Where Where Where: seconda tappa
Il progetto Where Where Where risponde alla previsione di Robert Musil secondo cui in futuro l’arte si sarebbe manifestata là dove meno ce lo si aspettava. Quando Alessio Barchitta mi ha parlato per la prima volta della sua idea, mi ha detto che il progetto nasceva dal desiderio di operare in contesti extra-artistici. La prima destinazione era un cratere. Un cratere dell’isola di Vulcano, a 400 metri dal mare. Un luogo insolito, come tutte le tappe che sarebbero seguite. L’aspetto più intrigante non è tanto il fatto che un artista volesse lavorare all’interno di un cratere, ma il fatto che ci volesse organizzare un’esposizione. Il vulcano diventava il luogo espositivo; dopo il vulcano, un terreno estrattivo, un altopiano… Musil aveva capito che come l’arte di inizio Novecento usciva dalla tela, l’arte della fine del secolo sarebbe uscita dalla galleria, dalla dimensione familiare delle mura e del museo. Un vulcano è una meta più interessante di una galleria; una fontana medievale di un museo; il campo di una fattoria; ma anche la sua stalla: o l’animale; una cabina armadio di una stanza. Uno spazio senza spazio fisico o una distesa di neve. La nuova generazione di artisti emerge e si auto definisce in questi spazi omessi, per logiche interne, dal sistema. Luoghi che abbracciano il desiderio di sperimentazione e di relazione, diventandone spesso i catalizzatori. Ma nel momento i cui un il sistema dell’arte distribuisce gli oggetti nello spazio sociale, queste narrazioni laterali e transitorie, effimere per loro stessa natura, scompaiono.
Where Where Where raccoglie lo spirito di questa ricerca in seno al rapporto col fuori, un altro potenziale Fuori rispetto a quello visto alla Quadriennale di Roma. Anarchici, effimeri, mutevoli e inaspettati sono i progetti e gli spazi indipendenti che danno voce all’arte emergente che prolifera fuori dagli spazi convenzionali. L’unico modo di farne testimonianza rimane il principio della narrazione. Bisogna scriverne la storia, per immagini o parole, prima che il catalizzatore di questa esperienza si dissolva come il materiale di una inevitabile reazione.
La seconda tappa di Where Where Where ha luogo sull’altopiano di Argimusco, una finestra privilegiata che si affaccia sull’Etna e invita a perdersi e camminare tra le atipiche conformazioni rocciose delle sue valli. Il progetto sull’Argimusco è in un certo senso una mostra delegata allo spazio. La delega è come “l’azione di un attore”, con le parole di Latour, “da tempo scomparso, che è ancora attiva, qui, oggi, su di me”. L’altopiano è scandito da speroni rocciosi di arenaria che prendono la forma di misteriose e inevitabili presenze. Ogni scelta è condizionata al paesaggio naturale. Gli artisti raccolgono ciò che trovano per poi restituirlo, dopo un processo di reinterpretazione, al luogo dove l’han trovato. Un’immagine; degli oggetti; dei calchi: oggetti donati come omaggi a un santuario al tempo stesso archeologico e naturale.
L’origine dei megaliti dell’Argimusco, che assomigliano a figure umane e antropomorfe, è ancora oggi incerta, sul fatto che siano opera per mano umana – come Menhir – o rocce naturale disegnate dal vento. Questa incertezza permette di speculare ogni volta sull’osservazione di una forma che esige una risposta. La pareidolia è un fenomeno per il quale si tende a vedere forme e oggetti riconoscibili nelle strutture amorfe che ci circondano. Queste immagini – stimoli ambigui – consentono di proiettare liberamente dei contenuti del proprio inconscio sull’oggetto. I megaliti hanno assunto nel tempo i nomi più diversi: l’Orante, l’Aquila, il Babbuino… la proiezione nasce da un primario meccanismo di difesa che dà significato e rende riconoscibile ciò che ci circonda.
L’intervento degli artisti è in certo senso una “scrittura ecologica” del (e con) l’altopiano, in cui è all’opera un generale principio di coesistenza tra le entità. Alessio Barchitta trascrive i profili di un complesso megalitico su una tavoletta – realizzata con resina e sabbia del posto – per restituire l’immagine della conformazione da diversi punti di vista. Il lavoro risulta così, allo stesso tempo, la replica dell’originale e un’interpretazione che muta di significato a seconda della prospettiva e di chi la guarda.
Bernardo Tiraboscho riprende la natura morta del paesaggio attraverso calchi in cera, che riportano elementi del ciclo della vita che si svolge nel luogo. Cardi, ossa, arbusti e ricordi vengono disposti in maniera strategica lungo le pareti dei megaliti come una mise en scène che reinterpreta ciò che già ne fa parte. Arianna Pace ha scelto il punto più alto dell’altopiano, la sommità di uno sperone che domina la vallata. All’interno di una pozza naturale della roccia, delle opere in terracotta emergono verticali, proiettando sulla pietra un’ombra come meridiane diffuse. Questi steli sembrano voler riconnettere l’uomo al cielo, da cui si dice provengano le stesse rocce, come narrano alcune storie.
Gli artisti hanno riflettuto su ciò che distingue un progetto immerso nella natura da una mostra all’interno white cube. Il progetto sull’Argimusco fa leva sul principio di correlazione con il contesto piuttosto che sull’abituale “regime di separazione”: una nozione che descrive, secondo Von Hantelmann, la logica dello spazio-galleria (Cfr. What is the new ritual space for the 21st century.) Il “regime di separazione” esclude il mondo esterno e determina una netta opposizione tra soggetti e oggetti e presentando all’interno dello spazio mostra.
La separazione nasce su un presupposto d’estrazione del lavoro da un contesto originario. L’esistenza degli oggetti è subordinata alla percezione dello sguardo del soggetto e da essa dipende. In una galleria, difficilmente sappiamo come un’opera ricontestualizzata è nata, da dove viene e per quale motivo. Progetti come Where Where Where, invece, presentano gli interventi nel contesto che li ha generati e vi portano lo spettatore a confrontarsi, allargano gli orizzonti di lettura e interpretazione.