Dialogando con Caterina Morigi
L’essenza poetica della materia
Nella storia dell’arte la pratica del copiare affonda le sue radici nell’antichità e viene reiterata attraverso i secoli per rievocare la tradizione nella riproducibilità del prototipo.
«Il modello è nell’immagine, se ne differenzia per la sostanza […] In virtù dell’imitazione l’immagine e il modello sono una cosa sola», attestava Teodoro Studita nel IX secolo nell’Epistula ad Platonem a proposito, per esempio, delle icone bizantine. L’immagine copiata doveva rassomigliare fedelmente al suo originale archetipo per garantirne la veridicità.
Ma potremmo chiederci in fondo qual è la differenza tra la copia e il suo originale? Soprattutto come disvelare un presunto concetto di verità? Probabilmente lo potremmo ritrovare nella sua archè, nella sua sostanza primigenia: la materia, che diventa l’oggetto di studio della giovane artista Caterina Morigi.
Archeologia della materia è la sua recente personale esposta nelle sei bacheche di Neutro, lungo il passaggio commerciale che collega via Emilia a Piazza Prampolini al centro di Reggio Emilia. Sondando i processi di stratificazione della materia, palesando la sua onestà, Caterina mostra una selezione di pietre naturali sottratte da luoghi significativi, poste a confronto con le loro riproduzioni in porcellana, realizzate in collaborazione con i maestri della Real Fabbrica della Porcellana di Capodimonte. L’accostamento dei due elementi equivalenti provoca una distorsione percettiva nello scambio dell’uno con l’altro.
Provieni da Ravenna, l’antica capitale dell’Impero romano d’Occidente, una città che trasuda di archeologia e di sedimentazione storica. Non è affatto un caso che la tua attenzione si sia concentrata sull’archeologia, sulla storia dell’arte e sull’idea di mimesis. Le bacheche di Neutro sembrano mimare le teche di un museo archeologico. Potresti parlacene?
Da sempre ho nutrito un forte interesse per l’archeologia, fin da bambina quando avevo imparato a traslitterare i geroglifici e ogni volta che vedo un reperto il mio occhio viene subito attirato.
Nel momento in cui ragazzi di Neutro mi hanno proposto di fare la mostra, non appena ho visto le bacheche, ho considerato l’idea di trasformarle nelle teche di un museo. Accade spesso poi che le stazioni, luoghi per l’appunto di passaggio, siano diventate sede di esposizione di antichi reperti. Mi vengono in mente, per esempio, le stazioni come quella di Ravenna o la metro archeologica di San Giovanni a Roma.
Il mio lavoro riflette molto sulla relazione di vicinanza e lontananza tra copia e originale, intesa come nell’antichità. Penso alle statue dell’imperatore che venivano spedite ai margini del regno lì dove non poteva presenziare per un atto di celebrazione. Le statue poi sappiamo, come spiega Settis, che venivano riprodotte in serie. Io realizzo la copia di una pietra, di un sasso, per fare un omaggio alle pietre dalle fattezze naturali. Che poi naturali fino a che punto?
Si tratta in realtà delle forme che il materiale lapideo ha assunto a seguito degli urti e della levigazione di altri agenti esterni come il mare oppure della mano dell’uomo stesso che lo intaglia. Mi piace considerare queste mie sculture di porcellana come dei ritratti (Portrait) e nel caso dell’esposizione di Neutro ho notato che i maestri della Real Fabbrica, senza che me lo chiedessero in maniera esplicita, hanno realizzato le copie in maniera speculare, come se la pietra potesse guardarsi allo specchio, se solo avesse gli occhi.
Tu parli di onestà della materia. La tua indagine ricalca non solo lo studio archeologico, come abbiamo accennato, ma anche quello geologico nella scomposizione della struttura della materia.
Sincerità (Honesty of matter) è un’espressione che ho preso spunto dal dialetto napoletano, durante il mio periodo di apprendistato con i maestri della porcellana. A Napoli sincero è un aggettivo che mi sono trovata di fronte più volte e solitamente è il frutto ad essere sincero, il suo gusto ne rispecchia la bellezza. La sincerità appartiene per me anche alla porcellana perché è necessario un uso molto sapiente della materia fittile per raggiungere il risultato ottimale.
Il mio modo di guardare le cose e di restituirle ha sempre dei tratti poetici, anche se i metodi che utilizzo sono molto vicini alla geologia e alla scienza, tant’è che molto spesso collaboro con i ricercatori. Aprirmi verso uno sguardo ravvicinato, come nella pubblicazione che accompagna la mostra. Ho deciso di usare il microscopio per andare vicino alla materia, perlustrando le cavità.
La pietra appare solida ed ermetica, non consente il passaggio di sostanze esterne, non ha pertugi che la rendano assorbente come una spugna. Nella poesia “Conversazione con una pietra”, Wislawa Szymborska parla della sua impenetrabilità. Per me ermetico assume per di più un’altra valenza, che reputo molto affascinante, perchè può essere interpretato come enigmatico o alchemico.
Nella mia pratica non effettuo una manipolazione, ma evidenzio con lo sguardo e piccole aggiunte. Si tratta piuttosto di una maieutica, è la materia stessa che si muove da sola, sono gli agenti casuali che influiscono su di essa.
Il tempo, agente trasformatore che plasma e rigenera, è un concetto fondamentale nella tua ricerca. Come agisce sul tuo lavoro?
Il tempo rivela la stratificazione ed è un link per riallacciarmi a un altro macro tema che fa parte della mia ricerca: il rapporto tra uomo e natura. Ho sempre lavorato sulle superfici delle cose e sulle superfici umane, quindi la pelle, l’epidermide (1/1 e Sectilia). Ad essa la superficie della pietra è accumunata dalle tracce, da questa somiglianza visiva che è data da una storia intrinseca della materia lapidea, a partire dalla sua formazione.
