Art

Visibilia

Rendere visibile l’invisibile

 

Il processo di apprendimento umano avviene per due vie: quella razionale del lògos e quella dell’intuizione, cioè del pensiero per immagini. L’invisibile fa parte della vita umana tanto quanto il visibile. L’uomo è mosso infatti da due tipi di desiderio: percettivo e cognitivo. L’arte è uno dei pochi luoghi dove entrambe le tipologie di desiderio possono essere esaudite contemporaneamente. Nell’arte le dimensioni del visibile e dell’invisibile, del razionale e dell’irrazionale si toccano; l’incontro è recepito dall’essere umano attraverso l’estetica, nel suo senso etimologico di aisthesìs (“percezione”). Alla sua ricezione da parte dei sensi corrisponde una risonanza interiore, spirituale.

La mostra Visibilia, progettata e curata da Isabella Puliafito, prende forma all’interno del Museo di Palazzo Ducale di Gubbio, diretto da Paola Mercurelli Salari. La programmazione del museo alterna infatti la sua attenzione per l’arte rinascimentale a un focus sul contemporaneo, nell’ottica di un incontro proficuo tra passato e presente.

Scrive la curatrice:

 

«Separare l’invisibile dal visibile è possibile solamente all’occhio umano. L’invisibile non ha forma di per sé. L’artista gliela conferisce per rendere percepibile ciò che sfugge agli sguardi veloci, viziati dall’abitudine di guardare alla realtà come se questa si esaurisse in ciò che appare alla retina. Visibilia riguarda il mondo delle vibrazioni, delle energie sottili che ogni cosa, oggetto animato e inanimato, emette finché ha vita. Riguarda il mondo del sogno, dell’immaginario in cui è difficile separare la materia dalla sua essenza, e non percepire le vibrazioni energetiche delle sostanze e la loro vita interiore.
Spesso il fattore spirituale è insito nell’arte anche quando la sua ricerca se ne discosta. Sicuramente non era preminente nella ricerca artistica degli ultimi decenni ma, come lo stesso Germano Celant aveva anticipato, dopo l’arte povera è avvenuto uno spostamento verso una certa spiritualità e una progressiva smaterializzazione. Con Visibilia ho voluto raccogliere alcuni artisti nei quali ho intravisto una certa tendenza in questa direzione, per cominciare ad evidenziarla».

 

L’esposizione unisce trentasei artisti provenienti da tutta Italia, appartenenti a tre diverse generazioni.
In un certo senso la mostra si inserisce nel percorso tracciato dalle varie edizioni della Biennale di Scultura tenutesi a Gubbio a partire dal 1956 e che si sono interrotte dopo il 2017. Visibilia si discosta dalle manifestazioni espositive precedenti, incentrate sui materiali, riunendo artisti che li approcciano attraverso la lente della leggerezza, dell’ineffabilità e della caducità.
In Visibilia l’invisibile prende svariate forme sia attraverso materiali leggeri – la luce, la carta, la cenere –  sia attraverso medium più corposi, come la terracotta e i metalli.

 

Valentina Colella mette in luce un’opera site-specific, intagliando il profilo degli animali dello Studiolo di Gubbio in un corpo di 120 fogli per ciascuno. I tasselli originali dello Studiolo, infatti, sono stati venduti al MET di New York. L’artista se ne prende cura, ribadendone il vuoto e restituendone il pieno con un’installazione di piccole sculture che ogni visitatore poteva portarsi via in cambio di un desiderio.

Col vuoto architettonico giocano invece l’opera ambientale di Remo Salvadori e i lavori pluridimensionali di Chiara Gambirasio e di Muz (Samuel Rosi). Salvadori connette in un dialogo rinnovato, tra forme singole e plurali, tra concavità e convessità, gli angoli del cortile interno del castello; mentre Focali, Cosmo in vaso e Arco riflesso interpellano il visitatore: dove si trova il confine tra un colore e l’altro? E tra una dimensione e un’altra? Dove finisce la pittura e inizia l’architettura?

