milano così da poter consolidare la mia ricerca sulle opere indossabili insieme ad Atelier Florania e nel campo del tessuto.
Rossella Farinotti ha scritto il testo critico della mostra Boro che puoi leggere qui.
Come si è sviluppato il tuo legame con il progetto Boro e con Matteo Messori in generale?
Ho conosciuto Messori nel 2019 durante una residenza a Pescara. Dialogando con lui è nata prima un’amicizia e poi l’interesse per il suo lavoro che si stava formando. Dunque il legame con il progetto Boro lo farei risalire da li, dai primi dialoghi insieme che ci hanno portato prima alla mostra collettiva Total Recall, poi a qualche progetto collettivo permanente – penso a Cittadella degli Archivi o al “Colouring Book” sviluppato con Gianmaria Biancuzzi – in cui ho invitato Matteo a partecipare. Quando sono stata chiamata dall’artista e dalla curatrice a scrivere il testo per Boro dunque sapevo da dove iniziare, raccontando un po’ il pregresso del lavoro di Messori che lo ha portato alla collaborazione con Atelier Florania e allo sviluppo dei pezzi che erano in mostra, uno dei quali è arrivato in finale al Premio Fabbri e alla mostra curata da Carlo Sala da poco conclusa. Non sapevo dove sarei andata a finire nel racconto di Boro, ma la mescolanza tra la pittura di Messori, la sua energia nel collaborare con realtà diverse come quella del jeans e della moda unite alla sua biografia, hanno fatto in modo che il testo critico venisse da sé.
Cosa senti di affermare in merito all’attività̀ artistica di Matteo Messori?
Rispetto al percorso che ho seguito dal 2019 Messori può essere definito un grande sperimentatore e un tenace lavoratore. Divide la sua attività lavorativa tra l’insegnamento, che segue con passione (cosa rara a volte per un artista) e la realizzazione e trasposizione del suo timbro formale – una forma che si ripete in maniera ossessiva – sui più diversi media – pittorici, scultorei, installativi – e con le più svariate derive. Boro ne è stato un esempio qualitativo e ben realizzato.