Marguerite Yourcenar ha intitolato un saggio al tempo quale grande scultore. La scultura non avrà mai una fine perché sarà il tempo a proseguirla con tutte le sue tracce.
Nella mostra il carattere mutevole è affidato all’opera della mano dell’uomo, quella mia e degli artigiani. All’interno delle singole coppie, c’è un modo diverso di avere copiato, imitato e osservato l’originale. Da una parte si rileva le particolarità del materiale naturale e dall’altra il modo differente in cui ogni artigiano ha interpretato la sua copia. Si nota come in alcune sculture siano state messe in rilievo certe punte, guglie quasi gotiche.
Da parte mia ci sono stati invece degli errori ed è molto interessante evidenziare l’aspetto della percezione, pensiamo a come la mimesi in pittura arrivi fino ad un certo punto, perché tutto viene appiattito in due dimensioni, mentre con la scultura si raggiunge un grado di realtà differente, il risultato sarà “praticamente” identico.
Una bacheca è stata interamente dedicata a 53 piccole sculture in porcellana create dagli studenti del laboratorio tenuto presso l’istituto Caselli – Real Fabbrica della Porcellana di Capodimonte. Qual è stato il tuo rapporto con i ragazzi rispetto a questa nuova esperienza?
Sono molto affezionata a questa parte della mostra. La Real Fabbrica della Porcellana di Capodimonte è anche una scuola e con una classe abbiamo raccolto per ognuno di loro qualche sasso all’interno del bosco.
Ne sono state create non una, ma tre copie di impasti differenti, la cui composizione è fondamentale in quanto non è la stessa tecnica di quella realizzata con i maestri. I ragazzi hanno introdotto del quarzo o del nichel per cui acquisiscono una colorazione differente. Il tentativo ha a che fare con lo sperimentare, con il guardare le cose da una prospettiva diversa.
Uno sguardo poetico sull’osservare la componente degli elementi chimici. Un piccolo sasso si è trasformato in un universo.
La pubblicazione a tiratura limitata che accompagna la mostra interpreta un ulteriore passaggio della tua analisi. Dilati ampiamente l’immagine per non renderla riconoscibile. Da dove proviene quest’esigenza? È presente anche un testo critico a cura di Mauro Zanchi che esamina il concetto di imitazione della natura.
“Un conto è vedere, un conto è guardare”. L’origine del mio percorso artistico parte dall’osservazione perché ho studiato fotografia con Guido Guidi che pone sempre molta attenzione al vedere, al guardare (Seuils).
Il fatto che io sia nata e cresciuta a Ravenna ha influito molto sulla mia esercitazione dell’occhio e i luoghi hanno sicuramente a che fare con noi, si trasformano in quello che siamo e l’artista ha la fortuna di produrre immagini e di riproporle come strutture visive.
Al Festival Mind the Gap avevo stampato in grande formato delle fotografie sfumate (Trama) e invece in piccolo altre in cui si distinguevano particolarmente tanti dettagli. Il macro e il micro spingono l’osservatore ad avvicinarsi e ad allontanarsi.
Questo ha molto a che fare con i miei studi di storia dell’arte, i quadri impressionisti devono essere guardati da lontano per avere la visione d’insieme. Attivo il movimento ottico dello spettatore, ravvicino la visione proprio come accade nella pubblicazione di Neutro che non vuole essere un catalogo, con la classica installation view. Ho deciso di fare uso del microscopio per andare vicino alla materia. È sì una fotografia degli oggetti in mostra, ma è anche un inganno dell’occhio, come uno scherzo, per giocare con chi guarda all’identificazione dei manufatti.
Ultimamente ti stai occupando della componente micro della materia. In Elitropia testi le reazioni cromatiche delle sostanze antisettiche. Continuerai su questa via, quali sono le tue prossime sperimentazioni?
L’ultima parte della mia ricerca riguarda un ambito scientifico in cui analizzo i costitutivi delle sostanze, simbolicamente attraverso l’ottica del microscopio, di cui riprendo la circolarità.
Partendo sempre dal marmo, di cui osservo la materia (e non più la sua forma), il carbonato di calcio, che compone anche le nostre ossa. Tutto questo ci racconta come non è solo nelle superfici che noi siamo simili visivamente alla natura, ma anche nella sua essenza.
Sto realizzando delle sculture con diverse materie, per esempio il carbonato di calcio è presente negli esoscheletri di alcuni esseri marini e dei ricercatori stanno lavorando nel reintegrare le ossa con questo materiale in ambito biomedico. Quindi tutto torna: il rapporto tra esseri viventi e non viventi, vegetale, animale, minerale e umano. Ci vuole una sorta di comunicazione e convivenza. A tal riguardo, a giugno un mio lavoro verrà esposto alla mostra Ecophilia, presso il Museo Nazionale della Montagna di Torino.
Mescolo poi antisettici, che sono qualcosa con cui oggi ormai abbiamo una certa dimestichezza, cercando di ritualizzare – cosa che fa spesso l’arte – una prassi contemporanea.
Inoltre, sto realizzando dei disegni su carta con alcuni disinfettanti che, messi in contatto tra loro – due sostanze trasparenti, un gel, un liquido trasparente – creano delle sorte di esplosioni, ma soprattutto sembrano dei batteri paradossalmente, delle nuove forme di vita. È in questa illusione che si inserisce il mio ultimo intervento.
In copertina: Caterina Morigi, Honesty of matter, details, Torino, 2019. Photo: Luca Vianello