Intessute d’aria sono invece, in modo completamente diverso, le sculture reticolari di Daniela Capaccioli, il paesaggio merlettato di Agostino Osio i gomitoli foliari e i rami di Elisabetta Di Maggio, così come le geometrie vegetali di Pinuccia Bernardoni. Le prime, collocate nella terrazza-giardino del Castello e raffiguranti figure mitiche, costituiscono un filtro alla visione del paesaggio e allo stesso tempo ne fanno parte, portando lo spettatore a intuire la complessità del legame tra oggetto dello sguardo e punto di vista del soggetto. Il secondo fornisce una visione personale dello stesso paesaggio, restituendo col mezzo fotografico la dimensione temporale dello sguardo che su di esso si è posato. Le terze ingannano l’occhio in un trompe-l’oeil materico, visualizzando una spessa fragilità interiore, attraverso diverse metafore vegetali. Nelle quarte tale meccanismo si inverte, dando vita a un’alchimia: la foglia, raccolta, forata e incorniciata diventa materiale scultoreo.

In alcune opere è il processo materico a emergere per primo. Le trame ricamate del collettivo Didymos sembrano voler elevare al cubo l’invisibile, cucendo il bianco sul bianco stesso. Le costellazioni di forme in gomma, di Luisa Elia, parlano del (ri)abitare l’interstizio tra la materia, quindi il corpo, e il cielo, quindi lo spirito. Le prove di inesistenza di Silvana Camoni mimano le sfilacciature delle certezze; sono autopsie, interrogazioni, spaesamenti della simmetria che ognuno di noi si costruisce. I respiri spirituali di Jaya Cozzani visualizzano, tramite le sfumature del blu e la reiterazione della forma, le vibrazioni dell’anima. Le cristallizzazioni di Francesca Romana Pinzari parlano dell’attitudine a coltivare, del passare del tempo, della metamorfosi; da strumenti performativi sono infatti diventati essi stessi performance, la cui forma scultorea costituisce la traccia.

La costellazione invisibile, resa palese dalla Stanza degli sguardi lontani, è quella di un’amicizia e di una collaborazione tra quattro artisti: Loris CecchiniLuca PancrazziElena El Asmar e Concetta Modica, che mettono in scena un’antologia di lavori singoli incentrati sullo stesso tema.
Nello Teodori invece rende percepibile, in una sinestesia paradossale, la temperatura dell’opera d’arte, così come i pavimenti di Salvatore Falci rubano la traccia di una camminata o di uno scarabocchio realizzato al tavolo di un bar, da parte di persone di passaggio.
Maria Elisabetta Novello dà corpo all’anima tramite la cenere, materiale al limite dell’inesistenza che ricorda la fine della carne, così come le canne di Marco Bagnoli – una metallica e una in ceramica rossa – danno indizio del respiro dell’uomo e della terra.

Anche l’interpretazione della mostra da invisibile si rende visibile nella lettura fotografica ad opera di Gino Di Paolo, fotografo di opere d’arte dagli anni Settanta. La sua documentazione restituisce un’ulteriore prova della ricchezza semantica dell’opera d’arte e di quanto la sua interiorizzazione sia intima, personale, unica.

 

 

Artisti partecipanti: Remo Salvadori, Marco Bagnoli, Elisabetta Di Maggio, Sophie Ko, Massimo Uberti, Loris Cecchini, Luca Pancrazzi, Pinuccia Bernardoni, Valentina Colella, Maria Elisabetta Novello, Francesca Romana Pinzari, Marco Andrea Magni, Elena El Asmar, Agostino Osio, Barbara Amadori, Jaya Cozzani, Maya Pacifico, Daniela Capaccioli, Luisa Elia, Alberta Pellacani, Concetta Modica, Salvatore Falci, Isabella Puliafito, Didymos, Arianna Giorgi, Vivianne van Singer, Jo Egon, Davide De Francesco, Nello Teodori, Silvana Camoni, Chiara Gambirasio e Samuel Rosi, Susanna Baumgartner, Elio Marchesini, Livia Mazzanti, Francesco Voltolina.