Intervista ad Archicart
Io, Renato Guttuso è la mostra presentata presso il Museo Civico di Noto – Ex Convento di Santa Chiara curata da Giuliana Fiori e nata come iniziativa all’interno del Settore VIII – Programmazione Turistica e Cultura, dell’Assessorato al Turismo e allo Spettacolo e dell’Assessorato alla Cultura del Comune di Noto, nell’ambito della tematica artistica, scelta per l’anno 2020 “La Sicilia, i Siciliani e la sicilitudine”. Visitabile fino all’11 ottobre.
In linea con il riguardo per la questione ambientale e la sostenibilità, l’organizzazione Sikarte, associazione culturale siciliana (leggi qui), ha deciso di affidare una parte dell’allestimento ad Archicart – architettura di cartone -, giovane azienda catanese che ha pensato all’architettura contemporanea non come uno spazio infinito, ma come realtà ecosostenibile temporanea ed effimera, in grado di ridurre al minimo l’impatto della lavorazione con l’ambiente. L’uso del cartone ondulato, un materiale reversibile e riutilizzabile, sposa appieno il concept del progetto.
“La declinazione della poetica dell’effimero nell’architettura di cartone”. La vostra dichiarazione di intenti ha il suono di una presa di consapevolezza del valore della contingenza in funzione di una costruzione evanescente. Da dove nasce l’idea di realizzare architetture di cartone?
La parola chiave è Durabilità. È diffusa la cultura che a questa parola si associno proprietà come resistenza, peso. In questo modo un edificio “che dura” è necessariamente pesante, massivo, immutabile. L’architettura però porta con sé molto altro, valori che non si esauriscono nella sua consistenza strutturale. In un mondo in continuo cambiamento, l’architettura “che dura” è quella che si lascia modellare dalle nuove esigenze, e così non può che essere leggera, reversibile. Il cartone è un materiale leggero, ecosostenibile, totalmente riciclabile che, con semplici operazioni, abbiamo posto alla base del nostro processo produttivo aziendale, risultando incredibilmente resistente.
Dal vostro portfolio, si evince una particolare duttilità del prodotto a diverse esigenze costruttive. Com’è stato cimentarvi in un progetto di allestimento di una mostra d’arte?
In ogni lavoro, che siano le separazioni interne in uno spazio di vita, di casa o di un ufficio, o che si tratti di oggetti-installazioni di breve durata per un evento, entriamo in contatto con il movimento delle persone, nella maniera con cui tutti noi usiamo e attraversiamo gli spazi. In una esposizione museale il veicolo principale di movimento sono gli occhi del visitatore ed è sull’equilibrio fra le opere esposte e il suo sguardo che si gioca la riuscita dell’intervento. In questo senso, l’inserimento di un oggetto “altro” rappresenta un’operazione delicatissima. Cerchiamo sempre di farlo trovando i giusti rapporti, le proporzioni con le opere e gli sguardi e, necessariamente, pure con gli spazi in cui questi si incontrano. Per il resto, la dimensione dell’allestimento di una mostra o di un evento si sposa perfettamente con il cuore del nostro progetto: è una dimensione effimera, transitoria, ma destinata a lasciare traccia permanente nella mente dei fruitori.
Potete illustrarci le diverse fasi che vi hanno coinvolto nella progettazione dei pannelli e delle didascalie presenti nel percorso espositivo, oltre che del desk presente all’ingresso della mostra? Come siete riusciti a coniugare il contemporaneo con i resti antichi custoditi al Museo Civico di Noto? Un dialogo tra secoli all’interno delle mura barocche dell’ex Convento di Santa Chiara.
Il nostro lavoro è soprattutto un’operazione di ascolto. Il confronto entusiasmante con Sikarte e la visita preliminare dell’ex Convento di Santa Chiara hanno permesso di individuare la misura con cui inserirsi nel percorso espositivo. Ognuno dei pannelli didascalici entra in una relazione precisa con le opere, con i volumi unici del Museo Civico che immettono chi visita la mostra in un percorso sospeso e misterioso. Così ci siamo decisi a lasciare “a vista” il nostro materiale, inserendo una prima traccia già nella postazione di accoglienza all’ingresso. Chi visita la mostra affronterà un piccolo percorso di scoperta e di immaginazione. Scorgerà una nuova dimensione, più intima, del grande artista; scorrerà i volumi indefiniti dell’ex Convento che si spingono dove l’occhio non riesce ad arrivare; riconoscerà una materia insolita, il cartone, rivelatrice di quella dimensione effimera dell’abitare i luoghi che speriamo di trasferire con il nostro lavoro.
Cosa pensate che possa nascere da questa nuova collaborazione? Avete già in mente altre esposizioni?
È necessario immaginare una nuova normalità, fatta di azioni volte a ridurre il nostro impatto negativo sull’ambiente e sulle generazioni future. In questa normalità ci sarà lo spazio che l’arte ha sempre avuto, di questo siamo sicuri, e sarà un’arte normalmente ecologica, normalmente sostenibile, normalmente leggera. Il nostro impegno è largamente rivolto alla fabbrica edilizia. Siamo un team di architetti e ingegneri con il sogno di raggiungere le case, gli uffici, i luoghi di vita delle persone. Saremo sempre entusiasti di intervenire in future opportunità proposte dalle esposizioni museali, dagli allestimenti per eventi seminaristici o fieristici, perché sono i luoghi in cui i princìpi cui costantemente pensiamo mentre facciamo il nostro lavoro, trovano immediata applicazione.