Impro #1
Fabrice Bernasconi Borzì e Ivan Terranova in duo
Da poco conclusasi alla Galleria Massimo Ligreggi di Catania, Impro #1 è stata la bipersonale di Fabrice Bernasconi Borzì e Ivan Terranova, entrambi finalisti del talent road show Jaguart promosso da Artissima Torino nel settembre del 2020.
Quell’evento provocò una scintilla, l’esordio di un confronto e di un dialogo tra i due artisti che spinse Carmelo Nicosia ad ideare una mostra che potesse fondere due visioni, lontane per certi aspetti, ma accumunate da un unico fine: il ruolo dell’artista nel mondo.
I due solisti si incontrano, si scrutano, perlustrano i rispettivi linguaggi per farne territorio di indagine. L’uno si appropria della caratteristica dell’altro, la enfatizza a tal punto da spingersi sul confine di appartenenza mediatica in uno scambio di parti: l’installazione con la fotografia, la fotografia con l’installazione.
Ed è così che hanno dato avvio alla loro improvvisazione, termine derivante dal gergo jazzistico in quanto ambito di privilegio per Ivan che ha studiato per molto tempo pianoforte in qualità di concertista jazz. «Impro è il momento dell’inizio della registrazione dell’album in cui il duo di musicisti comincia a suonare liberamente, un modo tipico del jazz contemporaneo. Una libertà assoluta che tende man mano a convergere verso un unico indirizzo che muove i due artisti a suonare all’unisono».
Il tratto estemporaneo e la composizione effimera del posizionamento di un oggetto nello spazio, ricercato casualmente nel caso di Fabrice, al contrario analiticamente studiato da Ivan, direziona l’apparato concettuale delle ricerche dei due artisti che improvvisano simultaneamente nella costituzione di un processo, volto a sondare le composite possibilità di incrocio di generi e forme.
I lavori si combinano come pezzi di una stessa partitura, si attraggono vicendevolmente ponendosi in contrasto sulle quattro pareti.
I limiti culturali e la tradizione, interpretati nell’accezione di demarcazione antropologica, si stratificano sull’impianto filosofico dei lavori this could be di Beransconi Borzì e Giardino Kimbei di Terranova.
La serie fotografica this could be riproduce icone e simboli del Sud Italia, oggetti disposti accidentalmente, precari nella loro transitorietà, ai quali si potrebbero attribuire una potenziale qualità artistica. Gli elementi minimi esaltati stravolgono l’aspetto consuetudinario a vantaggio di quello irrazionale in una dinamica del recupero di stampo situazionista. In costante equilibrio/squilibrio tra due poli geografici opposti di provenienza, la Sicilia e la Svizzera, l’artista dichiara il carattere provvisorio della sua arte, appigliandosi ad una sorta di filosofia dell’idiozia, che lo pone in una dimensione di evanescenza stilistica, includendo persino le immagini ridimensionate e ritoccate secondo la tecnica della quadricromia.
Un locus amoenus quello ritratto nell’albumina del 1870 dal fotografo giapponese Kusabe Kimbei, che viene analizzato, scansionato, ingrandito ad altissima risoluzione da Terranova per coglierne gli impercettibili dettagli fotografici, documentandone la stratificazione del tempo trascorso attraverso il deterioramento della stampa. L’interesse dell’artista per la storia della fotografia e per l’idea di paesaggio come zona di confine tra l’ambiente e l’uomo, uomo che delimita artificiosamente la natura costringendola all’interno della limatezza del giardino, lo conduce a realizzare dodici cerchi in plexiglass. Le frazioni fotografiche dilatano gli errori dell’autore, le sporcature del colore e si tramutano in paesaggi altri, circoscritti ulteriormente, che mettono in evidenza ogni lieve peculiarità figurativa della superficie.
I poteri forti dell’economia e del consumismo soggiogano la cultura e l’etica ambientale rispettivamente in untitled, for the moment, polaroid project di Fabrice e in Una strana estate in montagna di Ivan.
In maniera ironica e paradossale, Fabrice compone una sovrapposizione di etichette commerciali e di vedute che rievocano il tema del viaggio in Italia con lo scopo di esplicitare il depauperamento intellettuale cui sta volgendo la società contemporanea. Il busto dell’uomo baffuto della birra Moretti in primo piano si contrappone al sottostante sfondo raffigurante la statua decapitata di Ferdinando I di Borbone di fronte al Palazzo Biscari di Catania, in un gioco di rimandi storici e storico artistici, così come la faccia paffuta del pizzaiolo invade prepotentemente i faraglioni di Acicastello.
La forza prevaricante dell’uomo, allegoricamente simboleggiato da un fintissimo albero di Natale addobbato con tanto di luci, domina, anche qui, sul paesaggio naturale, uno scenario-cornice composto minuziosamente in un’ installazione che rappresenta una messa in scena architettata tra il reale e il fittizio. Si delinea una riflessione sulla inevitabile e cavalcante divaricazione uomo-ambiente, che immette una lente di ingrandimento sulle contraddizioni della nostra epoca.
Il fraseggio finale si conclude, invece, nella piena coincidenza di intenti: due installazioni dalla stabilità precaria, sul punto di rovesciarsi rovinosamente per terra, sono trattenute esclusivamente dal peso del materiale.
Antihero è un assemblaggio scultoreo di due oggetti materialmente mediocri, che si mantengono in equilibrio grazie alla loro svettante verticalità per il tramite di forze antitetiche. Viene declamata un’apologia dell’inutile, che vuole emulare il codice di composizione classica della scultura perché possa essere parodiato e dissacrato.
Pelle è un oggetto scultura in plexiglass che espande le viscere più profonde delle cave di marmo, ne estende la ferita con la sua policromia sottile. La cava è il luogo del totale compromesso dove creazione e distruzione si avvicendano in un perenne mutamento.